Diritto alla Storia, Prosperità di chiese e cappelle

Diritto alla Storia - Capitolo 18

Fabrizio Gesualdo II, signore di Paterno dal 1584, aveva sposato Geronima Borromeo, sorella di Carlo santificato nel 1610, da cui aveva avuto quattro figli: Luigi, Carlo, Vittoria ed Isabella.

Carlo, il secondogenito, aveva sposato sua cugina Maria d’Avalos de Aquino, figlia del principe di Montesarchio e di Sveva Gesualdo, e dalla loro unione era nato Emanuele. Al bambino non era stato imposto il nome del nonno, avendo inteso riservare tale privilegio al primogenito Luigi, ma questi, dopo la nascita di Emanuele, era prematuramente venuto a mancare all’età di ventuno anni.

A Napoli, coinvolta nella brillante vita di corte improntata a svaghi e trasgressioni, Maria d’Avalos si era invaghita di Fabrizio Carafa, terzo duca d’Andria, e ne era diventata l’amante. Carlo Gesualdo, avvertito della tresca, nella notte compresa fra il 16 ed il 17 ottobre 1590 sorprese i due amanti, trucidandoli.

Suo padre, Fabrizio II, ricopriva la carica di Regio Consigliere di re Filippo II di Spagna e la sua influenza valse ad evitargli il processo, tuttavia egli fu costretto ad abbandonare la capitale divenutagli ostile per rifugiarsi nel castello di Gesualdo.

Il 1° aprile 1951 il viceré conte di Miranda accordò a Fabrizio Gesualdo II l’investitura della contea di Conza, nonché quella della città di Venosa cum titulo Principatus ipsi Loysio ... datum Toleti die XXX maj 15611.

con il titolo di principe, allo stesso Luigi suo padre ... concesso in Toledo il giorno 30 maggio 1561.

In quell’occasione il feudatario donò al figlio Carlo tutti i suoi beni, pur riservandosene ogni diritto fino alla propria morte.

L’università di Paterno viveva il suo periodo più florido, come documenta la copiosa produzione notarile. Iniziava a quel tempo l’attività di pubblico notaio Donato di Mastro Domenico, che della circostanza prendeva nota in questi termini: Primum Protocollum Incipit Mei Notari Donas Dom.co terre Paternj province principatus ultra ... hodie decimo nono mese oc.bris sex.e Ind. 15922.

Primo registro che fu iniziato da me, notaio Donato Domenico, della terra di Paterno, della provincia di Principato Ultra ... oggi, 19 ottobre, sesta indizione, anno 1592.

Si arricchiva di nuove abitazioni il borgo. Si edificava nell’area gravitante intorno alla porta di Castello ove le case dei maggiorenti, munite di grate di ferro alle finestre e di torri angolari provviste di feritoie, affacciavano su via della Dogana. Al disotto della Chiesa Madre, fra via della Dogana ed il Seggio, a ridosso degli orti e delle più vetuste case in muratura, un groviglio inestricabile di sovrapposti tuguri aveva originato un dedalo di viuzze putride e scure, ingombre di ripide scale e soffocate da archi e da bui sottopassaggi, che rispondevano ai nomi di Ruva sotto la Chiesa, Ruva di Angelo Grasso, Inchiosta, Ruva di Costantino, Carnalia. Qui i Petruzzo ed altri notabili ristrutturavano le proprie abitazioni; qui i de Martino non tralasciavano occasione di acquistare da privati, di assumere in permuta o di prendere a censo dalle istituzioni religiose casaleni e addirittura quote di case, perseguendo l’ambizioso progetto di realizzare una sontuosa dimora.

Lungo il tratto di via compreso fra la porta di Napoli e la piazza, là dove oggi insiste la gradinata che ascende alla porta maggiore della chiesa, si sovrapponevano, disordinatamente, vetusti e recenti abituri. I resti di tali costruzioni, alla fine del 1700, furono erroneamente attribuiti da Giuseppe De Rienzo alla sede del Seggio. In effetti il Seggio non fu mai una struttura in muratura, ma più semplicemente il nome dato al piazzale, oggi detto Sottochiesa, utilizzato, nel corso dei secoli XIV e XV, come luogo di pubbliche riunioni per l’adozione di provvedimenti di pubblico interesse e per l’elezione dei pubblici amministratori. Questo spazio, sul finire del XVI secolo, era ancora delimitato a Sud dalla cinta muraria, ricorrendo negli atti l’espressione alle mura dello Seggio3.

Costretto fra questo complesso edilizio ed il muro della chiesa, scendeva dalla piazza al Seggio un vicolo detto Ruga sotto al Campanaro4. Volgendo a sinistra, lungo la menzionata strada che conduceva a via della Dogana, si raggiungeva la cripta cimiteriale in cui gli spazi utili per le tumulazioni erano stati ripartiti fra le maggiori cappelle, di sicuro quella di Santa Monica, del Santissimo Rosario e del Corpo di Cristo. Naturalmente ne deteneva la porzione più consistente l’altare di San Nicola che disponeva, altresì, di uno spazio riservato alla esclusiva sepoltura del clero.

La porta di Napoli si ergeva alla sommità dell’attuale Primo Vicolo Sottochiesa, ad un livello più elevato di quello stradale attuale. Oltre essa si dispiegava l’antico ponte a mitigare il dislivello della scarpata e là dove due distinte abitazioni civili si congiungono oggi ad angolo a delimitare un piazzaletto iniziava la strada denominata Pendino della Fontana, un tratto della quale si evidenzia tuttora alla sommità della rampa che sovrasta la fontana a zampillo di piazza XXIV Maggio.

Ai piedi del ponte, a margine della strada, troneggiava una monumentale croce di pietra da cui principiava un sentiero, l’odierno Primo Vicolo Sottochiesa, che scendeva attraverso il Giardino della Corte ad imboccare l’Inchianata dello Pescone.

A monte, in linea col sentiero, dalla croce alla base della cinta muraria, sottoposto all’arcata del ponte, si era definito un breve vicolo cieco noto come Ruva dello Pesce, detto anche Ruva dei Sandoli, che successivamente prenderà il nome di Ruva dello Columbro. All’inizio di tale vicolo, coincidente coi locali a piano terra di una civile abitazione ivi ubicata, di proprietà dei Famiglietti, era stato di recente realizzato, in muratura, l’ospedale, o meglio il lazzaretto in quanto non destinato al ricovero ed alla cura degli infermi, ma piuttosto all’isolamento di soggetti colpiti da malattie infettive, quale il colera che, puntualmente ogni anno, si riproponeva all’insorgere della calura estiva.

Morì in quegli anni Fabrizio Gesualdo II e ne ereditò i feudi il figlio Carlo, unitamente ai titoli di 7° conte di Conza e di 3° principe di Venosa. Suo figlio Emanuele aveva sposato la nobildonna tedesca Polissena di Frustinberg da cui erano nate due sole figlie, Isabella ed Eleonora, destinata quest’ultima a prendere i veli monacali1.

Nell’anno 1595 Paterno fu tassata per 309 fuochi2. Mai così elevato era stato il numero dei suoi abitanti, né mai così diffuso il benessere in cui per la prima volta venivano ad essere coinvolte anche le classi più umili. Se ne erano largamente avvantaggiate le numerose chiese e cappelle fatte oggetto di elargizioni e legati, tanto da far avvertire la necessità di sottoporre a verifiche periodiche le contabilità rese dagli economi, chiamati ad amministrare beni sempre più cospicui. Quale revisore annuale dei conti, detto Razionale, veniva di regola incaricato il pubblico notaio. Io Notar Donato de Mastrodominico della Terra di Paterno, Razionale eletto dall’odierni Mastri, ed Economi della Cappella del Santissimo Rosario di Paterno, Girolamo de Marco e Giovambattista Litio Cappellano di detta Cappella, alla visione delli cunti dell’amministrazione fatta per Gabriele Zoina e Domenico de Geronimo olim (precedentemente) Mastri ed Economi di detta Cappella...3, si legge nella relazione relativa all’approvazione della contabilità resa per il periodo compreso fra la prima domenica di ottobre4 dell’anno 1595 ed il sabato della prima settimana di ottobre dell’anno 1596.

Si provvide in quegli anni alla compilazione dell’Inventario della Chiesa di S.to Angelo della T.ra di Paterno fatto dall’Abbate Fabrizio Dienolfi Rettore di detta Chiesa. Imp.s (In primis = Per iniziare) uno pezzo di Terra di t.la (tomoli) dodici in circa con più e diversi piedi di cerque (piante di quercia), sito nel Terr.o (territorio) di Paterno, dove si dice le coste di S.to Angelo (il terreno scosceso che costeggia il vallone a monte della fontana della Pescarella) iusta li beni della Chiesa di S.to Nicolò di d.a T.ra (detta terra) di Paterno da uno lato iusta li beni di Marino di Martino dal’altro lato, iusta la via publica di sopra iusta li beni di S.to Chirico da piedi et l’altri conf. (confini). Item uno pontillo (puntino = di estensione del tutto irrilevante) di T.ra di capacità di tre mezzetti in circa sito nello medesmo Terr.o di Paterno dove si dice allo Gaudo iusta li beni dell’herede del q.dam (quondam = defunto) Cola di Sabbatino da uno lato et da basso iusta la via publica da sopra. Item uno pezzo di T.ra di t.la quattro e mezze in circa, dove si dice l’isca da piedi di freddano (canale al disotto del Fredane) con piedi di cerque iusta la via publica da sopra e da uno lato iusta li beni di Giovanni di Salerno dallo altro lato iusta lo fiume di freddano da piedi. Item un pezzo di T.ra dove si dice lo Canalicchio di t.la dieci in circa con piedi di cerque e noci iusta li beni di S.to Nicolò di Paterno da uno lato iusta li beni del Sant.mo Rosario di d.a T.ra da sopra iusta li beni di Tomaso Zollo da basso iusta la via publica dallo altro lato. Item un altro pezzo di T.ra sito nel medesmo luoco dello Canalicchio di t.la tre in circa iusta li beni dello Sig. Geronimo Arcuccio da sopra iusta li beni di Marino di Martino da uno lato iusta li beni di Benedetto di Benedetto dallo altro lato et altri confini. Ottavio Pacillo di Paterno tiene in affitto perpetuo una vigna con’ terreno vacuo et con’ terreno anco piantato con’ olive noci et altri albori fruttiferi dove si hà fabricata una casa con un pozzo di capacità di t.la quattro in circa dove si dice la valla di S.to Angelo (valle di Sant’Angelo. Il riferimento è all’area declive che finisce nello scoscendimento delle omonime coste precedentemente menzionate) iusta la via publica da piedi e da uno lato iusta li beni dello q.dam Costantino di Martino da sopra iusta li beni di D. Pietro d’Amelio dallo altro lato delli quali luochi ne pagha ogni anno docati cinque. Lo tengono in affitto perpetuo D. Cesare e Gio: Camillo Fratelli di Martino per lo istesso prezzo di d.ti cinq: (ducati cinque) l’anno. Item un lotto con piedi d’olive dove si dice il bosco di S.to Angelo (boscaglia di limitata estensione a ridosso del vallone) di capacità di mezzo quarto di T.ra iusta li beni di Cesare e di Paolo Cuoco da uno lato iusta li beni di Fran.co Braccio dal’altro lato iusta la via publica da sopra iusta l’altri beni di d.a Chiesa di S.to Angelo da piedi.

Item uno hortale (appezzamento di terreno irriguo in cui si praticava la coltura di ortaggi) con vigna sito nello Terr.o di Paterno dove si dice l’hortale delli bordelli (gli orti delle casupole. Il termine bordello era stato acquisito dal francese “bordel”, che indicava appunto una capanna o una casupola, nel corso delle recenti invasioni. Il riferimento è alla campagna ad ovest dell’odierna via Carmine Modestino dove, presso ciascun orticello, erano state costruite baracche utilizzate oltre che come depositi di attrezzi, anche come ripari per i proprietari che vi pernottavano a guardia dei raccolti) di t.la due e mezze in circa iusta li beni di Carlo di Cicco da piedi e da tutti due li lati et iusta li beni di Gio: Pietro Picardo et altri confini1.

Comunque non le sole cappelle laicali beneficiavano della munificenza del popolo, ma ancor più spesso ne era destinatario il clero quale rappresentante della Chiesa Madre. Il 22 novembre 1597, in una controversia sorta per la spartizione dell’eredità di Savio Russo, Don Domenico de Antonello Arcipresbitero2, Don Angelo Casale, Don Giovanni Litio, Don Pietro di Amelio, Don Giovanni Leonardo di Sabatino e Don Cesare Litio, presbiteri, Cleri ditte maioris eccl. ...(Sacerdoti della detta chiesa maggiore), per mano del notaio Donato di Mastro Domenico, evidenziarono come Don Sabium Russum olim ... ultimum ... testamentum niquo legasse dicte ecclesie petium unum terre seminatorium situm nitess.o jesualdi ubi dicitur capo fenance ... intra dittam terram paterni ubi dicitur Laporta ...3

Don Savio Russo un tempo ... con l’ultimo ... testamento avesse concesso un legato a favore di detta chiesa su di un pezzo unico di terreno seminativo sito in territorio di Gesualdo dove è detto Capo Fenance ... ed altro in territorio di Paterno in località detta La Porta. Scarsa considerazione era invece riservata al monastero dei Minori Conventuali, di recente costruzione e tuttora non ultimato. Solo saltuariamente vi soggiornavano i quattro frati voluti dal donante Nicolangelo Petruzzo, ed il predicatore, improvvisato in tale funzione allo scopo di onorare l’impegno a suo tempo assunto, non poteva soddisfare le esigenze dei fedeli. Unico a risiedervi stabilmente era un frate guardiano, rozzo ed incolto, inadatto a conquistare il benché minimo rispetto all’ordine monastico che era chiamato a rappresentare. Per tale stato di precarietà chiunque si sentiva autorizzato a disporre a proprio piacimento dei prodotti del terreno del monastero, per cui, esasperato, Die rieso septima mensis martij xj Ind. 1598 in terra Paterni ... constitutus Vincentius de Onia de t.ra Sancti Manghi guardiani monasterij Sancti franciscj alias S.te Marie Pacis dite t.ra paterni ... il giorno 17 del mese di marzo, nell’undicesima indizione, anno 1598, nella terra di Paterno ... si è presentato Vincenzo de Onia, della terra di San Mango, guardiano del monastero di San Francesco, noto pure col nome di Santa Maria della Pace, di detta terra di Paterno ...

per denunciare continue intrusioni, da parte di estranei, nel fondo di proprietà del convento, al quale fanno danni et interessi1.

Nel 1598, morto Filippo II, gli succedette al trono di Spagna il figlio Filippo III.

Pressappoco in quel periodo morì in Paterno Marino de Martino che trovò probabilmente sepoltura sotto il pavimento della Chiesa Madre dove una pietra tombale, con ai piedi scolpito, sul margine destro, lo stemma della di lui famiglia, mostra la figura di un uomo non giovane, con barba al mento, disteso supino, il capo adagiato su un guanciale, le braccia incrociate sul corpo, vestito secondo la foggia del XVI secolo con giubbetto aderente, brache a strisce e calze fino al ginocchio. Nessuna conferma però può venire dall’antica iscrizione in quanto corrosa e parzialmente coperta dalla pedana di un altare.

Marino de Martino aveva espresso il desiderio che la propria memoria fosse legata alla costruzione di una chiesa. I figli, in esecuzione della volontà paterna, prescelsero come luogo una loro proprietà fuori dell’abitato, in località Piano, a margine della mulattiera che conduceva alla terra di Fontanarosa. L’opera2 fu portata a compimento nell’anno 1602, come ricorda la lapide che ne sovrasta l’ingresso: DON CESAR IOANE DOMIN IOANE CAMILL ET \ THOMAS GERMANI HOC OPU.s F.rt FECERT AD HONOREM \ BEATE MARIE VIRGINIS DE IURE PATRONAT PRO SE \ IPSIS ET NASCITURIS DUMTAXAT MARIBUS OB \ LEGATU DA MARINI DE MARTINO EORU. CO- \ MUNIS PATRIS A.NO D.NI 1602. Don Cesare il giovane, Domenico il giovane, Camillo e Tommaso, fratelli, questa chiesa laicale eressero in onore della Beata Maria Vergine, riservandone il diritto di padronato a se stessi ed ai propri discendenti, da destinarsi al solo culto di Maria, nelle Sue diverse attribuzioni, per disposizione di Marino de Martino, loro comune padre, nell’anno del Signore 1602.

Non tutti però rivelavano eguale disposizione d’animo nei confronti delle istituzioni religiose, anzi, al contrario, non mancava chi si provasse a defraudarle. Carlo Saldutto, erede di Monica e Giulio Fanfaro, ne aveva devoluto i beni alla cappella del Rosario, ma chi materialmente li deteneva ne rifiutava la restituzione. Per questa ragione, nell’anno 1606, il Cappellano Don Battista Litio ed il Procuratore Giacomo Curcio si videro costretti, al fine di far valere i diritti della Congregazione di cui erano rappresentanti, ad intentare azione legale1.

Il 16 settembre 1608 l’abate generale di Montevergine conferì al sacerdote Vespasiano de Stefanellis di Paterno il beneficio della cappella di Santa Maria de Canna, grangia alle dipendenze di San Guglielmo del Goleto, in territorio di Paterno2. Era una carica prestigiosa e remunerativa, ancor più ora che l’università godeva di una solida economia. Gli allevamenti di bovini e di ovini, le attività artigianali fra cui primeggiava la produzione di cotti in argilla, offrivano possibilità di lavoro a molti giovani delle terre limitrofe, anche se non mancava chi, di Paterno, vittima dell’arroganza e del dispotismo dei maggiorenti locali, era costretto a trasferirsi altrove. Così Giacomo Ciccotta era dovuto andare a vivere a Serino dove era divenuto fuoco acquisito, per cui si rese necessario scrivere, in data 14 febbraio 1609, ai Capitani dell’una e dell’altra università affinché l’uomo, per l’annuale contribuzione fiscale, non fosse conteggiato in entrambe3.

In tale clima di diffuso benessere, in cui non era difficile per la devozione tradursi in atti concreti di generosità, il sacerdote Don Vespasiano de Stefanellis non dovette attendere molto perché la sua situazione finanziaria mutasse radicalmente. Comprò, presso la porta di Castello, una casa che ristrutturò ed ampliò, e sull’architrave in travertino dell’ingresso fece incidere il proprio nome. Di esso si conserva un consistente frammento, riutilizzato in loco, in cui si evidenzia la scritta VESPASIAN D. STEFA...

A conferire maggior lustro ed onore all’uni-versità di Paterno giunse, nell’anno 1611, l’elezione di Urbano Russo ad abate generale di Montevergine. Furono grandi la soddisfazione e la gioia in questa terra, da sempre devota a quella Madonna, offuscate però da un tragico evento. Un incendio distrusse buona parte del monastero. Nell’incendio di Montevergine accaduto il 22 maggio 1611 morirono oltre 400 uomini e donne, la maggior parte della città di Aversa. Dalle cronache di Montevergine è scritto un diario dell’epoca (che rivela) di un uomo della città di Aversa, uomo balordo, il quale colla più audace tracotanza (finì) col condurre seco in quel sacro luogo grascioso commestibile (costoso e abbondante cibo) e donne di infernale odore. In sostanza ci fu un’orgia poiché erano tutte puttane e donnaioli, basti pensare che furono trovate donne vestite da uomo e uomini da donne4.

Per rimediare ai guasti dell’incendio l’abate dovette impegnare le sue energie migliori, ed i risultati furono tali da meritargli la lapide che attesta: Urbanus Russus a Paterno ... restauravi ad pristinam seu meliorem formam. Urbano Russo da Paterno ... restituì all’originaria o migliore condizione. Intanto in Paterno, il 16 maggio 1611, era stato eletto nella persona del reverendo Don Pietro de Amelio il nuovo cappellano della cappella del Rosario, in quanto diebus non longe decursis, sicut Domino placuit, Reverendum D. Joannem Baptistam Litium Cappellanum dictae Cappellae, ex hac vita discessisse, et vitam cum morte commutasse.

non molti giorni addietro, come piacque al Signore, il reverendo Don Giovanni Battista Litio, cappellano di detta cappella, da questa vita si era separato, ed aveva permutato la vita con la morte.

In quell’anno era sindaco di Paterno Battista de Calcola, e gli eletti erano Crisostomo Litio, Fabrizio Coco e Benedetto di Benedetto, tutti iscritti alla Congregazione del Rosario5.

E’ evidente come le cariche pubbliche e gli incarichi di carattere religioso fossero accentrati nelle mani di pochi privilegiati, tanto da conferire loro un potere quasi illimitato che consentiva di ridurre le masse incolte ad uno stato di totale soggezione e dipendenza. In verità il governo si sforzava di semplificare la vetusta e farraginosa legislazione ispirata alla conservazione di antichi privilegi, retaggio dei passati domini, con l’adozione di norme più chiare che però stentavano a trovare applicazione per le stesse resistenze di coloro che, investiti di cariche istituzionali, avrebbero dovuto invece garantirle.

In quest’ottica fu promulgata la prammatica del 27 febbraio 1612 che introduceva il computo dell’anno, su tutto il territorio del regno, a decorrere dal primo giorno del mese di gennaio, per ovviare alla confusione che nasce dalla varietà, che si usa in questo regno nel computare il principio dell’anno, poiché alcuni usano computarlo dal dì della Santissima Trinità di Nostro Signor Gesù Cristo; altri dal primo giorno di gennaio, altri dal 25 marzo della Santissima Incarnazione, ed altri dal primo settembre per indizione, e volendo rimediare a detto disordine, et a molti errori, che da questo computo nascono particolarmente in danno delle povere università del predetto regno, nei loro conti, che tengono con i percettori o ministri pecuniari, nei quali si computa per indizione, vengono a fare diversi errori, trattandosi i loro negozi per lo più da persone semplici, ed idioti, ...1.

