Diritto alla Storia, L'eversione della feudalità

Diritto alla Storia - Capitolo 28

La spietata reazione della monarchia borbonica, la protezione offerta a bande di sedicenti realisti che sconvolgevano la civile convivenza con saccheggi e soprusi, alienarono presto le simpatie di cui re Ferdinando IV aveva goduto. L’economia del regno era allo sfascio, i terreni posti sotto sequestro erano rimasti incolti, causando una preoccupante penuria di prodotti alimentari.

L’11 luglio 1800 il pro-amministratore Pinto concesse una pensione di 10 ducati al mese alla signora Prudenza Spinelli di Montefusco ed alle due nipoti, nate dal figlio di lei Francesco. I fondi per la pensione dovevano essere tratti dai proventi derivanti dai beni confiscati in Paterno alla Casa Carafa d’Andria4, ma i terreni feudali, ormai abbandonati, non producevano reddito alcuno.

La popolazione di Paterno si era ridotta a 2475 unità5. Sul paese aleggiava lo spettro della fame, destinato, in breve tempo, ad assumere proporzioni allarmanti. Mancò il grano nel corso del primo inverno del secolo, innescando pericolose tensioni sociali. Nel periodo compreso fra il 1801 ed il 1802 Pasquale de Rienzo era, insieme con altri, deputato dell’annona e, quantunque inabile, non poté esentarsi (dimettersi), per non essere soggetto alle violenze di cittadini, li quali in detto anno sì penurioso clamoravano per il pane (protestavano per la carenza di pane) senza sentire scuse1.

Il 10 febbraio 1801, quale precondizione posta dai Francesi per l’armistizio di Foligno firmato il 18 dello stesso mese, Ferdinando IV dovette sciogliere la sanguinaria Giunta di Stato. Comunque il provvedimento fu ritenuto insufficiente e, nel trattato di pace stipulato a Firenze il successivo 28 marzo, la Francia pretese l’inclusione di un articolo, il VII, che testualmente recitava: il re di Napoli si obbliga ancora a permettere che tutt’i suoi sudditi, che fossero stati perseguitati, banditi in esilio, o costretti ad espatriare volontariamente per gli avvenimenti relativi al soggiorno dei Francesi nel regno di Napoli, ritornassero liberamente nel loro paese, e fossero reintegrati nei loro beni.

In ossequio a tale impegno, con regie disposizioni del 5 giugno 1801 e del successivo 25 luglio, si ordinò il dissequestro di tutti i beni confiscati sia ai sudditi che ai cittadini di altri stati, nonché la restituzione ai legittimi eredi delle proprietà sottratte a chi era stato sottoposto a pena capitale.

Ne beneficiò, fra gli altri, la famiglia Carafa d’Andria che fu reintegrata nel possesso del feudo di Paterno e, in data 1 marzo 1802, Francesco Carafa, secondogenito di Riccardo, potette delegare don Carlo Rossi all’amministrazione dei propri beni: Francesco Carafa, Duca d’Andria e del Castel del Monte, Conte di Ruvo, Marchese di Corato, ed Utile Signore delle Terre di Maschito, di Campolieto e Campodipietra, ecc. - Essendo nostra premura, e dovere di prescegliere, e destinare una persona proba, ed onesta, che presieda, e invigili agli affari tutti del n.ro Feudo di Paterno; e confidando noi molto nell’abilità, prudenza, integrità, ed altre lodevoli prerogative, che concorrono nella persona di D. Carlo Rossi; ci siamo perciò indotti ad eleggerlo, come in vigore della presente lo eleggiamo, e deputiamo per nostro agente in d. n.ro (detto nostro) Feudo; conferendogli tutte le facoltà necessarie per poter esigere le nostre rendite, accudire ai nostri interessi, sostenere i diritti, i privilegi, e le prerogative, che ci competono, e procurare ben anche i vantaggi, e la quiete del Pubblico, per quanto sia in suo arbitrio. Vogliamo quindi, ch’egli abbia a godere di tutti gli onori, gaggi, lucri, ed emolumenti goduti da’ suoi Predecessori; e preghiamo così il Governatore, come i Pubblici Rappresentanti, ed ognunaltro a chi spetta, di riconoscerlo, trattarlo, e stimarlo per nostro Agente, presentandogli altresì ogni assistenza, ed ajuto, nelle occorrenze di nostro servizio; ed in ricambio gli assicuriamo della nostra grata corrispondenza. In fede di che ne abbiamo fatta spedire la presente sottoscritta da noi, e dal n.ro Seg.rio (nostro segretario), e munita col solito n.ro Sigillo. - Data in Napoli dal Palazzo di n.ra residenza questo dì p.mo marzo 1802 - Il Duca d’Andria2.

