Almeno una volta a settimana Francesco si recava a far visita alla figlia maritata in contrada Mattine, ed ogni volta sua moglie gli riempiva la sacca della cavalcatura con castagne di Montella, nocciole, fichi secchi e biscotti al miele che a `quera criatura' (quella bambina) piacevano tanto. Era diventata ormai una consuetudine, tanto che lui non ci scherzava nemmeno più.
Presso il genero Francesco passava tutto un pomeriggio, prima a dare un'occhiata ai campi e qualche consiglio sulla conduzione del lavoro, poi a rispondere alle domande della figlia che un po' di nostalgia per Castelfranci l'aveva ancora, nonostante si fosse accasata da più di un anno.
Di solito si tratteneva a cena, prima di prendere la strada del ritorno. Quella sera poi, che era di sabato, se l'era presa veramente comoda, tanto che al momento del commiato il buio si era fatto così fitto che non si riusciva a distinguere neppure il grosso gelso che con la sua rigogliosa chioma sovrastava quasi per intera l'aia. Fortuna che la giumenta conosceva la strada, tante erano le volte che l'aveva percorsa! Ben presto, in sella, vuoi per la cena abbondante, vuoi per quel bicchiere in più che ogni buona compagnia impone, fu sopraffatto da un piacevole torpore da cui si scuoteva solo a tratti per incitare l'animale quando il passo si faceva troppo lento. Così, quando uno scarto improvviso della giumenta lo richiamò bruscamente alla realtà, fu sorpreso di trovarsi già presso il cimitero di Castelfranci.
La bestia s'era fermata. Sbuffava, scuotendo il capo. Egli scosse le briglie, ma quella si impennò, scalciò, arretrò. Allora le serrò con vigore le ginocchia contro i fianchi e, spazientito, levò la mano per colpirla, ma un vagito dal ciglio della strada lo fermò. Ecco dunque cosa aveva spaventato la giumenta! Sospirò rattristato: qualche snaturata si era liberata in quel punto del frutto della propria colpa. Una volta era diverso: se si era commesso l'errore, oppure non si avevano i mezzi per allevare un figlio, lo si lasciava sul sagrato della chiesa, non lungo una strada deserta, e per giunta di notte.
Smontò da cavallo. Il bambino era avvolto in uno scialle scuro e solo il suo pianto disperato poteva rivelarne la presenza. Francesco lo prese delicatamente in braccio: per quella notte lo avrebbe portato a casa, poi se ne sarebbero occupate le autorità.
Il bimbo si chetò. La giumenta nitriva, scalpitava, appariva nervosa. Era sempre stata una bestia sensibile. Francesco la carezzò sul muso prima di montarle nuovamente in groppa. L'animale scosse furiosamente il capo, si impuntò, ma egli le serrò i talloni contro i fianchi costringendola a muoversi.
Non ebbe percorso che un centinaio di metri che Francesco ebbe la sensazione che il bimbo si fosse fatto più pesante. Il braccio su cui lo reggeva gli si era addirittura indolenzito e la giumenta, che non aveva smesso di dar segni di nervosismo, appariva affaticata. Provò a scacciare queste assurde fantasie, ma un senso di disagio, un presentimento vago gli insidiavano l'animo. Stizzito, trasse di tasca la scatola dei fiammiferi e ne accese uno. La fiammella illuminò, seminascosto fra i lembi dello scialle, un volto rugoso dalla barba ispida, un ghigno maligno in due occhi piccoli e cisposi, due labbra dischiuse in un sorriso beffardo.
Inorridito, Francesco, lasciò cadere il fagotto sulla via e questo, in una fiammata, scomparve, mentre la giumenta, come liberata da un peso enorme che l'opprimeva, si lanciò in un galoppo deciso verso casa.