Per un banale incidente di caccia, Emanuele Gesualdo perse la vita il 20 agosto 1613. Suo padre Carlo, che nel più che ventennale volontario esilio trascorso nel castello di Gesualdo si era dedicato alla composizione di quei madrigali che gli avrebbero conferito fama imperitura, non resse al dolore e venne a mancare il 10 settembre dello stesso anno2. Fu sua nipote Isabella a succedergli nei feudi e, nel 1615, pagata la prescritta tassa di successione, ottenne, nel cedolario di Montefusco, l’intestazione delle terre, in provincia di Principato Ultra, di Conza, Sant’Andrea, Cairano, Gesualdo, Calitri, Castelvetere, Frigento, Fontanarosa, Luogosano, Montefredane, Paterno, Sant’Angelo all’Esca, Taurasi, Teora, Sant’Agnese e San Pietro in Delicato. Isabella aveva sposato Nicolò Ludovisio, duca di Zagarolo, e da questo matrimonio era nata una sola figlia di nome Lavinia3.

Nel 1616, a Napoli, fu nominato il nuovo viceré nella persona di Don Pietro Giron, duca d’Ossuna. Erudito, amante delle lettere e delle arti, nutriva costui profonda avversione per i baroni, superbi ed incolti. Di idee progressiste, iniziò ad attuare un piano di democratizzazione per effetto del quale necessariamente venivano a porsi dei limiti ai privilegi feudali. Il risentimento della nobiltà fu immediato ed unanime ed il viceré, temendo reazioni armate, dispose il dislocamento di forze militari nei punti strategici del territorio. Furono altresì rinforzati i contingenti di stanza in Paterno ed in Ariano, preposti al controllo delle due principali arterie di collegamento con la Puglia.

Anche se l’università si trovò a dover far fronte alle spese per il sostentamento della truppa distaccata sul suo territorio, tutto ciò lasciava indifferenti i cittadini di Paterno. Napoli era lontanissima perché gli echi delle tensioni politiche potessero coinvolgerli. La vita continuava a scorrere con immutata operosità e le individuali disponibilità di cospicue somme di danaro consentivano dinamicità di scambi e costituzione di fondi di notevole estensione. Nel gennaio 1617, con atto del notaio Tullio Zoina, assistito da Cesare Longo in sostituzione del giudice regio Crisostomo Litio, Pietro de Amelio riacquistò da Alfonso, a cui lo aveva venduto col patto del retrovendendo, per lo stesso prezzo di 70 ducati, un terreno seminativo, di circa otto tomoli, con querce, sito in località Gaodo1, presso il vallone2.

Dolore e delusione si diffusero invece, nell’anno 1618, alla notizia della morte dell’abate di Montevergine Urbano Russo3; ma subito dopo ci si infervorò per il rinnovo delle cariche amministrative in cui Nicola de Sandolo ottenne la nomina a sindaco e gli eletti furono Domenico Antonio Stefanellis, Cesare Longo, Angelo di mastro Giacomo ed Orlando de Brazzo4.

Ai nuovi amministratori rimase ben poco oltre la soddisfazione dei risultati ottenuti. L’università accusava un consistente deficit di bilancio, avendo dovuto anticipare quanto necessitava per il soggiorno del nuovo contingente militare distaccato in Paterno, poiché le terre che erano tenute a contribuire alle spese non vi avevano provveduto con la dovuta sollecitudine. Lamentavano, queste, indisponibilità finanziarie e chiedevano di essere autorizzate a far ricorso ad una tassazione straordinaria.

Solo in data 29 maggio 1619 l’università di Forino ottenne il regio assenso per l’imposizione di una tassa aggiuntiva, in ragione di tre carlini per oncia, al fine di saldare il debito contratto con le università di Ariano e di Paterno, quale contributo dovuto per gli alloggiamenti militari5.

A Napoli cresceva intanto la tensione. Nel 1620 il viceré Don Pietro Giron, duca d’Ossuna, per guadagnare il popolo alla sua causa, abolì la gabella sulla frutta imposta nel 1606, ma ormai la sua posizione risultava irrimediabilmente compromessa. Intensificando le pressioni sulla Corona di Spagna, la nobiltà ne ottenne la destituzione ed il governo del viceregno fu affidato al cardinale Borgia.

Don Giulio Genoino, schierato sulle posizioni del duca d’Ossuna, incitò il popolo alla sommossa ed organizzò una milizia di malavitosi allo scopo di imporre il riconoscimento della parità del voto in Parlamento, avendovi valore limitato quello dei rappresentanti dei cittadini. Da maggio a luglio Napoli fu in uno stato di costante agitazione. Alla fine il Borgia riuscì ad insediarsi in città, riportandovi l’ordine in seguito all’arresto di don Giulio Genoino.

Col ritorno alla normalità il grosso del contingente militare fu ritirato da Paterno ove rimasero i soli addetti ai pezzi di artiglieria istallati nella torre ed il drappello di soldati che aveva il compito di pattugliare la strada e di proteggere i trasporti di frumento dalle insidie del brigantaggio. Ne conseguì uno sgravio fiscale per l’università, unitamente all’afflusso di maggiori ricchezze dovute all’intensificazione dei traffici, di cui ancora una volta si avvantaggiarono chiese e cappelle.

Queste ormai amministravano ingenti patrimoni fra terreni e case, e fra esse la più dotata era quella di Santa Monica. Nell’anno 1621 di questa era procuratore Giulio de Amato che in tale qualità, in data 24 febbraio, concesse in locazione, a Giacomo di Mastro Dominico, per un censo annuo di sei grana, una casa in località La Porta6.

Nell’anno 1623 furono eletti procuratori della cappella di Santa Monica Andrea de Latrico ed Antonio de Giaia, mentre Giovanni Zoina lo era di quella del Corpo di Cristo. Probabilmente lo stesso, indicato però col nome di Giovanni Maria Zoina, ricoprendo l’incarico di economo della cappella di Santa Monica, nell’anno 1627 fu eletto procuratore della cappella di Maria Santissima della Consolazione7. La Sacra Immagine della Vergine era stata fatta oggetto, negli ultimi anni, di numerosi lasciti e donazioni di cui, da più parti, si avvertiva la necessità di formulare una dettagliata elencazione, sì da legittimarne in maniera incontrovertibile il possesso.

Fu così che, su richiesta e dietro indicazione dei signori Alfonso Cuoco, Muzio Zoina, Vincenzo Antonio Zoina, Michaele Angelo Russo, Donato di Carlo, Pietro Debrazzo, Michele Angelo Polese e Minico Zarri, il notaio Tullio Zoina provvide a redigere l’inventario dei beni della cappella di Maria Santissima della Consolazione: Die vigesimo nono mensis martij dec.ma Ind. mille sexcentesimo vigesimo settimo paternij a ditto die cora nost. comparet domnus joannes maria zoina trre p.ne adpns jconomus, et procurator beni capp.e Sante Marie Consolationis ditte t.e at.e Santa Monaca de jus patronatus in st. t.re pre.tta sita ditta capp.a intus ten. ecc.as Santi nicolaj maiore ecc.as eiusdem t.re qui ... requisivit nos ... bona essent descritta, annotata et inventariata ... casale: jtem detta capp.a possede una vigna sita nel territorio de detta t.ra dove se dice lo casale justa li beni de rosa de crapa da sopra da uno lato la via publica et da sotto la via vecenale et da laltro lato li beni de cesare modestino et e de capacita de uno tummolo incirca. costa delo ponte: jtem detta capp.a possede uno pezo de t.ra co piedi de cerze et cierri dintro de capacita de tommola sej incirca sito in ditto territorio dove se dice la costa delo ponte justa li beni de tomasi zoina da sopra justa li beni de livio zoina da sotto et da uno lato, justa li beni de gio: camillo de mattia da laltro lato et altre confine. s.to andrea: jtem ditta capp.a possede una vigna de capacita de uno tummolo incirca co uno c.po contiguo de capacita de uno mezetto incirca sita in ditto territorio dove se dice santo andrea, justa la via publica dasopra et da uno lato et permezo sparte li beni de iacova de m.o iacovo justa li beni de detta iacova da laltro lato justa li beni de angilo de m.o iacovo dasotto et altre confine. s.to andrea: jtem detta capp.a possede uno rachio de t.ra sito nel istesso territorio, et loco sopra la p.tta vigna co piedi de cerza dintro de capacita de uno mezetto incirca justa li beni dela capp.a del rosario da sopra justa li beni de fabritio de m.o iacovo da uno lato li beni de iacova de m.o jacovo dalaltro lato la via publica dasotto et altre confine. s.to andrea: jtem detta capp.a possede uno pezzo de t.ra de uno tummolo et mezo incirca co piedi de cerze et nucj dintro sito nel istesso loco et territorio justa li beni dela ecc.a de santo nicola da sopra da uno lato li beni de gio: camillo de martino dalaltro lato et da sotto la via pub.ca et altre confine lo hanno venduto a detta capp.a co lo patto de retrovertendo gio: camillo torio, et lisania sabatino docatj decenove. canalichio: jtem detta capp.a possede uno rachio de t.ra de capacita de uno tummolo incirca sito in ditto territorio dove se dice canalichio justa li beni de giulio damato da sopra li beni de fabrizio petroziello da sotto, la via publeca da uno lato et altre confine. canalichio: jtem detta capp.a possede uno rachio de t.ra de uno tummolo et mezo incirca co piedi de cerze dintro sito in ditto teritorio dove se dice lo canalichio justa li beni de andrea de cicco da sopra justa li beni de laorienzo sara da sotto justa la via publeca da uno lato, justa li beni de s.to nicola de detta t.ra dalaltro lato co altre confine. vallara: jtem detta capp.a possede una vigna de capacita de tre quarti incirca sita in ditto territorio dove se dice lle vallara seu casalichio justa li beni de giulio zarri dasopra, justa li beni de andrea delatrico da uno lato justa lo vallone da sotta, et altre confine. vallara: jtem detta capp.a possede uno campetiello sito nelo istesso territorio, et loco de capacita de uno mezetto incirca co piedi de cerze dintro j.ta da sopra detta vigna justa li beni delo s.mo corpo de xsto de detta t.ra da sopra, et da uno lato justa lo vallone da sotta et altre confine. vallara: jtem detta capp.a possede uno pezzo de terra sito nelo istesso loco et territorio delle vallara de capacita de tommola sej incirca justa la via publica dasopra justa lo vallone dasotto, justa li beni de gio: zoina da uno lato justa li beni de carlo de mastro angilo dalaltro lato, et altre confine. s.to felice: jtem detta capp.a possede una vigna de capacita de uno mezetto incirca sito nello istesso territorio dove se dice santo felice justa li beni de mazeo grasso circumcirca seu intorno intorno. machione: jtem detta capp.a possede una rasola de vigna de uno mezetto incirca co piedi de olive dintro sita nello istesso terr.o dove se dice lo machione justa li beni de sabato delo grieco da sopra, justa li beni de lonardo de orricolo da sotta, justa li beni de gio: modestino da uno lato, justa li beni de alfonso russo dalaltro et altre confine. pescara: jtem detta capp.a possede la mita delle olive quale sono dintro la vigna de dominico de salierno sita in ditto territorio dove se dice la pescara justa la via pup.ca da uno lato et da sotta justa li beni de Bartomeo de lecce dalaltro lato, justa li beni de mattia de mastro angilo, et altre confine. piano: jtem detta capp.a possede uno campo co piedi de olive cerze et altri arbori frottiferi dintro quale so del gio: giulio deblasi sito in ditto territorio nelloco dove se dice lo piano justa li beni de gio: battista avisato da sopra justa li beni dela capp.a de monteserrato de detta t.ra da uno lato et da sotta justa li beni de dominico de mastrangilo dalaltro lato, et altre confine. capogani: jtem detta capp.a possede una vigna co uno campo de capacita de uno tummolo e mezo incirca sita in ditto terr.o dove se dice li capogani justa la via pup.ca da sotta justa li beni de gianoario cuoco da uno lato, et altre confine. aquasalza: jtem detta capp.a possede g. comune et indiviso co la capp.a del corpo de xpto de detta t.ra uno pezzo de t.ra sito nel terr.o de gesoaldo neloco dove se dice laquasalza justa li beni de monsig. vescovo de frecento et avellino da sopra justa li beni de dominico antonio stefaniello da sotta et altre confine. cesenelle: jtem detta capp.a possede g. comune et indiviso co la capp.a p.tta del corpo de xpto uno pezzo de t.ra co piedi de cerze dintro sito nel terr.o de Patierno neloco dove se dice lle cesenelle justa li beni de dom.co antonio stefaniello da uno lato justa li beni de santo nicola de ditta t.ra da sotta et li beni de alfonzo de cicco simielmente da sotto, et altre confine quale e de tommola cinq. incirca. cesenelle: jtem detta capp.a possede g. comune et indiviso co la p.tta capp.a del corpo de xpto uno pezzo de t.ra de tommola quattro incirca sito in ditto terr.o et loco co piedi de cerze, et uno piro dintro justa li beni de santo chirico da sopra justa li beni de sabrino de m.o iacovo da uno lato, justa li beni de santa maria dela gratia de detta t.ra da sotto, et altre confine. cesenelle: jtem detta capp.a possede g. comune et indiviso cola p.tta capp.a del corpo de xpto uno pezzo de t.ra conpiedi de cerze dintro de capacita de tommola quattro incirca sito nel istesso terr.o et loco justa li beni de santo nicola da sopra justa li beni de gio: battista pacillo da sotta justa li beni de s.ta maria a canna da uno lato, justa li beni de fran.co debrazzo dalaltro lato et altre confine. cesenelle: jtem detta capp.a possede g. comune et indiviso co la capp.a p.tta del corpo de xpto unaltro pezzo de t.ra de capacita de tommola doie et mezo incirca con piedi de cerze, et nucj dintro sito nelostesso terr.o et loco justa li beni de fran.co debrazzo dasopra justa li beni de gio: battista pacillo da uno lato, justa li beni de alfonso cuoco dalaltro lato, et da sotto li beni de dominico antonio stefaniello, et altre confine. frutti: jtem detta capp.a possede la mita de tutti li fruttj et arbori chi sono dintro li p.tti territorij siti alle cesenelle laquale mita de fruttj la have comparata dal gio: lelio cuoco, et laltra mita detta capp.a la possede g. comune et indiviso co la ditta capp.a del corpo de xpto. matina: jtem detta capp.a possede uno pezzo de t.ra de capacita de tommola cinq. incirca sito nel terr.o de detta t.ra nello loco dove se dice la matina justa la via publeca da sopra justa li beni de gio: camillo de martino da uno lato, et da sotta j.ta pezzo de t.ra boscato et altre confine. vado delo passagio: jtem detta capp.a possede uno pezzo de t.ra g. comune et indiviso co la p.tta capp.a del corpo de xpto de capacita de tommola tre incirca sita in ditto terr.o dove se dice lo vado delo passagio justa la via publeca da uno lato et dasotta justa lo vallone dalaltro lato et altre confine. farasini: jtem detta capp.a possede g. comune et indiviso co la p.tta capp.a del corpo de xpto uno pezzo de t.ra co uno pede de noce dintro de capacita de tommola doie incirca sito nel terr.o de gesoaldo nelloco dove se dice li farasini justa li beni de santa maria a canna da sopra justa li beni de gio: camillo de martino da uno lato justa li beni de dom.co antonio stefaniello dalaltro lato, et altre confine. piescocupo: jtem detta capp.a possede dui sacchi de t.ra siti in ditto terr.o de patierno dove se dice piesco cupo q.li sono dintro li territorij de alfonso, et altri de casa de cicco et j.ta allo loco dove era la loro vigna q.li confinano co li p.tti de cicco. aquadelifranci: jtem detta capp.a possede g. comune et indiviso co la p.tta capp.a delo corpo de xpto uno campo de capacita de uno quarto incirca co piedi de olive dintro sito in ditto terr.o nelloco dove se dice laqua deli frangi justa li beni de giulio cuoco da sopra justa la via vecenale da uno lato, et da sotto justa la via publeca da laltro lato, et altre confine. aquadelifranci: jtem detta capp.a possede una vigna co campo de capaceta de uno mezetto incirca sita in ditto terr.o dove se dice laqua deli frangi justa li beni de antonio de giaia da sopra justa li beni de carlo de m.o angilo da sotta justa li beni de claodia cecer da uno lato q.le e co piedi de cerze dintro ne paga quolibet antonio de giaia carlini sej. pescone: jtem detta capp.a possede uno horteciello sito in ditto terr.o dove se dice lo pescone de capaceta de meza metriada incirca justa li beni de gio: camillo petroziello da uno lato justa li beni de marciano petroziello dalaltro lato justa li beni de nardangilo vassallo da sotta, justa li beni de gio: camillo de martino da sopra, et altre confine. pescone: jtem detta capp.a possede unaltro horticiello de una metriada incirca sito nello istesso territorio et loco justa li beni de gio: de brazzo da uno lato, justa la via publeca dasotta justa li beni de nardangilo vassallo dalaltro lato, justa lo giardino dela corte da sopra et altre confine. dereto corte: jtem unaltro horteciello possede detta capp.a g. comune et indiviso co la capp.a del corpo de xpto de capaceta de uno quarto incirca co piedi de olive dintro sito in detto terr.o nello loco dove se dice dereto corte justa li beni de sabato delo monaco da sopra justa li beni de fran.co de salierno da sotto, justa li beni de gio: camillo de mattia da uno lato, justa li beni de santo fran.co de detta t.ra dalaltro lato, et altre confine. taverne: jtem detta capp.a possede una casa co grotta et magazeno g. comune et indiviso con mattia de mastro iacovo sita dove se dice lle taverne justa li beni de laorienzo tono da uno lato, justa li beni de marciello tono dalaltro lato et dasotta, justa la via publeca da sopra, et altre confine. furno: jtem detta capp.a possede g. comune et indiviso co la capp.a delo corpo de xpto una casa sita dintro detta t.ra dove se dice lo furno justo la via publeca da sopra justa la via vecenale da uno lato justa li beni de gio: camillo de mattia dalaltro lato et da sotta quale casa sta proprio dove se dice la ruga de angilo grasso. porta de sopra: jtem detta capp.a possede g. comune et indeviso co la capp.a delo corpo de xpto uno juso terragno sito dintro detta t.ra dove se dice la porta de sopra justa li beni de ualla diana coca da uno lato, justa li beni de jacovo de salierno da sopra justa li beni del gio: patritio debrazzo da laltro lato justa la via publeca da sotta et altre confine. s.to vito: jtem detta capp.a possede una casa sopra solaro sita dove se dice s.to vito justa li beni de tomasi de martino da sopra da sotta et da uno lato, et altre confine. Rienditi in denari pietro de m.o jacovo paga a detta capp.a ogni anno imp.m carlini undicj de riendito de uno campo sito ali capogani, justa li beni de donno andrea russo da sotta justa li beni de donno michele russo da uno lato et altre confine. gio: troiano de rienzo rende ogni anno jmp.m alla detta capp.a car.ni cinq. de uno rachio de t.ra sito dove se dice santo pietro chi nge uno cieozo de capaceta de uno tummolo incirca justa li beni de s.to pietro circumcirca. ualla diana coca rende a detta capp.a ogni anno imp.m uno carlino de una vigna chi possede sita alo piano justa la via vecenale da sopra justa la via publeca da sotta li beni de gio: battista pacillo da uno lato et altre confine. la herede de cesaro de martino paga de rendito ogni anno imp.m alla detta capp.a uno carlino de uno horto chi possede sito alaqua deli frangi justa li beni de nicola cuoco da uno lato justa li beni deli heredi del gio: dominico vassallo da sotto, justa li beni de angela coca dalaltro lato et altre confine.

Notar tullio zoina paga lo cenzo a detta capp.a ogni anno car.ni dudici et grana otto de cenzo p. lo prezzo de docatj sidicj ala ragione de docatj otto per centenaro co lo patto de retrovendendo1.