Tuttavia nulla fu fatto per porre un freno all’attività persecutoria sanfedista, i cui autori continuavano a godere di appoggi e protezioni ispirate da solidarietà antigiacobina. Ne fu un tipico esempio il brigante Antonio Zagarese di San Mango. Costui, nel momento in cui era divenuta palese l’imminenza della loro sconfitta, non aveva esitato ad abbandonare i repubblicani per porsi al servizio del colonnello De Filippis nell’avanzata per la riconquista di Napoli. Al termine del conflitto era tornato alla sua primitiva attività banditesca, questa volta nelle dissimulate vesti di paladino della risorta monarchia. Arrestato per delitti precedentemente commessi, fu condannato alla pena capitale. Venutone a conoscenza, il colonnello De Filippis si premurò di intercedere per lui, testimoniando sui servigi resi alla causa regia ed ottenendo che la pena gli fosse commutata in carcere a vita.

Diversa sorte toccò ai fratelli Rossi di Paterno. Nonostante la loro fede borbonica furono arrestati per la caparbia determinazione dello Speltra che, antico giacobino da loro perseguitato, si impegnò con tutte le sue forze perché gli fosse resa giustizia1.

Ma se il comportamento dei Rossi era dettato da sincera fede politica, altri si servivano delle garanzie di impunità per dar sfogo ad istinti puramente criminali. In Paterno, in panni sanfedisti, Amato e Pasquale Passaro, fratelli, erano due perfidi forosciti (scapestrati) disturbatori al sonno della pubblica pace, tanto vero, che per li tanti delitti giornalmente commettevano, avevano spaventato, atterrito, ed intimorito tutto il Paese, e la gente tutta s’era resa soggetta alla loro selvacità; ... Pasquale in fine morì ammazzato per gelosia di Concettina2.

In questo clima di precarietà e di paura, ad opera di un personaggio dalla personalità discussa, doveva essere introdotto un nuovo elemento di confusione destinato a produrre non poco turbamento nella comunità. Il 20 agosto 1802, il dottor Ciro Mattia, morente, fece chiamare al proprio capezzale, nella casa Palaziata di sua solita abitazione, sita in ristretto di questa terra, luogo detto S. Vito, il notaio Francesco d’Amato al quale dettò le sue ultime volontà. L’uomo indicò come destinatario di tutti i suoi beni stabili, e mobili il Pio Albergo dei Poveri della città di Napoli, con condizione, e patto, che debba esso Reale Albergo costituire in questa terra di Paterno un Orfanatrofio, per l’educazione e mantenimento non solo delle zitelle e ragazzi di questa terra di Paterno, ma benanche quelli della Diocesi di Frigento, in tutto servata la regola, ed il metodo di detto Reale Albergo3.

Non appena ne furono informate, le sorelle di lui Donna Tomasina e Donna Mariantonia, e la moglie Donna Marianna Miranda fecero richiamare d’urgenza il notaio Francesco d’Amato perché annullasse la disposizione testamentaria. Il pubblico funzionario se ne dichiarò disponibile purché questa fosse stata la volontà del donante; ma il moribondo, supplicato e finanche minacciato dalle congiunte, si mostrò irremovibile. A nulla valsero neppure le argomentazioni e le pressioni a cui fu sottoposto dagli amici che, nelle ore successive, si avvicendarono al suo capezzale4.

Ciro Mattia esalò l’ultimo respiro il 22 agosto 1802, Nonostante il comprensibile rancore covato dai familiari, gli fu riservata, nel cimitero presso la chiesa maggiore, una cerimonia funebre degna del suo rango.

Tuttavia le sorelle e la moglie non si erano rassegnate alla perdita dell’eredità, sicché alcuni giorni dopo il funerale, allo scopo di invalidare il testamento, convocarono in casa propria un certo numero di persone, fra cui il sacerdote di Castelfranci Don Samuele Tecce, perché testimoniassero che al momento del trapasso Ciro Mattia aveva espresso l’intenzione di modificare la destinazione dei suoi beni a favore dei propri congiunti. Ma li fratelli D. Pasquale, e D. Giuseppe Mele, Mastro Pasquale Forino scandalizati del falzo che volevasi impiantare, riluttarono intervenirvi, e scapparono di casa, vanificando anche questo estremo tentativo di porre rimedio all’insano capriccio del vecchio dottore5.

