Prole numerosa, gravosità del lavoro, sistema educativo improntato a severità sono forse i fattori che non hanno favorito lo sviluppo favolístico. Sono pochi, infatti, i racconti pervenutici in rapporto al lungo arco di tempo in cui si sono generati e modellati, e certamente costituirono patrimonio comune con le aree limitrofe, di cui le nostre genti condividevano vicende storiche e formazione culturale. A conferma di tale ipotesi, si rinvengono qua e là tracce di esposizione narrativa in versi, a rivelarne una probabile diffusione ad opera di cantastorie girovaghi. Ciò induce a ritenere che in origine la narrazione non fosse destinata all'infanzia, e solo in epoche relativamente recenti abbia assunto connotazioni che ne facessero l'unica destinataria.
Più spesso i bambini sedevano, attenti, ad ascoltare gli adulti nelle sere di inverno e, dalle loro rievocazioni, suggevano l'antica superstizione e la paura che, come una maledizione, attraverso storie nefande e arcani eventi, veniva tramandata di generazione in generazione.
Nelle fiabe, che spesso evidenziano analogie con la più vasta produzione favolistica europea a testimonianza di comuni origini da antiche leggende diffuse per effetto delle numerose ondate migratorie dei popoli e delle conseguenti commistioni di culture, domina il fantastico e incombe la presenza di persone defunte, assurte al ruolo di divinità tutelari, in una inscindibile connessione fra vita terrena ed ultraterrena.
Col mutare dei tempi, poi, si osserva il graduale superamento del culto del soprannaturale per evolvere nell'esaltazione dell'arguzia, intesa come strumento di affrancazione. Unica costante rimane l'aspirazione al riscatto dalle miserie e dai soprusi perpetrati dai potenti.
Fondamentale fu dunque il contributo de li cunti (Le fiabe) nell'alimentare il culto dell'arcano e nel consolidare, sin dalla più tenera età, le radici della superstizione.