" " Il giorno 29 del mese di marzo, decima indizione, dell’anno 1627, a Paterno. In detto giorno compare alla nostra presenza il signor Giovanni Maria Zoina della terra di Paterno, rappresentante, economo e procuratore dei beni di Santa Maria della Consolazione di detta terra, e di Santa Monica soggetta a diritto di padronato nella stessa predetta terra, sita, detta cappella (di Santa Maria della Consolazione), all’interno della chiesa di San Nicola, Chiesa Maggiore della stessa terra, il quale (Giovanni Maria Zoina) ... richiese a noi ... che i beni (della cappella di Santa Maria della Consolazione) siano descritti, annotati ed inventariati ... Casale: Precisamente detta cappella possiede una vigna sita nel territorio di detta terra in località detta Casale, confinante coi beni di Rosa de Crapa di sopra, con la strada pubblica da un lato, con la via vicinale nella parte inferiore e, dall’altro lato, con i terreni di Cesare Modestino. La vigna misura all’incirca un tomolo2. Costa del Ponte: Inoltre detta cappella possiede un pezzo di terreno con querce e cerri della superficie di circa sei tomoli, sito in detto territorio in località chiamata la Costa del Ponte3, confinante coi terreni di Tommaso Zoina nella parte superiore, con quelli di Livio Zoina nella parte inferiore e da un lato, coi beni di don Camillo de Mattia dall’altro lato, nonché con altri poderi. Sant’Andrea: Inoltre detta cappella possiede una vigna della misura di un tomolo circa, con un terreno contiguo di circa un mezzetto4, sita nel detto territorio dove si dice Sant’Andrea, confinante con la strada pubblica nella parte superiore e da un lato, inserita fra i terreni di Giacoma di mastro Giacomo che ne risultano divisi, confinante con le terre della stessa Giacoma dall’altro lato, nonché con la proprietà di Angelo di mastro Giacomo nella parte inferiore e con altri poderi. Sant’Andrea: Inoltre detta cappella possiede una striscia di terra sita nello stesso territorio e nella stessa località, al disopra della predetta vigna, con dentro piante di quercia, della superficie di un mezzetto circa, confinante coi beni della cappella del Rosario nella parte superiore, con la proprietà di Fabrizio di mastro Giacomo da un lato, con quella di Giacoma di mastro Giacomo dall’altro, e nella parte inferiore con la via pubblica, nonché con altri poderi. Sant’Andrea: Inoltre detta cappella possiede un pezzo di terra di un tomolo e mezzo circa, con dentro piante di quercia e di noci, sito in località e territorio suddetti, confinante con la proprietà della chiesa di San Nicola lungo la parte superiore, con i possedimenti di don Camillo de Martino da un lato e, dall’altro lato e nella parte inferiore, con la strada pubblica, nonché con altri confini. Lo hanno venduto a detta cappella, col patto di retrovertendo5, don Camillo Torio e Lisania Sabatino per 19 ducati. Canalicchio: Inoltre detta cappella possiede una striscia di terra della misura di un tomolo circa, sita nel detto territorio dove si dice Canalicchio, confinante con la proprietà di Giulio d’Amato lungo la parte superiore, con quella di Fabrizio Petroziello nella parte inferiore, con la strada pubblica da un lato, nonché con altri poderi. Canalicchio: Inoltre detta cappella possiede una striscia di terra della misura di circa un tomolo e mezzo, con piante di quercia, sita nel detto territorio in località chiamata Canalicchio, confinante con la proprietà di Andrea de Cicco nella parte superiore, con i possedimenti di Lorenzo Sara nella parte inferiore, con la strada pubblica da un lato, con i beni della chiesa di San Nicola di detta terra dall’altro lato, nonché con altri poderi. Vallara: Inoltre detta cappella possiede una vigna della misura di tre quarti1 circa, sita nel detto territorio dove si dice Le Vallara o Casalicchio2, confinante con la proprietà di Giulio Zarri nella parte superiore, con quella di Andrea de Latrico da un lato, col vallone nella parte inferiore, nonché con altri poderi. Vallara: Inoltre detta cappella possiede un campicello sito nello stesso territorio e nella stessa località, della misura di un mezzetto circa, con dentro piante di quercia, giusto sopra la suddetta vigna, confinante con i possedimenti del Santissimo Corpo di Cristo di detta terra nella parte superiore e da un lato, col vallone nella parte inferiore, nonché con altri poderi. Vallara: Inoltre detta cappella possiede un pezzo di terra sito nello stesso territorio e nella stessa località detta Le Vallara, dell’estensione di circa sei tomoli, confinante con la strada pubblica nella parte superiore, con il vallone in quella inferiore, con la proprietà del signor Zoina da un lato, con quella di Carlo di mastro Angelo dall’altro lato, nonché con altri poderi. San Felice: Inoltre detta cappella possiede una vigna della misura di circa un mezzetto, sita nello stesso territorio in località detta San Felice, confinante con i terreni di Mazzeo Grasso che la circondano completamente. Macchione: Inoltre detta cappella possiede una parte di vigna della misura di un mezzetto circa, con piante d’olivo, sita nello stesso territorio in località detta Macchione3, confinante con la proprietà di Sabato del Grieco nella parte superiore, con quella di Leonardo de Orricolo nella parte inferiore, con quella di don Modestino da un lato, con quella di Alfonso Russo dall’altro, nonché con altri poderi. Pescara: Inoltre detta cappella possiede la metà degli olivi che risultano nel vigneto di Domenico de Salierno, sito nel detto territorio, in località denominata Pescara, confinante con la strada pubblica da un lato e lungo la parte inferiore, con la proprietà di Bartolomeo de Lecce dall’altro lato, nonché col terreno di Mattia di mastro Angelo e con altri poderi. Piano: Inoltre detta cappella possiede un campo con piante di olivo, querce ed altri alberi da frutto, che appartengono al signor Giulio de Blasi, sito nel detto territorio, in località chiamata Piano, confinante con la proprietà del signor Battista Avisato nella parte superiore, con quella della cappella di Monteserrato di detta terra da un lato e lungo la parte inferiore, con quella di Domenico di mastro Angelo dall’altro lato, nonché con altri poderi. Capuani: Inoltre detta cappella possiede una vigna con un campo della misura di un tomolo e mezzo circa, siti nel detto territorio, in località detta Capuani, confinante con la strada pubblica nella parte inferiore, con la proprietà di Gianoario Cuoco da un lato, nonché con altri poderi. Acquasalsa: Inoltre detta cappella possiede, in comune ed indiviso con la cappella del Corpo di Cristo di detta terra, un pezzo di terreno sito nel territorio di Gesualdo, nella località chiamata Acquasalsa, confinante con i possedimenti del monsignor vescovo di Frigento e di Avellino nella parte superiore, con quelli di Domenico Antonio Stefaniello nella inferiore, nonché con altri poderi. Cesinelle: Inoltre detta cappella possiede, in comune ed indiviso con la predetta cappella del Corpo di Cristo, un pezzo di terra, con dentro piante di quercia , sito nel territorio di Paterno, in località detta Le Cesinelle, confinante con la proprietà di Domenico Antonio Stefaniello da una parte, con quella della chiesa di San Nicola di detta terra nella parte inferiore e con la proprietà di Alfonso de Cicco parimenti nella parte inferiore, nonché con altri poderi, terreno della misura di circa cinque tomoli. Cesinelle: Inoltre detta cappella possiede, in comune ed indiviso con la predetta cappella del Corpo di Cristo, un pezzo di terra della misura di circa quattro tomoli, sito nel suddetto territorio e nella stessa località, con piante di quercia ed un pero, confinante con i possedimenti di San Quirico nella parte superiore, con quelli di Sabrino di mastro Giacomo da un lato, con quelli della chiesa di Santa Maria delle Grazie di detta terra nella parte inferiore, nonché con altri poderi. Cesinelle: Inoltre detta cappella possiede, in comune ed indiviso con la predetta cappella del Corpo di Cristo, un pezzo di terra con piante di quercia, della superficie di circa quattro tomoli, sito nello stesso territorio e nella stessa località, confinante con possedimenti della chiesa di San Nicola nella parte superiore, con la proprietà del signor Battista Pacillo in quella inferiore, con quelle di Santa Maria a Canna da un lato e di Francesco Debrazzo dall’altro, nonché con altri poderi. Cesinelle: Inoltre detta cappella possiede, in comune ed indiviso con la predetta cappella del Corpo di Cristo, un altro pezzo di terra, della misura di due tomoli e mezzo circa, con piante di quercia e di noci, sito nello stesso territorio e nella stessa località, confinante con la proprietà di Francesco Debrazzo nella parte superiore, con quella del signor Battista Pacillo da un lato, con quella di Alfonso Cuoco dall’altro lato e, nella parte inferiore, con quella di Domenico Antonio Stefaniello, nonché con altri poderi. Frutti: Inoltre detta cappella possiede la metà di tutti i frutti e degli alberi che sono nei predetti terreni siti alle Cesinelle, avendola acquistata dal signor Lelio Cuoco, mentre la restante metà la cappella la possiede, in comune ed indivisa, con la suddetta cappella del Corpo di Cristo1. Mattine: Inoltre detta cappella possiede un pezzo di terra, della misura di circa cinque tomoli, sito nel territorio di detta terra, in località detta Mattine, confinante nella parte superiore con la via pubblica, con la proprietà del signor Camillo de Martino da un lato e, nella parte inferiore, con un appezzamento di terreno boschivo, nonché con altri poderi. Guado del Passaggio: Detta cappella possiede un pezzo di terra, in comune ed indiviso con la predetta cappella del Corpo di Cristo, della misura di circa tre tomoli, sito in detto territorio nella località chiamata Guado del Passaggio2 , confinante con la strada pubblica da un lato e lungo la parte inferiore, col vallone dall’altro lato, nonché con altri poderi. Farasini: Inoltre detta cappella possiede, in comune ed indiviso con la predetta cappella del Corpo di Cristo, un pezzo di terra contenente una pianta di noci, della misura di circa due tomoli, sito nel territorio di Gesualdo, in località detta i Farasini, confinante con i possedimenti di Santa Maria a Canna nella parte superiore, con quelli del signor Camillo de Martino da un lato, con quelli di Domenico Antonio Stefaniello dall’altro, nonché con altri poderi. Pesco Cupo: Inoltre detta cappella possiede due sacchi3 di terra siti in detto territorio di Paterno, nella località detta Pesco Cupo, i quali sono compresi fra i terreni di proprietà di Alfonso e di altri membri della famiglia de Cicco, esattamente nel luogo in cui era la loro vigna, e che confinano con i beni dei predetti de Cicco. Acqua dei Franci: Inoltre detta cappella possiede, in comune ed indiviso con la predetta cappella del Corpo di Cristo, un campo della misura di circa un quarto, con piante di olivo, sito nel detto territorio, in località detta Acqua dei Franci, confinante coi beni di Giulio Cuoco nella parte superiore, con la via vicinale da un lato e lungo la parte inferiore, con la strada pubblica dall’altro lato, nonché con altri poderi. Acqua dei franci: Inoltre detta cappella possiede una vigna congiunta ad un campo, della misura di circa un mezzetto, sita in detto territorio, in località chiamata Acqua dei Franci, confinante con la proprietà di Antonio de Giaia lungo la parte superiore, con quella di Carlo di mastro Angelo lungo l’inferiore, con quella di Claudia Cecer da un lato, nella quale (vigna) sono presenti piante di quercia per i cui frutti Antonio de Giaia paga carlini sei. Pescone: Inoltre detta cappella possiede un orticello, sito in detto territorio, in località chiamata Pescone, della misura di circa mezzo metro, confinante con la proprietà del signor Camillo Petroziello da una parte, con quella di Marciano Petroziello dall’altra, con quella di Nardangelo Vassallo nella parte inferiore e con quella del signor Camillo de Martino nella superiore, nonché con altri confini. Pescone: Inoltre detta cappella possiede un orticello dell’ampiezza di un metro circa, sito nello stesso territorio e nella stessa località, confinante con la proprietà di Giovanni de Brazzo da una parte, con la strada pubblica nella parte inferiore, con i beni di Nardangelo Vassallo dall’altro lato e con il Giardino della Corte nella parte superiore, nonché con altri confini Dietro Corte: Inoltre possiede detta cappella un altro orticello, in comune ed indiviso con la cappella del Corpo di Cristo, della misura di un quarto di tomolo circa, con piante di olivo, sito in detto territorio in località Dietro Corte, confinante con la proprietà di Sabato del Monaco lungo la parte superiore, con quella di Francesco de Salierno nella inferiore, con quella del signor Camillo de Mattia da un lato e con quella del monastero di San Francesco di detta terra dall’altro, nonché con altri poderi. Taverne: Inoltre detta cappella possiede una casa con grotta e ripostiglio, in comune ed indivisa con Mattia di mastro Giacomo, sita in località Taverne, confinante con la proprietà di Lorenzo Tono da un lato, con quella di Marcello Tono dall’altro e sul retro, con la strada pubblica sul davanti, nonché con altre proprietà. Forno: Inoltre detta cappella possiede, in comune ed indivisa con la cappella del Corpo di Cristi, una casa sita nel borgo di detta terra là dove si dice il Forno, confinante con la strada pubblica sul davanti, con la via vicinale da un lato, con la proprietà del signor Camillo de Mattia dall’altro lato e sul retro, casa che affaccia sulla via detta Rua di Angelo Grasso4. Porta di sopra: Inoltre detta cappella possiede, in comune ed indiviso con la cappella del Corpo di Cristo, uno sgabuzzino a piano terra sito nel borgo di detta terra dove si dice la Porta di sopra, confinante coi beni di donna Diana Coca1 da una parte, con quelli di Giacomo de Salierno sul retro, con quelli del signor Patrizio Debrazzo dall’altro lato, con la via pubblica sul davanti2, nonché con altre proprietà. San Vito: Inoltre detta cappella possiede una casa al piano superiore, nel sobborgo di San Vito, compresa fra le proprietà di Tommaso de Martino sul davanti, sul retro e da un lato, nonché fra altri confinanti. Rendite in danaro Pietro di mastro Giacomo paga a detta cappella, ogni anno e per sempre, carlini undici quale rendita di un campo sito ai Capuani, confinante con la proprietà di don Andrea Russo lungo la parte inferiore, con quella di don Michele Russo da un lato, nonché con altri poderi. Il signor Troiano de Rienzo rende ogni anno e per sempre, a detta cappella, carlini cinque per un pezzo di terra sito in località San Pietro, in cui è una pianta di gelso, della misura di un tomolo circa, confinante tutt’intorno con le proprietà del monastero di San Pietro. Donna Diana Coca rende a detta cappella, ogni anno e per sempre, un carlino per una vigna che possiede, sita in località Piano, confinante con la via vicinale nella parte superiore, con la via pubblica in quella inferiore, con la proprietà del signor Battista Pacillo da un lato, nonché con altri poderi. La erede di Cesare de Martino paga quale rendita, ogni anno e per sempre, alla detta cappella, un carlino per un orto che possiede in località Acqua dei Franci, confinante coi beni di Nicola Cuoco da una parte, con quelli degli eredi del signor Domenico Vassallo nella parte inferiore, con quelli di Angela Coca dall’altra parte, nonché con altre proprietà. Il notaio Tullio Zoina paga per censo a detta cappella carlini dodici e grana otto all’anno, a titolo di interessi sul prestito di sedici ducati, in ragione dell’otto per cento, col patto di retrovertendo.

Delle cappelle comprese nella Chiesa Maggiore, la meno dotata era quella sotto il titolo di Santa Maria di Monteserrato, soggetta nell’anno 1628 ad ius patronatus esercitato da Julius dei Dottori Donato.

Era venuto intanto a mancare il sacerdote Vespasiano de Stefanellis ed il beneficio della chiesa di Santa Maria a Canna era stato conferito al Dottor Janus Battista Ferrari della città di Benevento3.



1 Erasmo Ricca: Istoria de’ feudi delle Due Sicilie, Vol. II - Napoli 1865.

2 Archivio di Stato di Avellino - Protocolli notarili, Distretto di Sant’Angelo dei Lombardi: Notai di Paternopoli - Fasc. 1873.

3 Archivio di Stato di Avellino - Protocolli notarili, Distretto di Sant’Angelo dei Lombardi: Notai di Paternopoli - Fasc. 1883.

4 Archivio di Stato di Avellino - Protocolli notarili, Distretto di Sant’Angelo dei lombardi: Notai di Paternopoli - Fasc. 1877.

1 Erasmo Ricca: Istoria de’ feudi delle Due Sicilie, Vol. II - Napoli 1865.

2 Lorenzo Giustiniani: Dizionario geografico ragionato del Regno di Napoli, Tomo VII - Napoli 1804.

3 Michelangelo Cianciulli: Per la Congregazione del SS. Rosario di Paterno contro l’Università della medesima Terra - Napoli 1760.

4 Giorno in cui si svolgeva la solenne festa della Cappella del Rosario.

1 Archivio privato del dott. Nicola Famiglietti di Paternopoli - Scritture della Casa de’ Sig:ri Martini raccolte da me nell’anno 1766 D. S. Famiglietti, co’ notam:to de beni ricavato da fogli vecchi posti in fine di questo libro.

2 Sacerdote con ruolo di preminenza, per dignità più che per anzianità, tra i presbiteri, cioè i preti assegnati alla parrocchia.

3 Archivio di Stato di Avellino - Protocolli notarili, Distretto di Sant’Angelo dei Lombardi: Notai di Paternopoli - Fasc. 1873.

1 Archivio di Stato di Avellino - Protocolli notarili, Distretto di Sant’Angelo dei Lombardi: Notai di Paternopoli - Fasc. 1873.

2 Foto n. 2, Tav. IV, della pubblicazione Scuola Media Statale “F. de Jorio”: Paternopoli, linguaggio e testimonianze di un’antica cultura - Edizione a cura della Cassa Rurale ed Artigiana di Paternopoli - Anno 1991.

1 Michelangelo Cianciulli: Per la Congregazione del SS. Rosario di Paterno contro l’università della medesima Terra - Napoli 1760.

2 Giovanni Mongelli: Abbazia di Montevergine - Regesto delle pergamene, Vol. VI - Roma 1956.

3 Francesco Scandone: Documenti per la storia dei comuni dell’Irpinia, Vol. I - Avellino 1964.

4 Archivio privato del Prof. Giovanni Maccarone di Paternopoli - Libro di memoria da me Dr. D. Carlo Rossi ridotto in questa forma, essendo l’antico roso, in questo corrente anno 1801.

5 Michelangelo Cianciulli: Per la Congregazione del SS. Rosario di Paterno contro l’università della medesima Terra - Napoli 1760.

1 Giustiniani, nella citazione di Manfredi Palumbo: I comuni meridionali prima e dopo le leggi eversive della feudalità - Montecorvino Rovella 1910.

2 Erasmo Ricca: Istoria de’ feudi delle Due Sicilie, Vol. I - Napoli 1865.

3 Francesco Scandone: Documenti per la storia dei comuni dell’Irpinia, Vol. II - Avellino 1964.

1 La zona compresa fra l’interpoderale che da Serra scende a Canalicchio ed il vallone che delimita contrada Cesinelle.

2 Giovanni Mongelli: Abbazia di Montevergine - Regesto delle pergamene, Vol. VI - Roma 1956.

3 Biblioteca Provinciale di Avellino - Carlo Aristide Rossi: Provincia di Avellino - Monografia de’ 128 comuni della Provincia - Manoscritto ricopiato nell’anno 1946.

4 Archivio di Stato di Avellino - Protocolli notarili, Distretto di Sant’Angelo dei Lombardi: Notai di Paternopoli - Fasc. 1875.

5 Francesco Scandone: Documenti per la storia dei comuni dell’Irpinia, Vol. I - Avellino 1964.

6 Archivio di Stato di Avellino - Protocolli notarili, Distretto di Sant’Angelo dei Lombardi: Notai di Paternopoli - Fasc. 1875.

7 Archivio di Stato di Avellino - Ibidem.

1 Archivio di Stato di Avellino - Protocolli notarili, Distretto di Sant’Angelo dei Lombardi: Notai di Paternopoli - Fasc. 1875.

2 Corrispondente a 3.333 mq.

3 La zona boschiva a ridosso del fiume Calore, delimitata a Nord dalla strada provinciale. Traeva la propria denominazione dall’antico ponte romano. Gli scoscendimenti prospicienti, in territorio di San Mango, conservano a tutt’oggi il nome di Coste del Ponte.

4 Pari a mezzo tomolo.

5 Riserva del diritto di prelazione da parte del cedente.

1 Riferiti a tomolo.

2 Località oggi nota come Vallate del Tuoro, e specificatamente la zona valliva compresa fra Tuoro e Sferracavallo dove sorgeva un piccolo casale con la chiesa intitolata a Santa Maria delle Grazie.

3 Nella tradizione orale, come Macchioni è ricordata la zona compresa fra San Felice e l’Acquara Nuova.

1 Nella consapevolezza che questo punto del documento può ingenerare perplessità, si reputa opportuno fornirne un chiarimento. Tutti i beni di proprietà delle chiese erano concessi in fitto, di conseguenza nessuna di esse poteva disporre, se non nella misura pattuita, dei frutti della terra. I terreni menzionati, ubicati in località Cesinelle, erano detenuti da Lelio Cuoco a cui era riservata la metà dei prodotti, mentre la restante parte andava equamente divisa fra la cappella di Maria SS. della Consolazione e quella del Corpo di Cristo. Nel paragrafo che richiama la presente nota si evidenzia come la metà dei prodotti di spettanza di Lelio Cuoco fosse stata acquistata dagli amministratori della cappella di Maria SS. della Consolazione.

2 Zona compresa fra le contrade Cesinelle e Scorzagalline, a valle di quella detta Li Rocchi, in prossimità del fiume Fredane.

3 Un sacco corrisponde a tre tomoli, cioè a 10.000 mq.

4 La Rua di Angelo Grasso, probabilmente un vicolo cieco, era ubicata alle spalle della Chiesa Madre, con accesso dal tratto di strada ora senza sbocco che apre su via San Francesco, un tempo via della Dogana. La casa in questione ne era all’imbocco, confinando sul davanti con la suddetta strada pubblica e, lungo un lato, con la via vicinale che altra non era se non la Rua di Angelo Grasso.

1 Versione femminile del casato “Cuoco”.

2 Nel documento la via è indicata “da sotta”, quindi discendente dal borgo, per cui si ritiene che il riferimento sia a via Salita della Porta.

3 Archivio di Stato di Avellino - Protocolli notarili, Distretto di sant’Angelo dei Lombardi: Notai di Paternopoli - Fasc. 1875.

Diritto alla Storia, Le Cappelle Laicali

Diritto alla Storia - Capitolo 17

L’ingresso del 1500 aveva trovato il borgo di Paterno in rapida espansione. Decaduto ed abbandonato il vecchio monastero francescano, la chiesa della Nunziatella che affacciava sulla piazza non aveva tardato a mostrare i propri limiti in rapporto alla popolazione in costante crescita. Pure la cripta cimiteriale ad essa sottostante, satura ormai delle sepolture di oltre tre secoli e con i posatoi ingombri di cataste di ossa ammuffite, si rivelava inadeguata.

Si era anche infittita la rete stradale interna. Una nuova strada, oggi vicolo cieco definito col nome improprio di via San Francesco, da via della Dogana, poco al disopra della porta di Castello, conduceva a tergo della chiesa per diramare a destra, verso la piazza, ed a sinistra, con sbocco sull’area del Seggio. Il terreno che si estendeva fuori delle mura digradando a sinistra della porta di Napoli, noto col nome di Giardino della Corte, era attraversato da un sentiero detto l’Inchianata dello Pescone2. Dall’area fortificata, da dove altera e minacciosa la torre aragonese vegliava sul borgo, costretto fra le siepi dell’orto del monastero francescano e l’allinearsi scomposto di miserabili bicocche, un viottolo, oggi via San Francesco, discendeva alla piazza oppressa dal disordinato sovrapporsi di usci, di archi, di fughe di scale, di bui meandri pregni del nauseabondo sentore di umido e di muffa.