Se Ciro Mattia aveva voluto compiere un gesto che gli meritasse ammirazione e riconoscenza, almeno nel breve termine non raggiunse lo scopo che si era prefisso. Artatamente, al fine di avvalersene nella causa subito intentata che li contrapponeva al Pio Albergo dei Poveri di Napoli, si tentò da parte dei familiari di accreditare la tesi dell’insania mentale.

Anche il suo sepolcro era destinato ad essere profanato. Rimosso dall’incarico di sacrestano mastro Basilio Balestra, ne aveva assunto le funzioni Pasquale Natale su cui gravavano non infondati sospetti di furto continuato di arredi sacri. Ebbene, si videro i familiari di quest’ultimo indossare le vesti guarnite con i preziosi castori che avevano ornato l’abito di Ciro Mattia al momento della sua tumulazione1.

Intanto il brigantaggio di ispirazione borbonica, osteggiato in Irpinia dal solo Lorenzo de Concilj, andava assumendo dimensioni incontrollabili. Nel giugno del 1803 una comitiva di malviventi fece la sua apparizione nella vicina Fontanarosa e il de Concilj, immediatamente intervenuto, ne trasse in arresto un buon numero; ma subito contro di lui si levò, da parte di alcuni settori, un vibrante coro di proteste, definendo i suoi metodi eccessivamente repressivi.

Le diffuse attività persecutorie, che godevano di palesi coperture politiche, esasperavano gli animi e spingevano alla ribellione, sicché, nel 1803, si tentò in Calabria una cospirazione giacobina. Il pericolo di un rigurgito del radicalismo repubblicano incrementò il numero delle bande costituite a difesa della monarchia, con conseguente recrudescenza della criminalità e l’adozione di una generalizzata omertà generata da un bisogno di solidarietà di gruppo da opporre ad un potere che, ormai incapace di acquisire consensi, aveva finito con l’imporsi con la violenza. Fu questa la ragione per cui Genesio Santucci, sua moglie Mariantonia Grasso, Gennaro del fu Nicola Barbieri, Nicola Felice Rosanio del fu Francesco e Benedetto Grasso, cittadini di Paterno, si coalizzarono per scagionare l’indiziato di un duplice omicidio, asserendo che la sera de undici di novembre dell’anno milleottocento, e tre, dall’ore due della notte, sino all’ore quattro, e mezze (dalle ore 20 alle ore 22,30 circa), tempo in cui nella convicina terra di Castello de Franci furono a colpi di schioppettata uccisi Dionisio di Palma, ed Alessandro Cresta della stessa terra di Castello de Franci, Giuseppe Saldutti, figlio del fu Vincenzo, della medesima terra, si trattenne in casa di detto Genesio Santucci, da cui partì posteriormente alle ore quattro, e mezze2.

Il 7 luglio 1804 Francesco Carafa, secondogenito di Riccardo, ottenne l’intestazione del feudo di Paterno3. Come il resto del regno, era un paese sconvolto dalla violenza che non poteva più essere giustificata con la contrapposizione politica, dal momento che il radicalismo giacobino era stato privato del suo specifico riferimento in quanto Napoleone aveva pacificato la Francia, ponendosi al di sopra delle fazioni, e, con la firma del Concordato, aveva posto fine al conflitto con la Chiesa.

Il 2 dicembre 1804, il condottiero corso si incoronò imperatore alla presenza del papa e, il 26 maggio 1805, a Milano, cinse la corona di re d’Italia.

Il 26 luglio di quell’anno, poco dopo le ore 10 antimeridiane, la terra fu sconvolta da un violento terremoto il cui epicentro fu localizzato nel Molise. Ne riportarono danni Montefusco ed Avellino, come pure Mirabella, Taurasi, Fontanarosa e Gesualdo4, ma non Paterno dove fu voce comune di tutta quella popolazione che l’efficace protezione della loro pietosa Madre di Consolazione l’aveva preservata da’ terribili effetti di un tale flagello5.