Lo stesso castello ne era stato aggredito, smembrato, travolto nel generale degrado. Mancando di servizi igienici, soddisfacendo la gente i propri bisogni fisiologici all’aperto, fuori delle mura, o in recipienti che non sempre venivano svuotati in aperta campagna, dai vicoli esalava un fetore d’orina.

Le abitazioni erano in genere costituite da angusti monolocali seminterrati, o da soprani collegati alla strada per mezzo di ripide scalette. I tetti bassi, spioventi, incombevano sul susseguirsi di uscioli intervallati dall’unica finestra, minuscola allo scopo di impedire il passaggio ad eventuali malintenzionati, munita di grata di legno ed oscurata da un lurido cencio. L’impiantito dei seminterrati era in terra battuta o a selce, in legno quello dei piani soprelevati, più raramente pavimentato con piastrelle in terracotta. I camini, sprovvisti di canna fumaria, erano disposti presso l’unica finestra onde agevolare la dispersione del fumo.

Le suppellettili erano ridotte al minimo indispensabile: un tavolo di modeste dimensioni, detto boffetta; un paio di casse, di cui una per il necessario per il cucito e per la filatura della lana, oltre che per qualche coperta ed i pochi indumenti buoni per i giorni di festa, e l’altra per contenere legumi, farine, pagnotte e talvolta gli avanzi; segmenti di tronco d’albero utilizzati come sgabelli (piesciuli) e panche basse, per una o più persone, (scannitielli e scanni). In rari casi si disponeva di mensole di legno incassate nel muro su cui riporre ciotole, posate ed i grossi piatti d’uso collettivo (spase), altrimenti stipati nella cassa in cui si custodivano le scorte alimentari.

La parte più recondita della stanza era occupata da un saccone di tela, talvolta da due, imbottito di paglia e disteso sul pavimento, più raramente su tavolato appena sollevato da terra per mezzo di cavalletti di legno, che fungeva da letto per l’intera famiglia. Sospesa ad una parete era qualche pentola di rame annerita dalla fuliggine, ottenuta in dote o in eredità. L’illuminazione era fornita da una lucerna di terracotta che utilizzava olio di oliva come combustibile.

Le abitazioni sottoposte al piano stradale disponevano di un ulteriore ambiente, la fossa, o grotta, o trasonda, una sorta di ripostiglio scavato in profondità nel terreno argilloso (morgia) in cui si custodivano le poche provviste: olio, vino, frutta secca, unitamente a legna e fascine.

Dalle pertiche sospese orizzontalmente ai soffitti bassi pendevano serti di sorbe, nocciole e peperoni essiccati (‘nzerte), mazzi d’agli e di cipolle, grappoli d’uva (piennici), insieme con la vescica della sugna ed il pezzo di lardo di maiale, ingiallito e rancido, da cui staccare la fetta giornaliera per condirne i cibi. Nelle case meno povere facevano altresì mostra di sé salsicce, capicolli, soppressate e, talvolta, il prosciutto, esibito con orgoglio quale simbolo di benessere.

Sotto il soffitto o nel sottotetto, quasi ovunque, era ricavato uno spazio angusto delimitato da assi e collegato allesterno per mezzo di una pertica munita di pioli. Era questo il pollaio e, dall’alba al tramonto, uno stuolo di galline invadeva le strade, le case, chiocciando, sporcando, cibandosi di scarafaggi e di rifiuti.

Ove gli spazi lo consentivano trovava posto, a ridosso dell’abitazione, un precario ricovero, lo iusillo o porcile, dal quale si levavano grugniti e fetore.

Più ampie e confortevoli erano invece le case di recente costruzione, esterne alla cinta muraria e discoste dal borgo, anche se preponderanti restavano le baracche e le tane brulicanti di diseredati.

Ferdinando II, re d’Aragona, detto il Cattolico, aveva visitato Napoli nell’anno 1506 ricevendone una calorosa accoglienza e cospicui contributi in danaro. Sotto la guida di un viceré il regno si avviava ad un lento ma irreversibile processo di trasformazione che tendeva da una parte a concentrare la nobiltà nella città, allo scopo di conferirle quel prestigio che si addiceva al suo ruolo di capitale europea, e dall’altra mirava a rafforzare l’autonomia amministrativa delle province al fine di snellire il complesso meccanismo burocratico che ne frenava lo sviluppo.

Pure Luigi Gesualdo III, signore di Paterno, disponeva in Napoli di una propria dimora, anche se ormai preferiva la tranquilla vita di provincia e l’intimità del suo castello di Conza, lontano dai veleni della politica e dagli intrighi di corte. Aveva sposato Giovanna, figlia del principe di Salerno Antonello Sanseverino, e da questo matrimonio erano nati Fabrizio, destinato a succedergli nei beni feudali, Camillo che aveva intrapreso la carriera ecclesiastica ed aveva ottenuto la nomina di arcivescovo di Conza, Giovanni e Costanza1.

I Gesualdo non avevano possedimenti personali in Paterno, se non quelli pertinenti alla corte baronale. L’ultimo proprietario del castello e dei cospicui latifondi era stato Giacomo Caracciolo alla cui morte, in assenza di eredi diretti, tutti i beni, acquisiti al demanio, erano andati divisi e dispersi, non sempre con la dovuta chiarezza, fra la nascente borghesia che esprimeva il clero, i notai e la variegata schiera di amministratori locali. Di questa, la famiglia Litio era fra le più ricche e le più influenti. Annoverava fra i suoi membri notai, giudici, prelati e, nella persona di Antonio Litio, morto nell’anno 1455, poteva persino vantare di aver dato un vescovo alla curia di Nusco1.

I de Martino, famiglia altrettanto ricca ed influente, col vantaggio però di essere fra le più antiche del borgo menzionandosene un esponente già nel 1142, seppure ridotto in stato di servilismo, avevano case a tergo della chiesa, difronte alla cripta cimiteriale, lungo la strada che collegava il Seggio con via della Dogana. I Russo invece, il cui casato muterà in Rossi, pur essendo di recente acquisizione, si erano insediati in una parte del vecchio castello. Ad altri maggiorenti, quali i notai Nicola de Poro e Bartolomeo Avisato, andava il merito di aver contribuito allo sviluppo urbanistico dell’area compresa fra la porta di Castello e la torre.

Una classe intermedia, costituita da artigiani, commercianti e proprietari terrieri, si andava nel contempo affermando, suddividendosi in gruppi di quartiere bisognosi, per tradizione, di identificarsi in un proprio luogo di culto. Questo sentimento aveva prodotto in passato le numerose chiese rurali, frutto dell’impegno di ogni singolo casale, e, più di recente, aveva reso possibile l’ampliamento della chiesa di San Luca e la fondazione, in essa, della cappella dell’Annunziata ad amministrazione laica. Acuiva tale esigenza la considerazione che i monasteri esistenti sul territorio dipendevano tutti da lontane abbazie le quali, beneficiando di lasciti e donazioni, sottraevano al paese ricchezze che altrimenti potevano essere utilizzate per testimoniare più degnamente in loco la munificenza e la devozione di un popolo.

Questa aspirazione diffusa non tardò ad esprimere comitati rionali convergenti sull’ambizioso progetto di realizzare una chiesa madre che potesse contenere diverse cappelle, incoraggiati e sostenuti in tale iniziativa dal numeroso clero che ambiva alla titolarità di un altare. Né tuttavia mancarono i dissensi che dovettero essere vinti in animate discussioni di piazza. Si giunse alfine alle sedute assembleari in cui furono designati i questuanti, nominati i tesorieri, e si dette inizio alle sottoscrizioni in danaro, in prodotti ed in promesse di manodopera gratuita.

Nell’anno 1516 morì Ferdinando il Cattolico. Nel suo definitivo testamento aveva indicato quale suo successore Carlo V, appena sedicenne, e sebbene il passaggio della corona non avvenisse senza traumi, questi lontani eventi non furono neppure avvertiti a Paterno. Né ne frenò l’operosità la morte di Luigi Gesualdo III che avvenne in Conza il 14 novembre 1517. Gli succedeva nei beni feudali il figlio Fabrizio che, rivestendo la carica di Regio Consigliere, viveva stabilmente a Napoli. Costui, il 30 ottobre del 1518, pagò il prescritto relievo2, ed il 4 dicembre dello stesso anno ottenne dal viceré Raimondo de Cardona l’investitura del feudo di Conza, col titolo di conte, e quella delle terre di Frigento, Auletta, Caggiano, Cairano, Calitri, Caposele, Castelvetere, Castiglione, Fontanarosa, Gesualdo, Luogosano, Palo, Paterno, Selvitelle, Santa Menna, Sant’Andrea, Santangelolefratte, Taurasi, Teora, Buoniventre, Pietraboiara, Salvia, Santa Maria in Elice e Villamaina3.

Carlo V fu incoronato imperatore ad Aquisgrana nell’anno 1520 e ciò acuì il disappunto di Francesco I di Francia, al pari dei suoi predecessori interessato ai possedimenti spagnoli dell’Italia meridionale.

Il 10 aprile 1520 l’imperatore, con diploma emesso dalla città di San Giacomo di Campostella, confermava tutte le concessioni feudali fatte dal viceré a Fabrizio Gesualdo I. Il nuovo feudatario aveva sposato Sveva, figlia del principe di Melfi Troiano Caracciolo, e da lei aveva avuto tre figli: Luigi, quarto di tal nome, Troiano e Geronimo1.

Intanto l’università di Paterno era tutta mobilitata nella realizzazione della chiesa madre mediante l’ampliamento della preesistente struttura intitolata all’Annunziata. L’opera fu portata a compimento nell’anno 1522: un luogo di culto spazioso, a tre navate, con ingresso, oggi detto porta piccola, dalla piazza. Parimenti fu ampliata la cripta sotterranea, recuperando nuovi spazi per le sepolture, ed una imponente torre campanaria a due spioventi fu eretta a sovrastare il piazzale del Seggio.

Una delle grotte che aprivano sull’attuale piazzetta Vittorio Emanuele II, antiche cave di pietra, penetrava in profondità fin sotto il presbiterio. Era detta, questa, grotta sotto la chiesa. Qui, a sostegno dell’opera muraria soprastante, furono edificati due archi, il più interno al disotto dello stesso presbiterio e l’altro in verticale col nuovo muro perimetrale.

L’altare della navata centrale fu dedicato a San Nicola che fu assunto a patrono della terra. L’effigie del Santo fu fatta riprodurre su tela e, in quello stesso anno, fu disposta a sovrastarne l’altare2.

All’interno della chiesa si insediarono le diverse cappelle. Quella dell’Annunziata conservò la sua originaria posizione alla destra dell’altare maggiore, le altre, di Santa Monica, di Santa Maria del Rosario, del Santissimo Corpo di Cristo, di Santa Maria di Monteserrato, ebbero i loro altari lungo le navate laterali. Erano tutte laicali e soggette ad ius patronatus, vale a dire con riserva da parte dei fondatori del diritto di nomina del clero per le funzioni religiose. Appartenevano tutte a fedeli organizzati in confraternite, ad eccezione di quella di Santa Maria di Monteserrato di cui era proprietaria un’unica famiglia, probabilmente quella dei de Donato.

Le varie cappelle si amministravano autonomamente e non avevano dipendenza alcuna dalla chiesa. In merito si era espressa con chiarezza la Sacra Rota: Confraternitas erecta in Ecclesia dicitur quid separatum ab Ecclesia ... Et sic aliud est Ecclesia, aliud Confraternitas. La confraternita istituita nella Chiesa è da considerare entità separata dalla Chiesa medesima ... E così una cosa è la Chiesa, altra la confraternita.

All’atto della costituzione ciascuna confraternita si dava un proprio statuto, comunque non dissimili fra loro, che veniva depositato presso la Curia Vescovile. La congregazione poi, in seduta plenaria, eleggeva il proprio Rettore nella persona di un sacerdote che restava in carica a vita. La Cappella del SS. Rosario similmente si governa da Procuratori, i quali si eleggono dal Rettore di detta Confraternità, e sono approvati, e confermati dalli Confratelli di detta Compagnia, e dopo per bussola si cavano due, e quelli restano per Procuratori di quell’anno, e tengono anche la detta autorità di esigere, e pagare3.

Dallo stralcio dello statuto della Congregazione del Santissimo Rosario emerge chiaro come, da una rosa di nomi proposta dal Rettore ed approvata dal Collegio dei Confratelli, si estraessero a sorte due Procuratori incaricati, per la durata di un anno, di riscuotere rendite ed elargizioni e di effettuare i pagamenti costituiti non solo dai compensi per i servizi religiosi, ma anche dal costo dei ceri, dalla ordinaria manutenzione, dal rinnovamento degli arredi sacri e dagli interventi intesi a migliorare le condizioni della cappella.

Il coinvolgimento popolare nella gestione di una chiesa patronale, sentita come patrimonio comune dall’intera università, contribuì a decretare la definitiva decadenza dei monasteri, che non poteva tuttavia essere immediata. Ancora ingenti erano i beni di cui essi disponevano, frutto della passata devozione. Ne è riprova il fatto che, il 2 febbraio 1527, con atto del notaio di Mercogliano Giovanni Tommaso de Morra, il vicario di Montevergine frate Francesco de Falco concesse per 20 anni, a Giovanni Petruccio, a Nicola de Angerio e ad altri cittadini di Paterno, un castagneto in località La Grassuta, presumibilmente la zona scoscesa sul versante del Fredane compresa fra Serra a monte e Canalicchio a valle, in cambio di 100 tomoli di grano all’anno1, corrispondenti a 45 quintali circa.

Cresceva intanto la tensione tra la Spagna ed il re di Francia che cercava giustificazioni che legittimassero l’invasione del regno di Napoli da lungo tempo meditata. La crisi esplose nell’anno 1527. Le truppe francesi, al comando del Maresciallo Odet de Foix, visconte di Lautrec, discesero in Italia, saccheggiarono Roma e quindi mossero verso Napoli a cui posero l’assedio.

Il visconte di Lautrec preferì evitare l’assalto alla città, giudicando che ciò avrebbe comportato ingenti perdite fra le sue file, e, per costringere i Napoletani alla resa, ricorse all’incauto espediente di far occludere gli acquedotti.

Ben presto però gli assedianti ebbero a patire le conseguenze dell’insano gesto. Le precarie condizioni igieniche causate dalla carenza d’acqua favorirono l’insorgere di una terribile pestilenza che prese a mietere vittime sia fra i belligeranti che fra la popolazione civile. Perdurando l’assedio, nell’anno 1528 perirono di peste lo stesso Odet de Foix ed il suo luogotenente Pietro Navarro.

Decimati, delusi, i Francesi dovettero ritirarsi ma, per desiderio di vendetta o in previsione di un nuovo progetto di invasione, cominciarono ad offrire protezione e sostegno alle azioni piratesche che i Turchi da tempo andavano compiendo nel mare Mediterraneo contro le coste pugliesi e la stessa capitale.

A Paterno non giungevano che i soli echi di questi lontani eventi. La sua posizione interna aveva, prima, preservato i cittadini dal contagio della letale epidemia e li teneva, ora, al sicuro dalle incursioni turche. La popolazione si manteneva pertanto su livelli elevati, tanto che, nel 1532, l’università fu tassata per 161 fuochi2. Prosperavano le cappelle per la generosità dei fedeli, né la devozione per la Madonna di Montevergine si era del tutto affievolita. Il 17 luglio 1532, con atto del notaio di Paterno Nicola de Poro ed alla presenza di Antonio Petruzello in veste di giudice annuale della stessa terra, i coniugi Pascuccio Sarro e Rebecca donarono all’abbazia di Montevergine la loro casa nel borgo, dotata di forno e fossa, con tutti i mobili in essa contenuti ed in più un asino, col patto di essere accolti come oblati in quel monastero per trascorrervi il resto dei loro giorni, di riceverne cibo e di esservi seppelliti alla loro morte3. Ed ancora: Antonella, rimasta vedova di Conforto Sara e non intendendo prendere marito per la seconda volta, con atto redatto dal notaio di Paterno Bartolomeo Avisato, assistito dal giudice annuale Nicola de Rogerio, il 17 luglio 1533 fece dono al monastero di Montevergine di tutti i suoi beni esistenti in Paterno, e cioè di una casa ubicata in Pendino della Fontana con un piccolo orto contiguo, di un orto nel luogo detto Sant’Angelo e di una vigna con campo in località Acquara, in cambio di cibo, vestiario, sepoltura nella chiesa di San Nicola di Paterno solennizzata dalla celebrazione di dieci messe e, per finire, quarantuno messe all’anno in suffragio della sua anima, da celebrarsi in Montevergine4.

Né mancavano di risorse i pur numerosi luoghi di culto sparsi sul territorio. Nella zona oggi genericamente denominata Casale, oltre la chiesa annessa al monastero di San Pietro ve ne era una sotto il titolo di Santa Margherita Vergine e Martire; nel casale di Sant’Andrea sorgeva quella intitolata a Santa Maria del Monte Carmelo; fra Boane e Cerreto sopravviveva la vetusta chiesa di San Damiano ed altra, poco discosta, era stata eretta in onore di Santa Prassede; in contrada Nocelleto si venerava Santa Maria della Sanità; nei pressi del Fredane, fra Tuoro e Sferracavallo, sorgeva la chiesa di Santa Maria delle Grazie; la chiesa di San Felice era eretta nell’omonima contrada; quella dedicata al culto dell’Arcangelo Michele era stata trasferita dai pressi del vallone a monte della Pescarella a margine della fontana edificata dai Francesi; lungo il Pendino della Fontana era sorta quella sotto il titolo di San Sebastiano; San Quirico e Santa Maria dell’Assunta, detta comunemente a Canna, erano annesse ai rispettivi monasteri1.

Comunque non tutte potevano dirsi espressione di reali esigenze spirituali, soprattutto le cappelle presenti nel borgo, di recente fondazione, le cui confraternite costituivano dei veri e propri potentati gestiti di fatto dai clan familiari più in vista. Alle famiglie emergenti, che per ragioni di prestigio destinavano un proprio esponente alla carriera ecclesiastica, non restava alternativa oltre quella di promuovere l’aggregazione di nuove confraternite capaci di mobilitare risorse per la realizzazione di nuove cappelle su cui garantirsi lo ius patronatus.

Fu così che la chiesa di Santa Maria di Costantinopoli, oggi conosciuta sotto il titolo di San Giuseppe, fu edificata nell’anno 1534, come attesta la scritta ora illeggibile scolpita sull’architrave della porta di ingresso: HOC OPUS F.F ET A / FUNDAMENTIS EREX / UNIVERSITAS PATERNI / 15342;

Quest’opera realizzarono i confratelli e dalle fondamenta eresse l’università di Paterno nell’anno 1534;

ed altra seguì, a metà strada lungo il Pendino dell’Angelo, consacrata al culto di San Vito.

La disponibilità in tali occasioni manifestata dal popolo, se per un verso costituisce prova di profonda devozione, è per l’altro indicativa di un diffuso benessere. La popolazione non solo era cresciuta numericamente, ma aveva pure acquisito capacità e intraprendenza. Fiorivano l’agricoltura e l’artigianato ed i prodotti locali venivano commercializzati sui mercati più vantaggiosi, anche se lontani.

Non mancava neppure chi si dedicasse alla faticosa ma redditizia attività militare. La spedizione contro Tunisi, condotta nell’anno 1535 dall’imperatore Carlo V per porre fine alle scorrerie piratesche dei Turchi, impegnò con onore il capitano di ventura Martino Musacchio da Paterno che ne meritò il cingolo militare e fu insignito del Clavio di fortezza3.

Eppure il fisco falcidiava l’economia con esasperante meticolosità. Oltre la tassa focatica, comprensiva di quella sul sale, che colpiva indiscriminatamente ogni nucleo familiare, una serie articolata di imposte veniva a gravare sulle persone fisiche, sulle attività produttive e sulla molteplicità dei beni. Una tavola dell’apprezzo, di cui a scopo esemplificativo è opportuno stralciare qualche voce, fu disposta da Pietro Piccolo nel novembre 1541: ... - Item lo mastro calzolaro senza discepolo onze 2 - Item lo mastro scarparo zavattero onza 1 e 1\2 - Item lo mastro calzolaro che cuse con sole d’altri e non tiene capitania sua onza 1 e 1\2 - Item lo mastro forgiaro inviato con stigli e forgia onze 2 - Item lo mastro ferraro con discepolo onze 3 - Item lo ferraro che sta lavorante onza 1 e 1\2 - Item lo barbiero con discepolo onze 2 e tarì 5 - Item lo mastro fabbricatore onze 2 - Item lo mastro fabbricatore che repezza e non va a giornata onza 1 e 1\2 - Item lo potecaro con poteca lorda e con capitania onze 2 - Item lo mastro d’ascia seu carpentiere con discepolo onze 2 - Item lo bove e lo ienco di tre anni tarì 12 - Item lo ienco di un anno in due tarì 8 - Item la vacca stirpa domita tarì 10 - Item la vacca stirpa selvaggia tarì 6 - Item la vacca figliata selvaggia tarì 7 - Item la vacca figliata domita tarì 11 - Item la persona dell’uomo che stà a patrone purché sia maggiore onza 1 - Item le persone delli figliuoli gionti che saranno alli anni undici finiti li dieci si impongono un tarì per ogni anno insino all’anni dieceotto - Item la persona dell’uomo che sarà gionto alli anni dieceotto se stà con il patre se ponga onza 1 - Ma stando separata dal patre se ponga onza 1 e tarì 6 - Item lo centinaro di porci di otto misi a bascio si pongono doi per uno tarì 22 e grana 10 - Item lo centinaro delle pecore onza 1 e 1\2 - Item lo centinaro delle capre tarì 22 - Item la giomenta figliata tarì 11 - Item la giomenta stirpa tarì 10 - Item lo cavallo o mula di basto tarì 10 - Item l’asino di basto tarì 5 - Item lo trappito tarì 20 - Item la persona del molinaro che stà a patrone onza 1 - Item lo molinaro masto che concia molini onza 1 e 1\2 - Item la persona del mercante con loro danaro onza 3 - Item la persona del viaticaro con lo mulo onze 2 - Item la persona delli medici chirurgi onza 1 e 1\2 - Item li spetiali medicinali lavoranti onza 1 e 1\2 - Che li piedi d’olivi siano distinti l’uno dall’altro otto palmi, e che l’olivo possa fare mezzo tumolo d’olivo per uno per ogni anno e si pongano grana 5 lo piede - Item le vigne di zappa se pongano per ogni migliaro tarì 3 - Item le vigne poste in palo non ostante che non facciano frutto se pongano ut sopra - Item la persona della vidua tarì 10. ... Così il calzolaio privo di apprendista (è soggetto al pagamento di) once 2 - Così il ciabattino once 1 e mezza - Così il calzolaio che lavora cuoio fornito dal committente e non dispone di materiali propri once 1 e mezza - Così il fabbro forgiatore che si sposta con attrezzi e forgia once 2 - Così il fabbro con apprendista once 3 - Così il fabbro che lavora alle dipendenze di altro once 1 e mezza - Così il barbiere con apprendista once 2 e tarì 5 - Così il muratore once 2 - Così il muratore che rappezza e non è retribuito a giornate lavorative once 1 e mezza - Così il negoziante con bottega e mercanzia proprie once 2 - Così il falegname o carpentiere con apprendista once 2 - Così il bue ed il vitello di tre anni tarì 12 - Così il vitello di età superiore all’anno ma inferiore ai due tarì 8 - Così la mucca sterile avvezza al giogo tarì 10 - Così la mucca sterile non aggiogata tarì 6 - Così la mucca prolifica non aggiogata tarì 7 - Così la mucca prolifica aggiogata tarì 11 - Così l’uomo che presta lavoro dipendente, purché maggiorenne, oncia 1 - Così i figli che siano nell’undicesimo anno, avendo compiuto i dieci, siano soggetti al pagamento progressivo di un tarì per ogni anno di età, sino al compimento dei diciotto - Così l’uomo che avrà compiuto i diciotto anni, se vive presso il padre paghi oncia 1 - Ma se non vive in seno alla famiglia paghi oncia 1 e tarì 6 - Così per ogni centinaio di maiali di età inferiore agli otto mesi, considerandone due come se fossero uno, tarì 22 e grana 10 - Così per ogni centinaio di pecore once 1 e mezza - Così per ogni centinaio di capre tarì 22 - Così la giumenta prolifica tarì 11 - Così la giumenta sterile tarì 10 - Così il cavallo o la mula avvezzi al basto tarì 10 - Così l’asino avvezzo al basto tarì 5 - Così il frantoio tarì 20 - Così il mugnaio che svolge lavoro dipendente oncia 1 - Così l’artigiano che ripara i mulini once 1 e mezza - Così chi esercita l’attività di mercante con danaro proprio once 3 - Così la persona che effettua trasporti a dorso di mulo once 2 - Così i medici chirurgi once 1 e mezza - Così gli speziali abilitati alla preparazione di medicinali (gli odierni farmacisti) once 1 e mezza - Per le piante d’olivo, che siano disposte alla distanza di otto palmi l’una dall’altra in modo che ciascun olivo possa produrre mezzo tomolo di olive per anno, si paghino grana 5 per pianta - Così per le viti coltivate basse si paghino tarì 3 per ogni migliaio di piantine - Così le viti sorrette da pali, nonostante non producano frutto, si paghino come sopra (cioè tarì 3 per ciascun migliaio) - Così la vedova tarì 10. Nel 1545 Paterno fu tassata per 195 fuochi1. Nello stesso anno la regia Camera della Sommaria aveva impartito più dettagliate disposizioni per il rilevamento dei fuochi e sancito che chiunque avesse sottratto con sotterfugio il proprio focolare al censimento sarebbe stato punito con la confisca dei beni e sottoposto a giudizio. Nel dettato erano contemplati anche i casi per i quali era prevista l’esenzione fiscale. Non erano soggetti a tassa focatica: Vidua sola aut cum filiabus femminis seminatum cum paucis aut nullis bonis - Vedove con tre o quattro figlie, et haverà una casa et tanto territorio, del quale ne farà una botte di vino, quando più et quanto meno - Vedove che possedono poche robbe estimate in catasto per doe onze o poco più - Vidua cum puberibus sine bonis - Senex solus pauper et sexageniarius vel infirmus - Sexagenario che have solum un figlio preite o vero diacono de evangelio unito con patre - Vagabundus non possidens - Barones habitantes in terris eorum domini. La vedova sola o con figlie femmine, dotata di terreno seminativo scarsamente o niente affatto produttivo - Le vedove con tre o quattro figlie, pur se provviste di casa e di terreno dal quale però si ricavi più o meno una sola botte di vino - Le vedove che posseggono pochi beni del valore catastale di due once o poco più - La vedova con figli piccoli e sprovvista di beni - L’anziano solo, povero e sessantenne o infermo - Il sessantenne che abbia un unico figlio, prete o diacono, vivente presso di lui - Il vagabondo privo di risorse - I baroni abitanti nelle terre soggette al loro dominio. Erano altresì esenti da tassa le suore e i preti. Per questi ultimi però si imponeva la verifica delle bolle di consacrazione e, in mancanza, si faceva obbligo agli addetti alla rilevazione di accertarsi che celebrassero messa. Quanto alle donne amiche de preiti, che hanno figliuoli grandi, o che possedono, le quali fate dubbio se devono da trattarsi per meretrici, o non, dicimo, che non se devono trattare per meretrici, ma vedete iusta le regole, che tenete, se devono restare per fuoco. Quanto alle donne conviventi coi preti, le quali abbiano figli adulti o posseggano beni propri, per le quali si sia in dubbio se debbano o meno essere considerate prostitute, si ritengano per donne qualsiasi e si applichino nei loro confronti i normali parametri al fine di stabilire se debbano o meno corrispondere la tassa focatica.

Non erano, alfine, soggetti a tassazione coloro che avessero non meno di dodici figli, nonché i soldati e gli uomini d’armi.

I 195 fuochi censiti nell’università di Paterno sottintendevano un elevato livello di benessere dai benefici del quale però, per l’opera infaticabile e non disinteressata delle confraternite e del clero diocesano, restavano ormai esclusi gli antichi monasteri. Quello di San Francesco era stato del tutto abbandonato e solo qualche anziano religioso permaneva in San Quirico con funzioni di guardiano, tanto da consigliare all’abbazia di Montevergine la dismissione dei cospicui possedimenti nella obiettiva difficoltà di curarne la gestione con qualche profitto. Così, in mancanza di un valido referente sul posto, il 15 maggio 1546 padre Gregorio da Mercogliano fu nominato procuratore in ordine alla vendita di un terreno in Paterno, di circa 30 moggi1, donato all’Ospedale del-l’Annunziata di Napoli dal defunto Felice di Paterno2.

Intanto, il 14 giugno 1545, era deceduto Fabrizio Gesualdo I ed il figlio Luigi IV, in data 30 settembre 1546, ottenne dal viceré don Pietro di Toledo l’investitura della contea di Conza e degli altri feudi fra cui Paterno, nonché delle terre di Villamaina e di Sant’Angelo all’Esca che suo padre aveva acquistato da Giovanni Antonio Capece3.

L’incremento demografico di Paterno dilatava il perimetro del borgo, ma soprattutto favoriva la crescita e lo sviluppo dei nuclei periferici quali via Pescone, via Croce, via Acqua dei Franci. Alla prima abitazione costruita dal proprietario di un appezzamento di terreno a fronte della strada, altre se ne aggiungevano a tergo che questi destinava ai propri figli. Ne risultavano alfine dei vicoli che assumevano la denominazione del capostipite, se vivente, o in caso contrario del di lui casato. Così si ricorda che Giulio Cesare Mansione, che il 24 giugno 1564 sposò Isabella de Bellucis di Grottaminarda, possedeva parte di una casa in Paterno, in rua dei Sandoli4, che era appena fuori della porta di Napoli; così nel borgo, alle spalle della chiesa di San Nicola, là dove funzionava il forno pubblico, una via era detta di Angelo Grasso5.

Nella zona in cui oggi ha principio la via per l’Acquara, interessata al passaggio dei mercanti che trafficavano fra la pianura Campana e la Puglia, alle locande si erano venute ad affiancare numerose abitazioni civili. Qualche precario ricoverò già insidiava pure il Giardino della Corte, lungo l’Inchianata dello Pescone, ed altri se ne addossavano alle spalle del castello, nell’area detta Dietro Corte, oltre la quale si apriva la campagna denominata Fosse1.

Il monastero di San Francesco ne possedeva i terreni a monte (l’area a tergo dell’omonima chiesa, comprensiva della strada, del monumento ai Caduti e di parte di piazzale Kennedy), più in basso si estendevano le proprietà della famiglia de Mattia2 (la zona sottostante lungo la quale oggi scorre il tratto di via Nazario Sauro compreso fra piazza XXIV Maggio e via Fiorentino Troisi).

La cinta muraria dell’antico borgo aveva praticamente esaurito la sua funzione difensiva. Sistematicamente saccheggiata delle pietre da impiegare in nuove costruzioni, consentiva il varco in più punti. L’abbondanza di materiale facilitava l’ampliamento delle vecchie abitazioni. Se ne avvantaggiò largamente l’agglomerato sorto presso la torre, dirimpetto alle prigioni, per la realizzazione di una imponente struttura di sostegno costituita da tre arcate che, fra l’altro, salvaguardavano i sottostanti abituri ricavati nel terreno argilloso3.

Ciò nonostante, ufficialmente l’accesso al borgo restava limitato alle sole due antiche porte. Quella di Castello veniva ancora familiarmente detta porta di sopra, mentre l’altra invece conservava il nome originario, come si rileva dal contratto di vendita, stipulato il 29 marzo 1627 dal notaio Tullio Zoina a favore di Andrea de Latrico, di una quoda hortum cap. insimine unius metriede incirca cum uno pede ficus intus situm et positum in distrittu ditte t.re ubi dr. la porta de napoli justa a capite viam publicam justa ad uno lte.m viam vicinalem justa a pede et ab alio later.m bona ipsius andree et als fines ...4

parte di un orto di capacità seminativa di circa un metro, con dentro una pianta di fichi, sito nel distretto di detta terra dove si dice la porta di Napoli, prospiciente la strada pubblica lungo la parte superiore, limitata da un lato dalla via vicinale e confinante in basso e dall’altro lato con i beni dello stesso Andrea, nonché con altre proprietà ...

La cisterna del castello non bastava più a soddisfare i bisogni dell’accresciuta comunità. Invero raramente se ne erano servite le donne che da sempre preferivano attingere l’acqua in capaci orci (mescetore) da portare in bilico sul capo, alla fontana dei Francesi, all’Acquara o, più di sovente, alla Pescarella, detta fontana delli guatuni, ove si aveva la possibilità di concedersi un breve riposo dalle fatiche della giornata nella chiesa di Santa Maria a Canna.

Era sempre aperta questa chiesa e ad ogni ora vi recitavano le orazioni le suore del monastero, tutte di buona famiglia, spesso sacrificate ad indossare l’abito monacale per evitare l’eccessiva frantumazione dei patrimoni. Nell’ora vespertina, poi, vi si poteva assistere alla messa officiata da don Francesco Aceto, un prete napoletano a cui, in data 8 luglio 1555, era stato conferito il beneficio seu cappella di Santa Maria a Canna della Terra di Paterno, nella Diocesi Frequentina, vacato per la morte di Filippo Floreto di Acerno, quale Grancia di S. Guglielmo del Gulito annesso a Montevergine5.

Dall’alba al tramonto ogni rione, ogni sobborgo brulicava di bambini sudici, cenciosi, intimiditi dalle occhiate severe degli anziani seduti fuori degli usci. Solo un’esigua minoranza fruiva dei primi erudimenti di scrittura e di calcolo impartiti dal clero con metodi coercitivi.

Pubblico notaio era Bartolomeo Avisato. Alla sua attenzione venivano sottoposti i fatti che i cittadini ritenevano opportuno documentare perché conservassero efficacia nel tempo. Così egli era tenuto a prendere nota nei suoi registri delle disposizioni testamentarie, delle donazioni, dei lasciti, dei contratti di vendita, dei patti matrimoniali, dei nominativi degli amministratori eletti e persino di testimonianze da far valere in controversie giudiziarie.

Non vi era un funzionario addetto all’anagrafe. Le nascite e le morti erano indirettamente documentate dal parroco in distinti registri per le annotazioni dei battesimi e delle cerimonie funebri.

Non mancava invece nel borgo il negozio dello speziale a cui era demandato il compito di preparare gli intrugli medicamentosi secondo le indicazioni del medico. Tuttavia la maggioranza della popolazione affidava la cura della propria salute alle pratiche magiche che, pur se condannate dalla Chiesa, sopravvivevano e si esprimevano con una molteplicità di guaritrici che godevano fama di stregoneria.

Per combattere appunto tali forme di eresia Carlo V aveva provato ad introdurre nel regno i tribunali dell’Inquisizione, a somiglianza di quelli tristemente attivi in Spagna, incontrando però tenaci resistenze. L’ultimo tentativo in tal senso, condotto nell’anno 1547, aveva addirittura suscitato a Napoli una sommossa popolare, di cui si era fatto promotore Tommaso Aniello Sorrentino, che aveva avuto come conseguenza la costituzione di una milizia civica di circa 14.000 unità da contrapporre ai soldati spagnoli incaricati di far rispettare le disposizioni. Numerose erano state le vittime degli scontri e Carlo V, in cambio della deposizione delle armi, era stato costretto a ritirare il decreto. Successivamente, nell’anno 1554, non essendo riuscito a recuperare popolarità fra la gente, aveva dovuto rinunciare alla corona di Napoli a favore del figlio Filippo II.

Nell’anno 1561 Paterno fu tassata per 263 fuochi1. Il suo signore, Luigi Gesualdo IV, il 30 maggio ottenne l’investitura di Principe di Venosa e l’università, come consuetudine, dovette autotassarsi per l’omaggio rituale che al feudatario era dovuto in occasione di ogni evento straordinario.

Il 31 luglio di quell’anno, poi, l’Irpinia fu interessata da un nuovo terremoto ricordato in questi termini dallo storico Scipione Bellabona: All’ultimo di luglio 1561 di giovedì alle 22 hore (cioè a due ore dal tramonto) si mosse in Avellino una crudelissima tempesta de’ venti ... Appresso a questo, dopo un’hora, prima, che per la sopravenente notte s’ottenebrasse l’aria, all’improvviso sopravvenne così terribile Terremoto, che senza interrompimento di tempo durò un pezzo, e tal fu lo scotimento, e tremore, che l’una casa su l’altra poggiando, lasciò quasi in tutte lesioni, e fissure, e fra l’altre, nelle Torri del Castello, e nel Vescovado.

L’epicentro si era localizzato nella valle del Sele, abbastanza lontano perché Paterno subisse gravi danni, tuttavia il fenomeno venne avvertito come segno della collera divina. Pesava su tutti la colpa di aver permesso il decadimento del monastero di San Francesco. Ne fu restaurata la chiesa, ma ciò non si ritenne sufficiente, e alfine, nell’anno 1565, fu iniziata la costruzione di un nuovo convento2.

Ciò fu possibile grazie al notaio Nicolangelo Petruzzo che donò alla Religione di San Francesco la Scarpa un territorio di tomola 10 con una vigna, dove si dice S. Cesinale, ed una casa per edificare un monistero dell’istessa Religione col nome di Santa Maria della Pace, con le condizioni che vi avessero dovuto permanere quattro frati dell’istessa Religione de’ quali uno fosse stato predicatore: e che questi frati non avessero dovuto mai partire, né abbandonare detto monistero per qualunque causa, e nel caso partissero la suddetta donazione restasse irrita e cassa, ed i suddetti beni donati ritornassero, anche senza sentenza del giudice, nel primo dominio del donante Nicolangelo Petruzzo, de’ suoi eredi e successori3.

Parimenti si arricchiva la terra di Paterno di solidi e spaziosi edifici in muratura che testimoniavano le floride condizioni economiche in cui ora versava l’università. Fra altre, ai piedi del Pendino della Fontana, sulla via per Napoli, sorse la nuova casa dei Debracio, il cui casato muterà negli anni successivi in Debrazzo e quindi in De Brazzo. Per l’occasione fecero scolpire lo stemma di famiglia da esibire alla sommità dell’ingresso: uno scudo su cui campeggiava un braccio sinistro, vestito d’armatura, ricurvo ad angolo retto a contenere la scritta DEBRA \ CIOAD \ 15701 (Debracio - Anno del Signore 1570), a simboleggiare una condizione sociale di preminenza acquisita con la forza delle armi ed il coraggio posti al servizio del re.

Abitava in Rua delle Rose la famiglia Litio. Questa esercitava la propria influenza sulla cappella di Santa Maria del Rosario e, nell’anno 1583, erano dei Litio sia il Rettore che uno dei due procuratori, come si evidenzia dalla presentazione del cunto et bilanzo di me Vincenzo Litio de Paterno e mastro Lonardo Casali Mastri della Cappella di S. Maria del SS. Rosario de Paterno, electi per lo Rev. jo: Baptista Litio Rettore o Cappellano de dicta Cappella del SS. Rosario tanto per le intrate, quanto per le elemosine, quali so nell’anno 1583 e 1584 intrante, et anco quello exitato per loro amministrazione2.

conto consuntivo e bilancio di previsione (disposti) da me, Vincenzo Litio di Paterno, e da mastro Leonardo Casali, Procuratori della Cappella di Santa Maria del SS. Rosario di Paterno, eletti (su proposta avanzata) dal Reverendo Giovanni Battista Litio, Rettore e Cappellano di detta Cappella del SS. Rosario, (relativi) sia alle rendite che alle elargizioni, quali risultano (incassate) nell’anno 1583 e (da incassare) nell’entrante 1584, sia anche a quanto speso durante la loro amministrazione.

Il 17 maggio 1584 morì Luigi Gesualdo IV. Aveva sposato Isabella Ferrello ed il loro primogenito, Fabrizio II, ne ereditò i feudi3. Dal 1577, anno in cui avevano pagato alla Regia Corte i relativi diritti, esercitavano i Gesualdo lo ius patronatus su molte cappelle delle loro terre, quali la chiesa di Santa Maria del Castello in Gesualdo; la chiesa di San Nicola con gli arcipresbiteriati di Sant’Angelo, di Santa Maria a Corte, di San Bartolomeo e di Santa Marta in Nemore, tutti in Fontanarosa; la chiesa di San Pietro nel castello di Taurasi; le chiese di Sant’Angelo e di Santa Maria, in Sant’Angelo all’Esca4.

Nessun diritto vantavano invece su alcuno dei numerosi luoghi di culto di Paterno, tutti amministrati da locali associazioni laiche, dalle quali però restavano escluse molte delle famiglie protagoniste di una più recente ascesa sociale. Ai De Bracio, ai Russo, agli Zoina, cui suonava discriminatoria ed umiliante tale preclusione, non rimase che costituire una nuova confraternita che votarono alla devozione di Maria Santissima della Consolazione.

Sollecitarono costoro, ed ottennero, ospitalità nella chiesa maggiore. Incaricarono quindi un valente artista del tempo, il pittore fiorentino Francesco Vestrumo, di raffigurare la Santissima Madre e, nell’anno 1588, la sacra immagine della Vergine assisa in trono, dipinta su tavola, fu esposta alla venerazione del popolo nella navata sinistra della chiesa di San Nicola.


2 Letteralmente “la salita del masso”, oggi via Pescone. La denominazione le derivava dalla presenza di una enorme pietra, successivamente rimossa.

1 Erasmo Ricca: Istoria de’ feudi delle Due Sicilie, Vol. II - Napoli 1865.

1 Biblioteca Provinciale di Avellino - Carlo Aristide Rossi: Provincia di Avellino - Monografia de’ 128 comuni della Provincia - Manoscritto ricopiato nell’anno 1946.

2 Erasmo Ricca: Istoria de’ feudi delle Due Sicilie, Vol. II - Napoli 1865.

3 Erasmo Ricca: Istoria de’ feudi delle Due Sicilie, Vol. I - Napoli 1865.

1 Erasmo Ricca: Istoria de’ feudi delle Due Sicilie, Vol. II - Napoli 1865.

2 Un Irpino: Uno scandalo in Irpinia nell’epoca borbonica in Paternopoli (Av).

3 Michelangelo Cianciulli: Per la Congregazione del SS. Rosario di Paterno contro l’Università della medesima Terra - Napoli 1760.

1 Giovanni Mongelli: Abbazia di Montevergine - Regesto delle pergamene, Vol. V - Roma 1956.

2 Lorenzo Giustiniani: Dizionario geografico ragionato del Regno di Napoli, Tomo VII - Napoli 1804.

3 Giovanni Mongelli: Abbazia di Montevergine - Regesto delle pergamene, Vol. V - Roma 1956.

4 Giovanni Mongelli: Ibidem.

1 Giuseppe De Rienzo: Notizie storiche sulla Miracolosa Effigie di Maria SS. della Consolazione, precedute da un saggio istorico sulla terra di Paterno - Napoli 1821.

2 Un Irpino: Uno scandalo in Irpinia in epoca borbonica in Paternopoli (Av).

3 Salvatore De Renzi: Uomini illustri nati a Paternopoli, appendice a Notizie storiche sulla Miracolosa Effigie di Maria SS. della Consolazione - Napoli 1967.

1 Lorenzo Giustiniani: Dizionario geografico ragionato del Regno di Napoli, Tomo VII - Napoli 1804.

1 Nel Napoletano il moggio aveva valore di unità di superficie, corrispondente a 100 canne quadrate, pari ad are 6,999. Se ne desume che il terreno in parola avesse la superficie di circa 21.000 mq.