Il 21 ottobre 1805, nella battaglia di Trafalgar, l’Inghilterra inflisse una dura sconfitta alle truppe napoleoniche. L’insperato successo dette nuovo vigore ai nemici della Francia e Napoleone si trovò a dover fronteggiare una coalizione anglo-russo-austriaco-napoletana organizzata da Pitt, su cui però, il 2 dicembre 1805, riportò una completa vittoria ad Austerlitz.

Il pericolo di una nuova invasione incombeva su Napoli ed il 27 gennaio 1806 Ferdinando IV, onde evitare che cadessero in mani francesi, ordinò che fossero dati alle fiamme tutti gli incartamenti relativi ai processi celebrati contro i giacobini. Pochi giorni dopo il re fuggì a Palermo e, il 14 febbraio 1806, 40.000 Francesi al comando del generale Massena occuparono Napoli.

Non vi furono reazioni popolari. Il Massena istituì presidi militari per il controllo del territorio e Paterno ricadde sotto la giurisdizione di quello di stanza a Mirabella. Alla fine di marzo Giuseppe Bonaparte fu incoronato re di Napoli e, per arginare il fenomeno della criminalità, decretò il disarmo dei civili.

Ebbe l’incarico di requisire le armi in possesso dei cittadini di Paterno il tenente francese Vittorio Amedeo La Sat. Questi, giovandosi della collaborazione dei maggiorenti locali, fu messo in condizione di portare a termine il proprio compito ancor prima dello scadere del mese di aprile. In segno di riconoscenza, l’ufficiale si astenne dal sequestrare i fucili di proprietà di coloro che gli avevano agevolato il lavoro, ma qualcuno segnalò il gesto discriminante al maggiore Sax in Mirabella. Fu da questi inviato a Paterno, perché completasse l’operazione di disarmo, il tenente Bernard a cui si oppose tenacemente il collega La Sat, difendendo le ragioni del proprio operato fino a sfidarlo a duello.

Il rapporto che ne fece il tenente Bernard mandò su tutte le furie il maggiore che si apprestò a raggiungere personalmente Paterno con l’intento di metterlo a sacco e a fuoco. Avvertiti da amici di Mirabella, i cittadini di questo paese, atterriti, si raccolsero in preghiera dinanzi all’altare di Maria Santissima della Consolazione. Erano le ore 19,30 di un venerdì. In quello stesso momento il maggiore, guadato il fiume Fredane coi propri dragoni, posto piede sul territorio di Paterno, fu inesplicabilmente sbalzato di sella. Rimontato a cavallo, fu disarcionato una seconda e, quindi, ancora una terza volta. Sorpreso, turbato, a questo punto manifestò l’intento di desistere dai propri propositi e la cavalcatura ne risultò immediatamente rabbonita.

Una volta a Paterno il maggiore si informò su chi proteggesse questa terra, ed essendogli stato risposto che il paese era sotto l’amorosa tutela della Vergine della Consolazione, ammirato e commosso se ne tornò al proprio presidio1.

Nella mutata scena politica si estinse la follia reazionaria e criminale, tornarono di prioritario interesse i problemi di sempre. La disputa intorno all’eredità di Ciro Mattia si era impelagata nei meandri giudiziari e non se ne intravedeva una rapida soluzione. Il 9 aprile 1806, D. Tomasina e D. Mariantonia, germane sorelle di Mattia di questa suddetta terra di Paterno, impossibilitate a presenziare alle fasi dibattimentali in Napoli, in quanto inabilitate dal sesso femineo e dalla cura di loro rispettive famiglie, delegarono i propri mariti don Luigi d’Amato e don Domenico de Sica a rappresentarle nella vertenza con il Real Pio Collegio de Poveri della città di Napoli, relativamente all’eredità ed al mal ordinato testamento fece il di loro comune fratello germano D. Ciro Mattia2.

Fu ripristinata la legalità e, perché il nuovo orientamento apparisse chiaro ed inequivocabile, la risposta ai reati fu improntata al massimo del rigore. Lo sperimentò Angelantonio di Carmine Palermo che, il 4 maggio 1806, fu ristretto nelle Baronali carceri di questa terra per un colpo di pietra tirato in una rissa a Giovanni di Amato3.