2 Giovanni Mongelli: Abbazia di Montevergine - Regesto delle pergamene, Vol. I - Roma 1956.

3 Erasmo Ricca: Istoria de’ feudi delle Due Sicilie, Vol. I - Napoli 1865.

4 Antonio Palomba ed Elio Romano: Storia di Grottaminarda, il paese di San Tommaso - Grottaminarda 1989.

5 Archivio di Stato di Avellino - Protocolli notarili, Distretto di Sant’Angelo dei Lombardi: Notai di Paternopoli - Fasc. 1875.

1 Archivio di Stato di Avellino - Protocolli notarili, Distretto di Sant’Angelo dei Lombardi: Notai di Paternopoli - Fasc. 1875.

2 Archivio di Stato di Avellino - Ibidem.

3 Foto n. 4, Tav. XXXVI, della pubblicazione. Scuola Media Statale “F. de Jorio”: Paternopoli, linguaggio e testimonianze di un’antica cultura - Edizione a cura della Cassa Rurale ed Artigiana di Paternopoli - Anno 1991.

4 Archivio di Stato di Avellino - Protocolli notarili, Distretto di Sant’Angelo dei Lombardi: Notai di Paternopoli - Fasc. 1875.

5 Stralcio di documento dell’Archivio della SS. Annunziata di Napoli, Vol. XI, n. 420, riportato quale nota in: Giovanni Mongelli: Abbazia di Montevergine - Regesto delle pergamene, Vol. V - Roma 1956.

1 Lorenzo Giustiniani: Dizionario geografico ragionato del Regno di Napoli, Tomo VII - Napoli 1804.

2 Foto a pag. 457 della pubblicazione: Scuola Media Statale “F. de Jorio”: Paternopoli, linguaggio e testimonianze di un’antica cultura - Edizione a cura della Cassa Rurale ed Artigiana di Paternopoli - Anno 1991.

3 Giuseppe De Rienzo: Notizie storiche sulla Miracolosa Effigie di Maria SS. della Consolazione, precedute da un saggio istorico sulla terra di Paterno - Napoli 1821.

1 Foto n. 1 della Tav. LVII della pubblicazione: Scuola Media Statale “F. de Jorio”: Paternopoli, linguaggio e testimonianze di un’antica cultura - Edizione a cura della Cassa Rurale ed Artigiana di Paternopoli - Anno 1991.

2 Cianciulli Michelangelo: Per la Congregazione del SS. Rosario di Paterno contro l’università della medesima Terra - Napoli 1760.

3 Erasmo Ricca: Istoria de’ feudi delle Due Sicilie, Vol. I - Napoli 1865.

4 Libro dei Rilevj di Principato Ultra e Capitanata.

Diritto alla Storia, Effetti delle occupazioni francesi

Diritto alla Storia - Capitolo 16

La rivolta dei baroni e la conseguente invasione del regno da parte di Giovanni d’Angiò erano destinate ad originare una serie di rapidi e profondi cambiamenti, i più immediati dei quali a livello urbanistico, stante la necessità di risanare i guasti prodotti dalla guerra e di approntare adeguati sistemi difensivi. Nuovi castelli, ispirati a moderni criteri di costruzione, furono edificati a Gesualdo ed a Taurasi, i cui rispettivi borghi fortificati erano stati rasi al suolo.

Relativamente a Paterno si era acquisita la consapevolezza dell’importanza strategico-militare del borgo per il controllo di quella che era una delle principali vie di approvvigionamento delle città situate sul margine orientale della pianura Campana. Il conflitto ne aveva però rivelato la vulnerabilità, soprattutto alla devastante potenza delle bocche da fuoco al cui impiego si sarebbe sempre più fatto ricorso nell’immediato futuro. Era dunque non solo indispensabile, ma anche urgente, ammodernarne le vecchie e superate strutture difensive.

In quest’ottica militaristica furono portate a compimento opere di ampliamento e di consolidamento della cinta muraria che venne ad inglobare il monastero francescano ed i rudimentali casaleni che ancora una volta si erano addensati a ridosso del sentiero oltre la porta secondaria, comunemente detta porta di sopra. Quest’ultima fu a sua volta enucleata in basso, a margine dell’attuale piazzetta intitolata a Vittorio Emanuele, e ne risultò incorporato il tratto iniziale della via per San Quirico sul quale furono aperti gli uffici della gabella ed il fondaco, o luogo di deposito delle mercanzie da sottoporre a tassazione prima dell’immissione sul mercato, comunemente detto dogana, da cui la denominazione assunta dalla strada. La porta fu dunque dotata di rivellini, cioè di corpi avanzati a sezione semicilindrica, muniti di feritoie.

Nessun accorgimento particolare fu invece adottato per la porta di Napoli, ritenuta agevolmente difendibile per la limitata ampiezza del ponte.

La fortificazione di Paterno fu quindi perfezionata con la costruzione di un quartiere militare, integrato nella cinta muraria e con rampa di accesso da piazzale Kennedy, che venne ad impegnare l’intera propaggine collinare ad est del borgo, appena oltre il monastero francescano. Questo comprendeva alloggiamenti, cucine, stalle, polveriera, depositi e finanche un pozzo, al fine di conferirgli autonomia in relazione al fabbisogno idrico, il tutto in funzione di una grossa torre dalla quale tenere sotto la minaccia dell’artiglieria l’ampio tratto di strada compreso fra l’odierna piazza IV Novembre e la grangia di San Quirico. A tale manufatto fu conferita conformazione cilindrica in modo da offrire una superficie ridotta ed una maggiore resistenza all’impatto di eventuali proiettili. La costruzione, di altezza presumibilmente non inferiore ai dieci metri, doveva essere di solida fattura se si presentava ancora integra alla fine del XIX secolo. Ce ne dà testimonianza il reverendo Giuseppe De Rienzo che concluse la sua vita terrena nell’anno 1819: Una torre grossa, con cisterna dentro, bombardiere e finestre cancellate. Invero la descritta torre è di una grande, ed alta mole, con fossati intorno, de’ quali ancora oggi si conoscono i vestigi. Essa si vede in piedi ed intera eccetto alcuni guasti fattivi a gran stento da alcuni per approfittarsi delle pietre1.

Le bombardiere citate dal De Rienzo erano i vani in cui avevano trovato installazione le bocche da fuoco, ancora visibili all’obiettivo del fotografo nella prima metà del nostro secolo2.

La tradizione popolare vuole che la torre fosse collegata al castello normanno per mezzo di un passaggio sotterraneo di cui però si può escludere l’esistenza, sia perché non se ne è rilevata traccia nel corso dei lavori di risanamento delle zone in cui erano ubicate le due diverse strutture, sia perché il castello, ritenuto ormai inidoneo a svolgere una qualsivoglia funzione militare, fu progressivamente smembrato e ceduto per civili abitazioni. Sotto la torre fu invece ricavato un vasto ambiente interrato, ad uso di prigione, a noi pervenuto nella sua originaria struttura ed oggi restaurato e destinato all’esposizione di reperti archeologici.

Altra conseguenza del conflitto fu l’inizio di una ridistribuzione urbanistica che avrebbe privilegiato il borgo e le aree circonvicine. La causa di tale riassetto, che peraltro produsse i suoi effetti nel tempo sotto l’influenza concorsuale di condizionamenti e di stimoli di diversa natura, almeno in questa prima fase va individuata nell’immissione sul territorio di truppe mercenarie al soldo delle avverse fazioni. La fine delle attività belliche aveva lasciato senza ingaggio e senza patria schiere di armigeri rozzi e privi di scrupoli. Queste, avvezze alla barbarie, senz’altro mestiere che quello delle armi, presto si frammentarono in bande non contrastate dai vari baroni che spesso se ne servirono invece per consumare vendette o perpetrare soprusi. La popolazione rurale venne così a trovarsi esposta alle scorrerie di tali brutali avventurieri che devastavano i raccolti a scopo intimidatorio o per puro vandalismo, che stupravano, uccidevano e depredavano, incoraggiati da mercanti disonesti che, per lucrarvi, non esitavano a contendersi il frutto di simili deprecabili crimini.

Interagì col fenomeno del brigantaggio la contemporanea concentrazione delle attività economiche e commerciali all’interno delle mura, favorita dal progressivo decadimento delle grange. A decretare la fine di queste antiche istituzioni religiose, che pur avevano consentito lo sviluppo di vaste aree depresse, fu la stessa classe contadina che, coinvolta nel recupero della dignità umana che investiva i popoli, veniva riscattandosi dal ruolo di assoluta subalternanza a cui era stata per secoli costretta. Ne era derivato il graduale abbandono dei terreni di proprietà dei monasteri o, in alternativa, una gestione truffaldina che ne vanificava il vantaggio del possesso. Di conseguenza le comunità monastiche trovarono alfine più conveniente concedere in fitto i poderi, segnando in tal modo il definitivo tramonto di quel tipo di economia detta curtense che le aveva caratterizzate.

Sotto l’influsso di tali condizionamenti, già a partire dall’anno 1465, i contadini in fuga dalle contrade insicure ed il grezzo artigianato gravitante nell’orbita delle grange cominciarono ad insediarsi nei pressi del borgo, dove gli uni vedevano garantita la propria incolumità e per gli altri più facile si prospettava la possibilità di guadagni.

Piccoli agglomerati urbani vennero a costituirsi lungo le strade di accesso al paese o a ridosso delle stesse mura. Le prime misere casupole originarono il Casalino prospiciente la porta di sopra, da taluni detta di Castello in quanto volgeva a Sud, in direzione di Castelfranci. Catapecchie improvvisate si addossarono alla cinta muraria presso la porta di Napoli, altre si disposero a fiancheggiare il tratto intermedio di via Pendino. Una manciata di stamberghe si addensò ad est del borgo, dove oggi inizia via Croce, e alcuni improvvisati tuguri sorsero sui due lati della strada per Castelfranci, nei paraggi di un pozzo, costituendo il casale che di Pozzo assunse appunto il nome.

Ovunque nei nuovi sobborghi fabbri, calzolai, vasai, cestai, sellai insediarono le loro anguste botteghe che ingombravano le vie dei prodotti finiti, a contendere gli spazi alle galline o alle prugne ed ai fichi messi ad essiccare al sole di fine estate.

Anche sul piano politico si profilavano sostanziali cambiamenti. L’arroganza e l’inaffidabilità dei baroni avevano aperto spiragli di potere ad una nuova classe dirigente di astrazione borghese, e quindi più attenta alle esigenze del popolo ed incline a provvedimenti sociali che dei primi avrebbe finito col limitare l’arbitrio e ridurre i privilegi. Un vigile allarmismo, non scevro di risentimento, pervadeva di nuovo l’animo dei feudatari.

Coinvolto nel complesso intreccio di alleanze su cui si fondava il pur precario equilibrio delle potenze europee, nell’anno 1482 Ferdinando I fu chiamato a partecipare alla guerra condotta da Ferrara contro Venezia. Il conflitto si protrasse fino all’anno 1484 con riflessi negativi per la già dissestata economia del regno.

Offrì la debolezza del regime l’occasione per una nuova rivolta dei feudatari, che è ricordata come la Congiura dei Baroni. Se ne fecero promotori Antonello Petrucci, segretario del re, ed il conte di Sarno Francesco Coppola. Vi aderì il principe di Salerno Antonello Sanseverino. Costoro, assicuratosi l’appoggio di papa Innocenzo VIII che vantava presunti diritti sulle terre di confine, istigarono alla ribellione i grandi feudatari del regno. L’Aquila insorse e le truppe pontificie, al comando di Roberto Sanseverino, intervennero a sostenerne la rivolta, ma in aiuto di Ferdinando I accorsero le schiere inviate dal duca di Milano Ludovico il Moro, dal re d’Aragona Ferdinando il Cattolico e da Mattia Corvino, re d’Ungheria. Assunse il comando delle operazioni militari Alfonso di Calabria, figlio di re Ferdinando ed erede designato al trono di Napoli, che si distinse per determinazione e ferocia.

La rivolta fu definitivamente domata nell’anno 1487. Ferdinando I ne fece arrestare i capi che furono processati e giustiziati. Quasi tutti i baroni ribelli furono incarcerati e fra essi Giovanni Caracciolo, duca di Melfi, che fu rinchiuso in Castelnuovo.

Il ruolo di Luigi Gesualdo, 3° conte di Conza, signore di Paterno, dovette essere abbastanza marginale in quanto il suo nome non risulta fra coloro che subirono ritorsioni. Sfuggì invece alla vendetta del re Antonello Sanseverino che si rifugiò in Francia, dove prese ad istigare re Carlo VIII perché, in nome del suo diritto di successione, armasse una spedizione contro il regno di Napoli.

Questi eventi non ebbero particolari ripercussioni su Paterno, la cui popolazione continuò ad incrementarsi e prosperare. A conferma di ciò può tornare utile il raffronto fra alcune delle terre d’Irpinia censite nell’anno 1494 al fine dell’applicazione della tassa focatica: Levamentum introytuum Comitatus Avellinj: Avellino fochi 111; Sancto Mangho fochi 40 - Levamentum Introytuum Comitatus Concie: ... Gesualdo fochi 130; Frigento fochi 50; Fontanarosa fochi 53; Lucussano fochi 30; Paternj fochi 85; ...1

Rilevamento per le entrate fiscali della contea di Avellino: Avellino fuochi 111; San Mango fuochi 40 - Rilevamento per le entrate fiscali della contea di Conza: ... Gesualdo fuochi 130; Frigento fuochi 50; Fontanarosa fuochi 53; Luogosano fuochi 30; Paterno fuochi 85; ...

Giova comunque ricordare che il clero era tuttora esente dalla tassa focatica, al pari di numerose altre categorie disagiate o comunque considerate sprovviste di reddito, o impossibilitate a produrne.

Aveva, intanto, Luigi Gesualdo III sposato Giovanna Sanseverino, sorella del principe di Salerno Antonello, e dal matrimonio erano nati Fabrizio, Camillo, Giovanni e Costanza.

Ferdinando I d’Aragona morì nell’anno 1494. Gli succedette sul trono di Napoli il figlio Alfonso che, per la feroce repressione di cui era stato artefice al tempo della Congiura dei Baroni, non riscuoteva i consensi della nobiltà, ma neppure quelli del popolo.

Sollecitato da Antonello Sanseverino, e convinto che le circostanze fossero a lui propizie, il re di Francia Carlo VIII pensò che fosse giunto il momento, quale erede dei d’Angiò, di far valere i propri diritti sul regno. In quello stesso anno 1494 scese in Italia con 3.600 soldati, 10.000 arcieri e 1.000 artiglieri con 140 grossi cannoni1. Della spedizione faceva parte anche il futuro re di Francia Luigi XII. A Roma si aggregò alla spedizione Giovanni de Candida che, al pari degli altri fuorusciti napoletani, salutava in Carlo VIII il liberatore della patria dall’oppressione aragonese.

All’approssimarsi dell’esercito francese, nel gennaio del 1495, Alfonso abdicò a favore del figlio Ferdinando II, detto Ferrandino. Ma a nulla valse l’espediente: le inconsistenti difese napoletane si dissolsero, sottraendosi a qualsiasi contatto col nemico, e Ferrandino dovette riparare ad Ischia.

Il 22 febbraio 1495 Carlo VIII fece il suo trionfale ingresso in Napoli. Subito le sue schiere dilagarono a sud ad occuparne i punti strategici. Non sfuggì ai Francesi l’importanza di Paterno quale terra di transito e, godendo del favore della popolazione, insediarono una propria guarnigione alle falde dell’altura su cui sorgeva il borgo, ai margini di quella distesa d’orti che definirono Jardin (Giardino), assicurandosi il controllo della strada per la Puglia. In previsione di una lunga permanenza incanalarono le acque di una sorgente e realizzarono una fonte provvista di abbeveratoio per le cavalcature, da cui la zona deriverà il nome di Acqua dei Franci.

All’approssimarsi delle truppe francesi, il signore di Paterno, Luigi Gesualdo III, ritenuto un potenziale nemico per aver sposato la sorella di Antonello Sanseverino, principe di Salerno, era stato messo in condizioni di non nuocere alla causa aragonese. Il 21 febbraio 1495 un soldato francese aveva scritto ad un amico in patria: Le roy Ferrande a retenu des prisonniers le fils du prince de Salerne et le fils du prince de Roussane et le conte de Cousse2. Il re Ferrandino ha trattenuto quali prigionieri i figli del principe di Salerno, i figli del principe di Rossano ed il conte di Conza.

Il re di Francia, il 25 febbraio 1495, volle manifestare la propria solidarietà a Luigi Gesualdo, ordinando che nessuna colpa dovesse essergli fatta per l’atteggiamento filoaragonese dei suoi antenati3.

Finalmente, sottoposto al fuoco incessante delle artiglierie, il 7 marzo 1495 capitolò Castelnuovo ed il conte di Conza, Luigi Gesualdo III, riebbe la libertà.

A maggio la conquista dell’intero regno era stata portata a termine ed il grosso dell’esercito francese si apprestava a far ritorno in patria. Carlo VIII distribuì fra i propri fidati gli incarichi di potere e le terre confiscate, suscitando il risentimento di quei baroni che pur ne avevano visto con favore l’avvento. Pure le truppe di occupazione dislocate sul territorio, rozze e brutali, non tardarono a rendersi invise alla popolazione. A Napoli intanto si andava diffondendo, ed era motivo di non poca preoccupazione, un’epidemia che gli Italiani ritenevano importata dagli invasori e che i Francesi invece imputavano a contatti con donne napoletane1. Comunque maggiore apprensione destava la coalizione antifrancese che si andava costituendo fra Spagna, Venezia e Milano, mentre giungevano notizie che il duca di Milano, accogliendo i pressanti inviti di Ferrandino, stava armando un esercito allo scopo di intercettare le truppe di Carlo VIII sulla via del ritorno in Francia.

Né facilitavano le cose i baroni, attenti, come sempre, esclusivamente ai propri interessi. Sollecitavano essi interventi riparatori, lamentando ingiustizie patite ad opera degli Aragonesi.

Anche il duca di Melfi, al pari di altri, avanzò richiesta di restituzione dei feudi che erano stati di suo zio Giacomo: pro parte Illustris troyani caraczoli de neapoli ducis melfie fuit Majestati nostre presentata petitio tenoris sequentis: Cristianissimo magno Regi francie Sicilie etc. Reverenter exponitur ... quod cum sui antecessores juste et rationabiliter tenuerint et possiderint Comitatum Avellini cum infrascriptis terris castris et juribus, et dum essent in pacifica possessione dicti Comitatus et aliis etc. Rex Ferdinandus primus de facto et nullo juris ordine servato destituit privavit ... dictos eorum antecessores de dicto Comitatu terris et castris ... infrascripte terre pervenerunt ad manus et potestatem loysij de Jesualdo Comitis Consie, et infrascripte alie terre cum dicto comitatu pervenerunt ad manus et potestatem Stefani Vest Illustris ducis Nole et asculi ... Quare supplicat prefatus ... cogat et compellat prefatos Illustres Stefanum et Comitem Consie ad restituendum et consignandum dictum Comitatum una cum dictis terris et castris et possessionem ipsorum cum fructibus ...: Civitas et terre que tenentur dicti Comitatus per Illustrem Stefanum Vest ducem nole et asculi videlicet. Civitas Avellini Terre Candide Prate Chyusani et Sancti mangi. terre dicti Comitatus que tenentur per Excellentem loysium de gesualdo Comitem Consie Videlicet: Terra gesualdi Terra Castri Veteris Cussani Paterni fontane rose taurasi et frigenti ... Datum in castello Capuane civitatis nostre neapolis, die XVIIIj mensis maij anno a nativitate domini 14952.

da parte dell’illustre Troiano Caracciolo di Napoli, duca di Melfi, fu presentata alla Maestà nostra richiesta del seguente tenore: al cristianissimo gran re di Francia, di Sicilia, ecc., reverenzialmente si espone ... che i suoi antenati, giustamente e con pieno diritto, tennero e possedettero la contea di Avellino con i trascritti terre, castelli e diritti, e mentre erano nel pacifico possesso di detta contea ed altro, re Ferdinando I, nel dispregio di qualsiasi diritto, destituì e privò di detta contea, terre e castelli i suddetti suoi antenati ... Le trascritte terre pervennero in mano e nel possesso di Luigi Gesualdo, conte di Conza, ed altre trascritte terre con detta contea pervennero in mano e nel possesso di Stefano Vest, illustre duca di Nola ed Ascoli ... quindi il predetto supplica ... che si inducano e si costringano i predetti illustri Stefano ed il conte di Conza alla restituzione ed alla consegna di detta contea insieme con le dette terre e castelli ed i possedimenti delle stesse con relative rendite ...: specificatamente le città e le terre di detta contea che sono tenute dall’illustre Stefano Vest, duca di Nola ed Ascoli, e cioè la città di Avellino e le terre di Candida, di Prata, di Chiusano e di San Mango; naturalmente le terre di detta contea che sono tenute dall’eccellente Luigi Gesualdo, conte di Conza, e cioè la terra di Gesualdo, la terra di Castelvetere, di Luogosano, di Paterno, di Fontanarosa, di Taurasi e di Frigento ... Redatto in Castelcapuano della nostra città di Napoli, il giorno 19 del mese di maggio, nell’anno 1495 dalla nascita del Signore.

La restituzione non avvenne. Anzi, il 23 maggio 1495, Carlo VIII concesse a Luigi Gesualdo III la conferma del possesso della città di Conza, col titolo di conte, nonché dei numerosi castelli e terre fra cui Gesualdo, Frigento, Paterno, Fontanarosa, Luogosano, Taurasi, Castelvetere, Villamaina, Bonito, Santa Barbara e Girifalco3.

A Troiano Caracciolo invece, il 2 giugno 1495, fu confermato il possesso del ducato di Melfi e dei soli feudi paterni.

Oltre l’insaziabilità dei feudatari, motivo di preoccupazione per Carlo VIII era pure la conflittualità di antica data, ora espressa con rinnovata asprezza, che contrapponeva il popolo napoletano ai baroni, i quali reclamavano per sé soli il diritto di amministrare la capitale. Il problema fu risolto con la mediazione di Giovanni de Candida che portò al provvedimento legislativo del 7 giugno 1495, in virtù del quale si assicurava la presenza di un rappresentante del popolo nel governo della città. Veniva così, per la prima volta, ad essere introdotto e sancito il principio di eguaglianza sociale1.