Il 25 maggio 1806, nel giorno della Pentecoste, a riprova della gratitudine per la protezione concessa a Paterno in questi anni tumultuosi, l’Immagine della Madre Santissima della Consolazione fu incoronata, per la seconda volta, dal vescovo di Avellino e Frigento monsignor Don Sebastiano De Rosa. La corona d’oro ed il collare di cui fu adornata l’Effigie erano stati appositamente realizzati per l’interessamento di un gioielliere napoletano, don Antonio Montuoro, il quale generosamente aveva voluto contribuirvi con l’offerta di una cospicua somma1.

Il governo centrale appariva ormai consolidato, con i ministeri di Polizia, Interno, Finanze e Guerra retti da Francesi. Non restava che operare il rinnovamento delle cariche periferiche, e re Giuseppe Bonaparte vi provvide con decreto n. 239 del 24 luglio 1806 che valse a mettere da parte i governatori compromessi col vecchio regime ed ostili alle riforme a cui ci si apprestava. In luogo di Gaetano Vovolo fu nominato governatore di Paterno Mariano Venditti di Napoli. A San Mango Antonio Pilosi fu sostituito con Gaetano Colletta di Napoli, e a Fontanarosa Bonaventura Pescatore dovette cedere il posto a Giuseppe Recupito di San Bartolomeo. Subentrarono, rispettivamente: Donantonio Ricci di Montagano a Michele Antonelli in Villamaina, Giuseppe de Deo di Minervino a Giuseppe Macciano in Torella, Giuseppe Gianlorenzo di Ariano a Francesco Cicirotti in Castelfranci, Michele Viti di Terlizzi a Vincenzo Cenghi in Montemarano, Beniamino Cavallo di Lucera a Giacomo Bottiglieri in Castelvetere, Bartolomeo de Nigris di San Bartolomeo ad Antonio de Luca in Luogosano, Natale Amato di Napoli a Giuseppe de Matteis in Taurasi, Bartolomeo Catenaccio di Napoli a Pasquale Pisapio in Gesualdo2.

Solo pochi giorni dopo fu compiuto il passo più significativo sul cammino delle riforme. Fu infatti il 2 agosto 1806 che fu promulgata la legge per l’abolizione della feudalità. Lo Stato avocò a sé le giurisdizioni baronali e relativi proventi, ed assoggettò indistintamente ad imposte tutte le terre mediante l’abrogazione dei privilegi di esenzioni tributarie concessi a vario titolo. Furono aboliti gli antichi diritti baronali quali le angarie, le prestazioni gratuite, i privilegi sulle acque e le dogane, per i quali però fu previsto un indennizzo. Vennero invece fatte salve le rendite derivanti dai beni immobili di cui il feudatario era diretto proprietario.

Sebbene il provvedimento non si traducesse in tangibili, immediati vantaggi per la classe contadina, l’eversione della feudalità, che era stato un secolare istituto di oppressione civile ed economica, ispirò ad uno scrittore del tempo la lapidaria espressione: Non vi ha popolo degli antichi feudi, il quale non debba in bianca pietra scolpire il secondo giorno dell’agosto 1806 in cui fu sanzionata la legge immortale dell’abolizione del feudalismo3.

Piuttosto scarsi erano stati invece i risultati fino ad allora conseguiti nella lotta al brigantaggio, soprattutto per l’insufficienza delle forze preposte al controllo del territorio. Re Giuseppe Bonaparte non aveva fatto nulla per riorganizzare l’esercito napoletano. Non era stato soppresso l’obbligo del servizio di leva, della durata di quattro anni, tuttavia se ne era incoraggiata la defezione con la possibilità afferta ai giovani di riscattarsene mediante contributi in danaro.

A tale forma alternativa aveva fatto ampiamente ricorso Paterno, ed ancora il 31 maggio 1807, alla presenza del notaio Antonio Francesco d’Amato, 73 giovani soggetti all’obbligo del servizio militare versarono nelle mani di don Nicola Famiglietti, eletto cassiere, contributi per complessivi ducati 96,50, che andarono a sommarsi ai 297,50 già depositati in cassa4.

Nell’anno 1808 Giuseppe Bonaparte fu chiamato ad occupare il trono di Spagna e gli succedette in Napoli Gioacchino Murat, cognato di Napoleone. Il nuovo re continuò la politica delle riforme iniziata dal suo predecessore e dette nuovo impulso alla dismissione dei beni del clero iniziata nel 1807. Anche se le vendite, ben oltre le buone intenzioni del governo, favorirono la costituzione di latifondi, il fenomeno ebbe proporzioni contenute in Paterno dove, seppure le poche famiglie facoltose trassero degli innegabili vantaggi, numerosi fittavoli e censuari colsero l’occasione per trasformarsi in piccoli proprietari terrieri.

Si erano finalmente create le condizioni per una migliore qualità della vita, eppure il 1808 fu un anno nefasto per Paterno. Con l’inizio dell’estate una epidemia virale colpì la popolazione, con effetti devastanti per la fascia d’età compresa fra lo zero ed i sei anni. Su 123 nati si contarono 112 decessi, con punta massima di mortalità nel mese di luglio in cui il caldo e le condizioni igieniche sfavorevoli acuirono l’incisività del morbo1.

Nello stesso periodo il paese dovette far fronte alle pretese dell’ex feudatario Francesco Carafa d’Andria che aveva avanzato presunti diritti di proprietà sul beneficio della chiesa di San Michele Arcangelo, ivi compresi i beni ad esso annessi. La lite si risolse a favore della municipalità, che aveva sostituito il termine “università” nella definizione di una entità territoriale, con sentenza della Commissione Feudale del 26 aprile 1810.


4 Francesco Scandone: Documenti per la storia dei comuni dell’Irpinia, Vol. II - Avellino 1964.

5 Lorenzo Giustiniani: Dizionario geografico ragionato del Regno di Napoli, Tomo VII - Napoli 1804.

1 Archivio di Stato di Avellino - Protocolli notarili, Distretto di Sant’Angelo dei Lombardi: Notai di Paternopoli - Fasc. 1925.

2 Archivio privato del prof. Giovanni Maccarone di Paternopoli - Documento originale in foglio legale da carlini cinque.

1 Francesco Scandone: Giacobini e Sanfedisti nell’Irpinia, in Archivio storico per le province napoletane - Nuova serie - Anno 1930.

2 Archivio di Stato di Avellino - Protocolli notarili, Distretto di Sant’Angelo dei Lombardi: Notai di Paternopoli - Fasc. 1937.

3 Archivio di Stato di Avellino - Protocolli notarili, Distretto di Sant’Angelo dei Lombardi: Notai di Paternopoli - Fasc. 1925.

4 Archivio di Stato di Avellino - Protocolli notarili, Distretto di Sant’Angelo dei Lombardi: Notai di Paternopoli - Fasc. 1924.

5 Archivio di Stato di Avellino - Ibidem.

1 Un Irpino: Uno scandalo in Irpinia nell’epoca borbonica, in Paternopoli (Avellino) - Avellino 1966.

2 Archivio di Stato di Avellino - Protocolli notarili, Distretto di Sant’Angelo dei Lombardi: Notai di Paternopoli - Fasc. 1926.

3 Erasmo Ricca: Istoria de’ feudi delle Due Sicilie, Vol. III - Napoli 1865.

4 Salvatore Pescatori: Terremoti dell’Irpinia - Avellino 1915.

5 Giuseppe De Rienzo: Notizie storiche sulla Miracolosa Effigie di Maria SS. della Consolazione, precedute da un saggio istorico sulla terra di Paterno - Napoli 1821.

1 Giuseppe De Rienzo: Notizie storiche sulla Miracolosa Effigie di Maria SS. della Consolazione, precedute da un saggio istorico sulla terra di Paterno - Napoli 1821.

2 Archivio di Stato di Avellino - Protocolli notarili, Distretto di Sant’Angelo dei Lombardi: Notai di Paternopoli - Fasc. 1926.

3 Archivio di Stato di Avellino - Protocolli notarili, Distretto di Sant’Angelo dei Lombardi: Notai di Paternopoli - Fasc. 1925.

1 Giuseppe De Rienzo: Notizie storiche sulla Miracolosa Effigie di Maria SS. della Consolazione, precedute da un saggio istorico sulla terra di Paterno - Napoli 1821.

2 Francesco Scandone: Documenti per la storia dei comuni dell’Irpinia, Vol. II - Avellino 1964.

3 Citata in Manfredi Palumbo: Prima e dopo le leggi eversive della feudalità - Montecorvino Rovella 1910.

4 Archivio di Stato di Avellino - Protocolli notarili, Distretto di Sant’Angelo dei Lombardi: Notai di Paternopoli - Fasc. 1927.

1 Archivio della Parrocchia di San Nicola di Paternopoli - Registri dei battezzati e Registri degli infanti morti.

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