Carlo VIII partì da Napoli alla fine di giugno, lasciandovi il viceré Montpensier. Sulla strada del ritorno, il 6 luglio 1495, presso Fornovo, si scontrò con la lega antifrancese costituita da Milano, da Venezia e dalle truppe spagnole inviate da Federico I d’Aragona agli ordini del capitano Consalvo di Cordova. Ne uscì sconfitto, tuttavia riuscì a riparare in Francia.

Nei territori del regno di Napoli la tracotanza dei Francesi ben presto mutò il malcontento popolare in dichiarata ostilità. Ne approfittò Ferrandino per organizzare un’insurrezione e, con gli aiuti concessi da Venezia e la collaborazione di Consalvo di Cordova, nella primavera del 1496 batté i Francesi ad Atella, ricacciandone le forze residue oltre i confini.

Ripristinata la propria autorità, il 21 settembre del 1496 Ferrandino, concedendo il proprio perdono al conte di Conza Luigi Gesualdo III, gli confermò il possesso di molti dei suoi feudi, fra cui Conza, Frigento e Gesualdo2, ritenendo però alla Regia Corte Paterno e le terre di Fontanarosa, Luogosano e Taurasi, in modo da garantirsi il controllo del passo là dove la via di collegamento fra Napoli e la Puglia si incanalava nell’angusto tratto vallivo in cui confluiscono i fiumi Fredane e Calore.

Ferrandino morì sul finire di quello stesso 1496 e gli succedette sul trono di Napoli lo zio Federico I d’Aragona, fratello di Alfonso II. Suo cugino, Ferdinando il Cattolico, re d’Aragona, gli lasciò, in difesa del regno, il capitano Consalvo di Cordova.

Restavano comunque immutate le aspirazioni di Carlo VIII sul regno di Napoli, e ciò costringeva Federico I a mantenere attivo un costoso apparato difensivo che mal si confaceva con la disastrata situazione economica.

Pretendeva intanto il conte di Conza, Luigi Gesualdo III, la restituzione dei feudi di Paterno, Fontanarosa, Luogosano e Taurasi, acquisiti al fisco. Essendogli però negata, il barone se ne risentì al punto da aderire al movimento filofrancese che si andava ricompattando. Venutone a conoscenza, il re non esitò a punirlo privandolo anche dei restanti suoi feudi.

Il 7 aprile 1498 morì Carlo VIII e fu incoronato re di Francia Luigi XII il quale, al pari del suo predecessore, non nascondeva l’intenzione di impadronirsi del regno di Napoli.

Più che mai si rendeva prezioso il sostegno del re d’Aragona ed indispensabile la presenza del capitano Consalvo di Cordova a cui re Federico volle manifestare la propria gratitudine donandogli, il 10 maggio del 1498, i feudi confiscati ad Antonellum de Sancto Severino, Carolum et Salvatorem de Sangro ac prefatum Loysium de Gesualdo deviantes a fidelitate nostra et contra nos et statum nostrum cum Gallis invasoribus huius regni et publicis hostibus nostris consilia et arma sua jungentes publica et notoria rebellione sepe ...3

Antonello di Sanseverino, Carlo e Salvatore di Sangro ed al predetto Luigi Gesualdo, essendo essi venuti meno alla fedeltà a noi dovuta ed avendo unito spesso, contro di noi ed il nostro Stato, in pubblica ed aperta ribellione, i consensi e le proprie armi a quelle dei Francesi invasori del regno, nonché a quelle dei nostri nemici dichiarati ...

A sua volta, Consalvo di Cordova cedette o vendette i feudi avuti in dono, sicché Gesualdo e Frigento pervennero in mano di Ugo de Giliberto.

Tuttavia la fiducia di re Federico doveva ben presto rivelarsi mal riposta. Il re d’Aragona, Ferdinando il Cattolico, segretamente tramava per impossessarsi del regno di Napoli ma, non sottovalutando l’ostacolo rappresentato dalle analoghe mire francesi, si risolse a trattare con Luigi XII. L’accordo per un’equa spartizione del regno fu concluso nel novembre del 1500 col trattato che va sotto il nome di Granada. Per continuità territoriale con la Sicilia a Ferdinando il Cattolico si destinò la Calabria e la Puglia, di fatto già sotto il controllo delle truppe del capitano Consalvo di Cordova, mentre Luigi XII ottenne il benestare per l’occupazione della parte settentrionale del regno, ivi compresa la capitale.

Nel sentore di imminenti sconvolgimenti politici, all’ordine monacale verginiano premette ridefinire i propri possedimenti e privilegi da far valere presso eventuali nuovi regnanti. Pertanto, il 31 dicembre dell’anno 1500, in Carife, con atto del notaio Pietro Notarnardello ed alla presenza del giudice annuale Riccardo Buczago, Ugo de Giliberto, signore di Frigento e di Gesualdo, confermò a favore dell’abbazia di Montevergine il privilegio dell’imperatore Federico II, emesso da Capua nel mese di febbraio del 1223, col quale si riconosceva quanto donato al monastero dai baroni di Gesualdo e di Pietrelcina, in particolare Pesco di Morra con la chiesa di Sant’Angelo, l’obbedienza di San Quirico in territorio di Paterno e quella di Santa Maria di Pietrelcina1.

Nel gennaio del 1501 i Francesi varcarono i confini del regno e sconfissero le truppe napoletane a Capua. Amareggiato per il tradimento del cugino aragonese, re Federico si dette prigioniero a Luigi XII, cedendogli altresì i propri diritti sul trono di Napoli ed ottenendone in cambio il feudo del Maine, in Francia, ed un vitalizio di 30.000 tornesi l’anno.

Le truppe francesi dilagarono a sud accolte con favore dai baroni ribelli. Luigi Gesualdo III fu reintegrato nei suoi possedimenti che pose a disposizione dell’esercito invasore. Così, a distanza di soli cinque anni, i Francesi tornarono a Paterno.

Come in precedenza, istallarono il campo lungo la strada per la Puglia, presso la fontana che da loro aveva preso il nome. Qui un primo gruppo di case era sorto a fiancheggiare la via che volgeva in direzione est ad incrociare la strada che scendeva dalla porta di Castello; qui la pietà popolare aveva riedificato la cappella dedicata all’Arcangelo Michele, in sostituzione della chiesetta omonima originariamente eretta più a valle, non distante dalla fontana della Pescarella; da qui una strada, detta il Pendino dell’Angelo, si inerpicava in linea retta fino al borgo, ricalcando l’odierna via San Vito, ivi compresa la rampa intermedia nota come Vinticinco rara (Venticinque gradini).

La tendenza all’inurbamento ebbe nuovo impulso. Favorita dal rapido aumento della popolazione oltre che dal progressivo abbandono delle zone rurali, una disordinata proliferazione di tuguri, di baracche, di tane, in unità isolate o sovrapposte, interessò il tratto centrale del Pendino della Fontana, dilatò verso la campagna retrostante in un intrico di passaggi cui i conquistatori attribuirono la denominazione di Rue de les Roses (Via delle Rose). Nei suoi pressi fu eretta una chiesetta in onore di San Sebastiano. La fontana della Pescarella fu ristrutturata e dotata di vasconi, il che le valse il nome di Fontana delli Guatuni.

Altre misere stamberghe si affastellarono lungo la via appena fuori della porta di Napoli, originando una serie di vicoli di cui alcuni sfociavano alle spalle del castello, in quella zona detta Dietro Corte, oggi conosciuta come via Nazario Sauro. Di queste viuzze è a noi pervenuta nella struttura originaria la sola Rua dell’Inchiostro, così chiamata perché annerita dal fumo delle casupole prive di canne fumarie e perché oppressa dalle basse volte degli archi che ne oscuravano il cielo.

Crebbe anche l’insediamento ad est del borgo, alle falde dello sperone su cui era stata edificata la torre, da cui si sarebbe successivamente sviluppata via Croce.

Ebbero nuovo impulso i commerci, e la strada per la Puglia registrò un notevole incremento dei traffici. Migliorò di conseguenza la capacità ricettiva delle locande disposte sul tratto di via che fu detto delle Taverne.

Ma se dal ripristino della legalità la popolazione civile traeva occasione per prosperare, una conflittualità latente tuttora contrapponeva Francesi e Spagnoli. Ambiguità ed omissioni nel trattato di Granada rendevano precari gli accordi. Gli Spagnoli mal digerivano che le truppe francesi avessero occupato le fertili terre d’Irpinia ed i passi interessati dalla transumanza che, con i diritti di transito delle greggi, rappresentavano la più consistente fonte di guadagno per l’erario. Nella spartizione del regno, poi, non erano state ben definite le rispettive aree di influenza e Ferdinando il Cattolico premeva perché vi si ovviasse individuando confini più equi.

I primi a prendere le armi furono i Francesi nel 1502, e Consalvo di Cordova dovette ritirarsi a Barletta ove rimase assediato per l’intera stagione invernale compresa fra il 1502 ed il 1503. In primavera però gli furono inviati rinforzi ed uscì in campo aperto respingendo i Francesi fino a Gaeta. Nel maggio 1503, alfine, il capitano spagnolo occupò Napoli e ne prese possesso in nome del re d’Aragona Ferdinando II detto il Cattolico.

Furono confiscate le terre dei baroni schierati a favore di Luigi XII. Ancora una volta Luigi Gesualdo III fu privato dei suoi feudi: di questi, Conza fu concessa al duca di Terranova, Frigento e Gesualdo furono ceduti a Giovanni Castriota, Paterno fu dato ad Annibale Pignatello e Fontanarosa a Berardino de Bernaudo.

Nell’inverno del 1503, sulle rive del Garigliano, si ebbe lo scontro decisivo. I Francesi, battuti, dovettero ripiegare a Gaeta dove però, dopo una breve resistenza, il 1° gennaio 1504, chiesero la resa. Il regno di Napoli, nuovamente unificato, fu annesso alla corona d’Aragona e, per i successivi duecentotrenta anni, fino al 1734, sarà governato da viceré.

Nel trattato di pace che seguì, Ferdinando il Cattolico si impegnò a restituire i feudi confiscati ai suoi oppositori. Dal documento concordato con i Francesi nell’anno 1505 si rileva: ... 19. Cità, terre, castelle et pheudi restituiti per la M.tà del s.re Re ut sopra al conte di Concza: Concza per ducati cviiij - Se tenea per lo duca de Terranova con li fochi et sali da Re Federico; ... Fricento per ducati dxj, Jesualdo per ducati ccxxxxj - Per Don Joan Castriota dal Rey; Fontanarosa per ducati cxiiij - Per Berardino de Bernaudo dal duca; Paterno per ducati ccxx - Per Haniballo Pignatello dal duca. 20. Excambi dati per la prefata M.tà a li socto scripti baruni et gentili homini che possedeano le soctoscripti terre et pheudi del stato del antescripto conte de Concza: ... Ad Don Ioan Castrioto, per compensa de Frecento et Jesualdo, videlicet, Veglia per l’entrate spectante al barone per anno ducati ccclvj; Leverano per l’entrate spectanti ad barone per anno ducati cccciij; li terczi et sale restano a la dicta s.ra Regina sobrina. Ad Haniballo Pignatello, per compensa de Paterno, sopra li pagamenti fiscali de Castiglione de la provincia de Calabria citra, che è de suo cognato, per anno ducati cxx. Ad Berardino de Bernaudo, per mercè et excambio de Fontanarosa, sopra li pagamenti fiscali de Monte Acuto et Camarda et sopra li casali de Cusencza per anno ducati ccc.1.

... 19. Città, terre, castelli e feudi restituiti per mano della Maestà del signor Re detto sopra al conte di Conza: Conza per ducati 109 - Era posseduta dal duca di Terranova, con le tasse focatica e sul sale riscosse da Re Federico; ... Frigento per ducati 511, Gesualdo per ducati 241 - (Posseduti) da Giovanni Castriota, (con le tasse focatica e sul sale riscosse) dal Re; Fontanarosa per ducati 114 - (Tenuta) da Berardino de Bernaudo, (con le tasse focatica e sul sale riscosse) dallo stesso duca; Paterno per ducati 220 - (Posseduto) da Annibale Pignatello, (con le tasse focatica e sul sale riscosse) dallo stesso duca. 20. Compensi concessi in cambio, dalla predetta Maestà, ai sotto indicati baroni e gentiluomini che possedevano le terre ed i feudi del regno di seguito specificati, di proprietà del suddetto conte di Conza: ... A Don Giovanni Castriota, quale compenso per Frigento e Gesualdo, (vengono concessi) rispettivamente, Veglia per le entrate annuali spettanti al barone pari a ducati 356, e Leverano per le entrate annuali spettanti al barone pari a ducati 403, mentre le tasse focatica e sul sale restano attribuiti alla detta signora Regina sua nipote. Ad Annibale Pignatello, quale risarcimento (per la perdita) di Paterno, (sono da corrispondere) 120 ducati annui da prelevarsi sulle entrate erariali della terra di Castiglione, in provincia di Calabria Citra, che è feudo di suo cognato. A Berardino de Bernaudo, quale compenso e risarcimento (per la perdita) di Fontanarosa, (vengono concessi) 300 ducati annui (da ritenersi) sui pagamenti fiscali di Montaguto, di Camarda e dei casali di Cosenza.

A Luigi Gesualdo III furono restituiti tutti i suoi feudi con privilegio del 7 maggio 15061. Per essere reintegrato nel possesso di Paterno, questi aveva dovuto corrispondere 220 ducati al sovrano spagnolo il quale, per compensare Annibale Pignatello della perdita subita, gli aveva fatto destinare una rendita annua di 120 ducati da prelevarsi sui pagamenti fiscali della terra di Castiglione.

Chiaramente gli indennizzi a favore dei baroni sottoposti a restituzioni coatte non furono ispirati a criteri di assoluta obiettività. Si eccedette palesemente nei confronti di Giovanni Castriota in quanto zio della regina, e col concorso delle entrate fiscali di Montaguto, di Camarda e dei casali di Cosenza si intese premiare la devozione di Berardino de Bernaudo, piuttosto che compensarlo della perdita di Fontanarosa.

A partire dall’anno 1507, al fine di snellire il farraginoso meccanismo tributario, si stabilì che il censimento dei fuochi venisse rinnovato ogni 15 anni. Ciò favorì l’economia di Paterno, la cui popolazione era in costante aumento, e segnò l’inizio di un nuovo assetto urbanistico.


1 Giuseppe De Rienzo: Notizie storiche sulla Miracolosa effigie di Maria SS. della Consolazione, precedute da un saggio istorico sulla terra di Paterno - Napoli 1821.

2 Foto riprodotte alle pagine 439 e 441 della pubblicazione Scuola Media Statale “F. de Jorio”: Paternopoli, linguaggio e testimonianze di un’antica cultura - Edizione a cura della Cassa Rurale ed Artigiana di Paternopoli - Anno 1991.

1 Fonti aragonesi.

1 Antonio Palomba ed Elio Romano: Storia di Grottaminarda, il paese di San Tommaso - Grottaminarda 1989.

2 Nuovi documenti francesi sull’impresa di Carlo VIII, in Archivio storico per le province napoletane - Nuova Serie - 1938.

3 O. Mastrojanni: Sommario degli atti della Cancelleria di Carlo VIII a Napoli, in Archivio Storico per le Province Napoletane, Vol. XX - Anno 1895.

1 Nuovi documenti francesi sull’impresa di Carlo VIII, in Archivio storico per le province napoletane - Nuova Serie - 1938.

2 Regia Camera della Sommaria.

3 O. Mastrojanni: Sommario degli atti della Cancelleria di Carlo VIII a Napoli, in Archivio Storico per le Province Napoletane, Vol. XX - Anno 1895.

1 Napoletani alla corte di Carlo VIII, in Archivio storico per le province napoletane - Nuova Serie - Anno 1938.

2 Erasmo Ricca: Istoria de’ feudi delle Due Sicilie, Vol. I - Napoli 1865.

3 Regia Camera della Sommaria.

1 Giovanni Mongelli: Abbazia di Montevergine - Regesto delle pergamene, Vol. V - Roma 1956.

1 Nino Cortese: Feudi e feudatari napoletani nella prima metà del cinquecento, in Archivio storico per le province napoletane - Nuova Serie - 1929.

1 Erasmo Ricca: Istoria de’ feudi delle Due Sicilie, Vol. II - Napoli 1865.

Diritto alla Storia, La rivolta dei baroni

Diritto alla Storia - Capitolo 15

Alla morte di Caterina Filangieri, suo figlio Troiano Caracciolo assunse il titolo di 5° conte di Avellino. Ereditava costui i feudi materni di Basilicata e, nella provincia di Principato Ultra, le terre di Avellino, Candida, Chiusano, Prata, San Mango, Luogosano, Taurasi, Castelvetere, Paterno, Gesualdo, Fontanarosa e Frigento. Di quanto suo padre Sergianni si era fatto assegnare da una regina succube e compromessa non gli restava che il solo castello di Venosa sottratto a Gabriele del Balzo Orsino, avendo dovuto egli alfine rinunciare a quello di Melfi.

La guerra contro i nemici della corona, mai interrotta, si era localizzata in Puglia. Luigi III d’Angiò, designato da Giovanna II a succederle al trono, nell’anno 1434 perse la vita in battaglia combattendo contro il principe di Taranto. La successione fu devoluta a favore di suo fratello Renato che, morta le regina nell’anno 1435, fu incoronato re di Napoli.

Alfonso V d’Aragona però non si era rassegnato alla sconfitta subita. Ritenendo che potesse essergli propizio il difficile momento del passaggio di potere, e fidando sull’irriducibile opposizione interna, allestì una flotta e con essa prese il mare alla volta di Napoli. Era l’agosto del 1435 quando fu intercettato presso l’isola di Ponza dalle navi genovesi subito accorse in aiuto di Renato d’Angiò. Nella battaglia che ne seguì l’Aragonese subì una dura sconfitta e, catturato, fu consegnato al duca di Milano Filippo Maria Visconti.

La sua prigionia fu di breve durata. Segretamente accordatosi col duca, non solo Alfonso d’Aragona fu liberato, ma ottenne anche consistenti aiuti per la conquista del regno di Napoli. La spedizione militare approdò in Puglia e la penetrazione in Campania seguì la strada che passava per Avellino. Questa città però si oppose al passaggio degli invasori per cui, quando si sentì sufficientemente sicuro delle proprie forze, l’Aragonese volle vendicarsene. Ciò avvenne nel giugno del 1440: Avellino fu espugnata e rasa al suolo fin dalle fondamenta, sicché i pochi superstiti si ridussero ad abitare nella contrada detta La Terra1.

Il 12 giugno 1442 Alfonso V d’Aragona entrò in Napoli e l’anno successivo vi fu solennemente incoronato col nome di Alfonso I. Sebbene facesse della capitale un centro artistico e culturale e si rivelasse amico e protettore di artisti e letterati, tanto da meritare l’appellativo di Magnanimo, il suo fiscalismo fu altrettanto duro quanto lo era stato quello dei suoi predecessori. Con lui la tassa focatica assunse carattere ordinario ed inoltre ogni focolare fu gravato dell’ulteriore imposizione di cinque carlini annui, maggiorata di due grana per diritto di pesatura, quale costo di un tomolo di sale da distribuirsi a ciascuna famiglia2.

Per calcolo o per risentimento nei confronti della defunta regina Giovanna II, molti baroni del regno non avevano esitato, durante il conflitto, a fornire appoggio logistico e materiale ad Alfonso d’Ara-gona, e lo stesso Troiano Caracciolo, dopo la feroce punizione inflitta alla città di Avellino, aveva ritenuto opportuno schierarsi dalla parte del conquistatore. Secondo la logica corrente ognuno di costoro si attendeva dei vantaggi dalla scelta di campo effettuata. Gabriele del Balzo Orsino inoltrò richiesta intesa a reintegrarlo nel possesso del ducato di Venosa, usurpato da Sergianni Caracciolo ed attualmente detenuto da suo figlio Troiano. Dal canto suo Troiano, pur dichiarandosi disposto alla restituzione del feudo, lamentava di essere stato ingiustamente privato del ducato di Melfi.

Ad entrambi re Alfonso I volle provare la propria gratitudine: Gabriele del Balzo riebbe Venosa1 e, nell’anno 1447, fu notificata a Troiano Caraczulo de Neapoli comiti Avellini duci Melfie, transumptum privilegii confirmationis civitatis Melfiae cum titulo ducatus cum territ. ... Avellini, Candidae, Chiusani, Pratae, s. Magni, Locosani, Taurasii, Castriveteris, Paterni, Gesualdi, Fontanaerosae, Frequenti et Candidae quae et quas possidet ex successione paterna quond. mag. Ioh. Caraczuli regni Sicil. Magni Senescalli patris suis et ex aliis titulis; quae confirmatio fuit transumpta Neapoli per not. Filippum de Composta de pred. civit. ...2 Troiano Caracciolo di Napoli, conte di Avellino, duca di Melfi, trascrizione del privilegio di conferma della città di Melfi col titolo ducale e con le terre ... di Avellino, Candida, Chiusano, Prata, San Mango, Luogosano, Taurasi, Castelvetere, Paterno, Gesualdo, Fontanarosa, Frigento e Candida (feudo ripetuto o errata trascrizione, probabilmente di Candela) che e le quali possiede per successione paterna del fu nobiluomo suo padre Gianni Caracciolo, Gran Siniscalco del regno di Sicilia, nonché insignito di altri meritati titoli; la quale conferma fu trascritta a Napoli dal notaio Filippo de Composta della stessa città ...

Si procedeva intanto allo snellimento della burocrazia ed al riordino della finanza pubblica. Il 20 settembre 1449 fu emanata una disposizione per effetto della quale furono unificate la tassa focatica e quella sul sale in un unico tributo che prese il nome di functiones fiscales. Con lo stesso provvedimento si stabilì che la distribuzione del sale dovesse aver luogo una volta all’anno, in ragione di un tomolo per ciascun fuoco, e l’importo della tassa unificata fu fissato in 2 tarì e 12 grana per famiglia, da corrispondersi in due rate di cui la prima nel mese di febbraio e l’altra in luglio3.

Nonostante l’immutata esosità del fisco, il periodo di relativa pace di cui si venne a godere avrebbe potuto favorire una seppur lenta ripresa economica se la faziosità e la prepotenza dei baroni, preoccupati di mantenere integri i propri privilegi, non avessero ostacolato ogni opportunità di sviluppo ed osteggiato qualsiasi tentativo di crescita sociale. Invero, malgrado ciò, si avvertiva qualche timido segnale precursore di un processo di rinnovamento che però fu interrotto sul nascere da una nuova calamità. Nella notte fra il 4 ed il 5 dicembre dell’anno 1456 un disastroso terremoto, avvertito dalla Toscana a Messina, devastò l’Irpinia. Avellino ne ebbe notevoli danni ed un incerto numero di morti; Ariano ne fu quasi totalmente distrutta e pianse oltre duemila vittime; Mirabella contò 184 cadaveri4. I danni che ebbe a patire Paterno furono di gran lunga inferiori: crollò qualcuna delle abitazioni più fatiscenti, senza tuttavia causare perdite umane. Più gravi furono le ferite inferte ai centri limitrofi, sicché qualche storico stima che furono all’incirca 60.000 le vittime del sisma.

Nell’anno 1458, a Napoli, in Castel dell’Ovo, morì re Alfonso d’Aragona. Gli succedette al trono il figlio Ferdinando I, detto anche Ferrante, che già nel 1442 aveva combattuto al fianco del padre per la conquista di Napoli.

Al nuovo re si rivolse Luigi Gesualdo II, figlio di Sansone I, signore di Conza, diretto discendente di Guglielmo, affinché gli venissero riconosciuti gli antichi diritti sulle terre di Gesualdo e di Fontanarosa; ma Ferdinando I disattese le sue aspettative. Tuttavia, il 6 agosto 1458, il re gli concesse l’investitura dei feudi paterni, nonché l’assenso su quanto si era convenuto fra lo stesso Luigi II ed il di lui primogenito Sansone II, e cioè che quest’ultimo possedesse la città di Conza col titolo di conte che gli era stato conferito il 1° agosto del 1452 da re Alfonso I1.

L’anno successivo morì Troiano Caracciolo. Aveva avuto tre figli. Il primogenito, Giovanni, ereditò il ducato di Melfi; nessun feudo andò a Caterina che, sposata con il conte di Montesarchio, era madre di un bambino in tenera età; l’ultimo dei figli, Giacomo, assunse il titolo di 6° conte di Avellino ed ebbe il possesso di questa città e delle terre di Gesualdo, Paterno, Castelvetere, Fontanarosa, Taurasi, Luogosano e San Mango.

Al pari del padre, re Ferdinando I diffidava della nobiltà corrotta e litigiosa al punto di preferirle, sino a lasciarsene influenzare nel governo del regno, la classe intellettuale ed il ceto borghese. Per questo stato di cose, da tempo serpeggiava il malcontento fra i baroni. Per tutti, ruppero ogni indugio i principi di Rossano e di Taranto che chiamarono nel regno Giovanni d’Angiò, figlio di Renato, detronizzato re di Napoli.

Agli inizi del 1460 l’Angioino si portò in Puglia dove cominciò a far proseliti prima di muovere alla conquista della capitale.

Ferdinando I invocò l’aiuto di papa Pio II e del duca di Milano Francesco Sforza i quali promisero che non glielo avrebbero fatto mancare. Rincuorato, il re si apprestò a muovere verso la Puglia, facendosi precedere da Diomede Carafa, con l’intesa che si sarebbero ricongiunti in Montefusco. Era il marzo del 1460 e Ferdinando I non poteva contare che su 70 o 80 uomini d’armi, mentre a Diomede Carafa erano stati affidati 150 cavalli ed altrettanti fanti2.

In aprile giunsero notizie che i signori delle terre del Gargano si erano tutti schierati a favore di Giovanni d’Angiò. Né andavano meglio le cose in Campania dove, di giorno in giorno, aumentava il numero dei baroni ribelli.

A metà aprile si mostrarono ben disposti verso i Francesi anche il conte di Sant’Angelo dei Lombardi, il duca di Melfi Giovanni Caracciolo ed il conte di Avellino Giacomo, suo fratello. Quest’ultimo, ancora diciottenne (quale è da età de XVIII anni vel circa), si era dimostrato il più avventato dei tre, avendo apertamente dichiarato la propria ostilità a Ferdinando I.

A rendere più tragica la situazione si seppe che in quei giorni era sopraggiunto a dar manforte a Giovanni d’Angiò il capitano di ventura Piccinino alla guida di truppe mercenarie. Ferdinando I, preoccupato, sollecitò al duca di Milano ed al pontefice l’intervento degli aiuti promessi, così Francesco Sforza ordinò al fratello Alessandro di muovere verso il regno di Napoli, mentre Pio II rese subito disponibili 500 fanti e 500 cavalli.

Una volta al completo, le forze a disposizione di Ferdinando I sarebbero ammontate a 5.800 cavalli ed a 3.300 fanti, del tutto insufficienti, reputava il papa, ad assicurare una completa vittoria su Giovanni d’Angiò. Commentava il pontefice: La parte adversa non harà molto mancho; sicché a voler vincere et non stare sempre in patta, bisogna fare altra provisione, perché menando queste cose a la longa se spenderà più3.

La parte avversa non avrà molto meno; sicché per poter vincere e non rimanere in una situazione di equilibrio è indispensabile inviare altre truppe, poiché permanendo questo stato di cose a lungo, si finirà con l’avere costi maggiori.

Alla metà di maggio Ferdinando I, che aveva posto il campo a Montefusco, apprese che i Francesi erano in difficoltà per non aver riscosso la dogana sulle pecore, in quanto i pastori si rifiutavano di pagarla fino a quando non avessero avuto la possibilità di condurre le greggi in luogo sicuro. Lo duca Iohanne non tene uno pane che mangiare (Il duca Giovanni d’Angiò non ha un sol pane di cui sfamarsi), si diceva, ed il re, ritenendo propizia l’occasione, discese verso Troia per sorprendervi il principe di Taranto. Ma questi, avvertito, prudentemente arretrò, ed a Ferdinando I non rimase che tornare in Terra di Lavoro per attendervi l’arrivo dei rinforzi inviatigli dal pontefice.

Ai primi di giugno Giovanni d’Angiò ed il principe di Taranto mossero alla volta di Terra di Lavoro. Inutilmente tentarono di espugnare Ariano, quindi misero il campo a Grottaminarda senza tuttavia poterne prendere il castello. Né miglior sorte ebbero quando tentarono di assaltare Montefusco. Tornarono alfine in Puglia.

Ferdinando I si mosse allora da Terra di Lavoro espugnando via via i castelli dei baroni ribelli fra cui quelli di Cerreto, di San Martino, di Cervinara, di Rotondi ed alfine di Montesarchio, dove catturò la contessa Caterina Caracciolo ed il suo unico figlioletto, inviandoli quindi a Napoli sotto scorta.

Allarmati da questi successi, molti baroni si dichiararono disposti a trattare col re. Il conte di Avellino, nonché feudatario di Paterno, Giacomo Caracciolo, fu fra quelli che avanzarono offerte di pace. I consiglieri del re, dal canto loro, suggerivano invece di espugnare Avellino ed Atripalda in modo da tagliare i rifornimenti a Nola, dove trovavasi il conte Orso Orsini alleato di Giovanni d’Angiò. Ma ormai si era in novembre inoltrato e Ferdinando d’Aragona preferì ritirarsi presso Acerra per trascorrervi il periodo invernale.

Ad eccezione del principe di Taranto che aveva fatto ritorno alle sue terre per svernarvi, i Francesi ed i loro alleati, sebbene ridotti di numero e sprovvisti di mezzi, si spinsero nuovamente in Irpinia per ricongiungersi al principe di Rossano di stanza a Grottaminarda con 400 uomini. Giovanni d’Angiò, con un manipolo di soldati, col tacito consenso di Giacomo Caracciolo pose il suo quartiere generale a Gesualdo. Il 30 dicembre 1460 l’ambasciatore Trezzo scriveva al duca di Milano: Il Duca Zohanne partete da Jesualdo et andò ad Vallata presso la Grotta Manarda, poi è pur retornato ad Jesualdo, terra del Conte d’Avellino ... Qua se ha per certo chel dicto Conte d’Avellino ha messo dicta forteza in mano del prefato Duca. Il duca Giovanni d’Angiò partì da Gesualdo ed andò a Vallata, presso Grottaminarda, quindi è tornato a Gesualdo, terra del conte di Avellino ... Qui si ha la certezza che il detto conte di Avellino ha messo tale fortezza (di Gesualdo) in mano al predetto duca.

Nonostante le esigue forze a loro disposizione, Giovanni d’Angiò ed il principe di Rossano, condiscendente il conte Giacomo Caracciolo, nei primi giorni di febbraio del 1461 raggiunsero Atripalda ed Avellino e da qui mossero le armi contro Montoro, venendone però respinti. Si risolsero dunque a compiere incursioni, più dimostrative che di alcuna efficacia, nelle terre del conte di San Severino, senza tuttavia indurre Ferdinando I a lasciare Acerra, dove restava in attesa degli aiuti promessigli dal papa.

Trascorse così un mese, dopo di che Giovanni d’Angiò ed il principe di Rossano decisero di ripiegare. Tornarono ad Avellino e quindi, passando per Nola, raggiunsero Somma dove Lucrezia d’Alagno, signora di quel castello, si aggregò a loro. Tutti insieme ripresero la strada per la Puglia. Giovanni d’Angiò e Lucrezia si fermarono però a Gesualdo, mentre il principe di Rossano se ne tornò alle sue terre ed il capitano di ventura Piccinino si recò presso il principe di Taranto.

Il 7 aprile pervennero a Ferdinando I le truppe inviategli dal papa agli ordini di Antonio Piccolomini, ma il re preferì non muoversi e restare in attesa delle milizie dello Sforza.

Il 9 maggio 1461 la città di Genova si sollevò contro i Francesi, precludendosi così ogni possibilità di aiuto per Giovanni d’Angiò. Questi si vide costretto a ripiegare verso la Puglia dove re Ferdinando lo seguì, senza tuttavia impegnarsi in uno scontro dagli esiti incerti.

Alla fine di agosto Alessandro Sforza, percorrendo la strada d’Abruzzo, mosse in aiuto di Ferdinando I con 17 squadre. Il re gli andò incontro ed insieme obbligarono il conte di Cerreto ad allearsi con loro ed indussero a trattative il conte di Campobasso. Poi raggiunsero ed occuparono Flumeri, ottennero l’obbedienza del conte di Sant’Angelo dei Lombardi ed alfine si impadronirono del castello di Gesualdo.

Giacomo Caracciolo, 6° conte di Avellino, visti in pericolo i propri feudi, si affrettò ad avanzare a re Ferdinando proposte di pace. Nel rapporto trasmesso in data 10 ottobre 1461 dall’ambasciatore Trezzo al duca di Milano si esponeva che il Caracciolo chiedeva la conferma del suo titolo e dei suoi privilegi, nonché la concessione delle terre di Atripalda, di Monteforte e di Somma, quest’ultima appartenuta a Lucrezia d’Alagno, ed il re gli concedeva tutto tranne Somma che intendeva conservare per sé sino alla conclusione della guerra; che inoltre il barone sollecitava la liberazione di sua sorella Caterina e del di lei figlio, ed il re prometteva la libertà per la sola donna; che il conte di Avellino pretendeva alfine per sé la città di Melfi, che era stata di suo fratello Giovanni, ma il re gliela rifiutava. Dal canto suo Ferdinando I poneva come condizione che si lasciasse il castello di Gesualdo in mano di Alessandro Sforza sino alla fine delle attività belliche.

In questi termini l’accordo fu concluso il 13 ottobre 1461, ma Giovanni d’Angiò, che con 19 squadre e poca fanteria aveva lasciato la Puglia, andò ad attestarsi a Guardia dei Lombardi, ponendo il campo su di un’altura in modo che fosse ben visibile. Il suo scopo era di ridare fiducia al conte Giacomo Caracciolo ed indurlo ad interrompere le trattative col re. La mossa sortì l’effetto voluto in quanto il barone, fidando nell’imminente intervento del pretendente angioino, dichiarò nullo il patto.

Ferdinando volle punire il conte di Avellino d’avergli rotto la fede pur allor giurata. Si volse perciò contro Paterno, perché prendendola, non solo toglieva al conte di Avellino una terra d’una certa importanza, ma vietava a Nola ogni via di procurarsi vettovaglie1.

Era un umido e freddo mattino di metà novembre dell’anno 1461 quando alcuni drappelli di cavalleria dello Sforza, al comando di messer Roberto, lasciarono Gesualdo alla volta di Paterno. Sebbene senza carriaggi e provvisti di solo armamento leggero, procedevano lenti per le cavalcature appesantite dai drappi imbottiti che le proteggevano, maestosi e solenni nelle armature brunite che si fondevano col grigiore del paesaggio.

In località Torrone, oggi detta Terroni, guadarono il Fredane nella bruma mattutina che diradava ed imboccarono la strada che, costeggiando il vallone della Pescara, ascendeva alla sommità della collina. Prima ancora che raggiungessero il Piano, le campane di Paterno suonarono per allertare le difese. Il borgo si animò di voci concitate, del pianto di bimbi subito zittiti, delle preghiere delle donne biascicate in un incomprensibile latino, di secchi ordini impartiti con voce stentorea. Furono chiuse le porte e gli arcieri presero posizione dietro le feritoie del castello e delle mura.

Di lì a poco si profilarono in fondo alla strada, oggi via Carmine Modestino, le sagome terrificanti dei cavalieri che gli elmi crestati ingigantivano a dismisura. Un silenzio irreale, intriso di attesa e di paura, calò sul borgo.

Le schiere dello Sforza ordinatamente si divisero. Una parte, aggirato il pendio, risalì il sentiero che conduceva alla porta secondaria e vi si posizionò in modo da averne il totale controllo; l’altra ascese per il Pendino e pose il campo in vista della Porta di Napoli. La giornata trascorse così nella distribuzione delle forze, senza che fossero condotte azioni offensive.

Un primo attacco fu portato il giorno successivo, ma senza determinazione, quasi a saggiare le capacità di reazione degli assediati. I soldati dello Sforza erano armati di balestre, ma disponevano altresì di moderne armi da fuoco che, sebbene imprecise, assicuravano vantaggi psicologici e consentivano di tenersi fuori dalla portata degli arcieri asserragliati nel borgo.

Parimenti i giorni che seguirono furono caratterizzati da incursioni rapide e improvvise, condotte al solo scopo di fiaccare ogni resistenza. Una pesante atmosfera da incubo attanagliava il paese. Si registravano, intanto, i primi risultati positivi dell’azione offensiva in atto. Nel rapporto intitolato Contra Paternum, spedito il 26 novembre 1461 al duca di Milano dall’ambasciatore Trezzo, si affermava che era ancora in corso l’assedio al castello e già Orso Orsini si era visto costretto ad allontanare da Nola circa seicento persone, perché non c’è victualia, ed a chiedere una tregua di due mesi.

Pure nel borgo assediato ormai si assottigliavano le scorte. Un senso di sfiducia e di rassegnazione si insinuava negli animi. Già molti, provati nel corpo e nello spirito e del tutto indifferenti agli esiti di una guerra combattuta per la sola supremazia fra potenti, pensavano alla resa come la migliore delle soluzioni.

Paterno capitolò agli inizi di dicembre. Il 5 dicembre 1461 Alessandro Sforza, scrivendo al duca di Milano, esponeva: Considerata la importantia del loco, che è terra de passo, quanto al dare e al devetare le victuaglie a Nola, ce parse meglio de tuorlo integro che guasto, per averne commoditate de mettergli de la gente, et così gli è remasto messer Roberto che lui stesso l’ha domandato per stantia a lo Re, et la M. S. gli l’ha concesso ... Considerata l’importanza del luogo, che è terra di passaggio, in quanto consente di permettere o di impedire i rifornimenti a Nola, ritenemmo opportuno occuparlo integro piuttosto che distruggerlo, per avere la possibilità di destinarlo alla truppa, e così vi si è installato messer Roberto che lo ha chiesto al Re per l’alloggiamento dei suoi soldati, e Sua Maestà glielo ha concesso ...

Ferdinando I ritenne tuttavia insufficiente la punizione inflitta al conte di Avellino e pertanto, subito dopo la caduta di Paterno, espugnò, saccheggiò ed incendiò il castello di Taurasi. Giacomo Caracciolo allora corse dal re, gli si gettò ai piedi e ne supplicò il perdono che, almeno apparentemente, gli fu concesso.

Non tardarono a manifestarsi gli effetti positivi dell’azione militare condotta contro la terra di Paterno. Il conte Orso Orsini, con la città di Nola ormai ridotta alla fame, dovette scendere a patti con il re di Napoli ed il 7 gennaio 1462 prese le insegne aragonesi e scese in campo contro Giovanni d’Angiò. La Campania tutta ne risultò pacificata. Pure le regioni di Abruzzo e di Calabria erano state in gran parte riconquistate e solo qualche residua sacca di resistenza permaneva in Puglia, dove il pretendente al trono era stato costretto a rifugiarsi.

Per il momento re Ferdinando I si riteneva soddisfatto dei risultati conseguiti e quindi si ritirò a Napoli per trascorrervi l’inverno. Con l’inizio della buona stagione, poi, riprese le armi e mosse verso la Puglia dove, il 18 agosto 1462, riportò una completa vittoria su Giovanni d’Angiò che riparò ad Ischia.

La guerra comunque si concluse solo nel 1464 con la battaglia navale combattuta nelle acque di Ischia in seguito alla quale il pretendente al trono, sconfitto, dovette definitivamente tornarsene in Provenza.

La vendetta di Ferdinando I si consumò con freddezza e determinazione. I baroni ribelli furono tutti catturati e rinchiusi nei tetri sotterranei di Castelnuovo in Napoli. Pochi furono quelli che vi si sottrassero riuscendo a riparare in Francia.

Finì i suoi giorni in carcere anche Giacomo Caracciolo, conte di Avellino e feudatario di Paterno, e le sue terre, occupate nel corso del conflitto, non furono più restituite. Suo fratello Giovanni invece, per l’atteggiamento sostanzialmente neutrale tenuto nella fase acuta del conflitto, potette conservare il ducato di Melfi unitamente agli altri suoi feudi.

Dei possedimenti di Giacomo Caracciolo solo Paterno era uscito indenne dalle vicende belliche, e lo stesso castello di Gesualdo, espugnato dalle truppe dello Sforza, aveva subito danni irreparabili. Comunque la sorte peggiore era toccata ad Avellino. La città, già devastata da Alfonso d’Aragona nell’anno 1440, sconvolta poi dal sisma del 1456, in questa guerra condotta senza alcun riguardo nei confronti della popolazione civile, per le ripetute scorrerie delle avverse schiere, aveva avuto a patire al punto di ridursi a terra sterile e disabitata. Ad essa, mancando sufficienti rendite per il sostentamento dei canonici e del vescovo, nell’anno 1466 il pontefice Paolo II aggregò la diocesi di Frigento1. Il 22 maggio 1468 alfine, re Ferdinando I ne formalizzò la confisca asserendo di essere se ipsum iuste, et rationabiliter tenere et possidere civitatem Avellini devolutam sibi, et sua R. Curia ob rebellionem Iacobi Caracciolo, olim Comitis Avellini ...1

egli stesso in pieno diritto di tenere e possedere la città di Avellino, pervenuta a lui ed alla sua Regia Curia per la ribellione di Giacomo Caracciolo, a quel tempo conte di Avellino ...

La contea di Avellino ed il feudo di san Mango furono successivamente concessi a Stefano de Vest.

Il primo conte di Conza, Sansone Gesualdo II, figlio di Luigi II, venne a mancare agli inizi dell’anno 1471. Nicola, suo primogenito, pagò il diritto di successione in ragione di 145 once, 20 tarì e 14 grana, ottenendo da Ferdinando I, il 30 marzo dello stesso anno, il titolo e l’investitura dei feudi2. Successivamente costui acquistò dal re i feudi di Paterno, Castelvetere, Luogosano, Fontanarosa e Taurasi per la somma di 12.000 ducati, ed il privilegio relativo fu sottoscritto in Castelnuovo il 6 agosto 14783. Così, dopo 180 anni, Paterno tornava sotto la signoria dei Gesualdo.o4.


1 S. Pionati: Ricerche sulla storia di Avellino - Napoli 1828.

2 Manfredi Palumbo: I comuni meridionali prima e dopo le leggi eversive della feudalità - Montecorvino Rovella 1910.

1 Conte Berardo Candida Gonzaga: Memorie delle famiglie nobili delle province meridionali d’Italia, Vol. III - Napoli 1875.

2 Dall’ex Arca Angioina, nella trascrizione di De Lellis.

3 Manfredi Palumbo: I comuni meridionali prima e dopo le leggi eversive della feudalità - Montecorvino Rovella 1910.

4 Salvatore Pescatori: Terremoti dell’Irpinia - Avellino 1915.

1 Erasmo Ricca: Istoria de’ feudi delle Due Sicilie, Vol. I - Napoli 1865.

2 Emilio Nunziante: I primi anni di Ferdinando d’Aragona e l’invasione di Giovanni d’Angiò, in Archivio Storico per le Province Napoletane, Vol. XX - Napoli 1895.

3 Emilio Nunziante: I primi anni di Ferdinando d’Aragona e l’invasione di Giovanni d’Angiò, in Archivio Storico per le Province Napoletane, Vol. XX - Napoli 1895.

1 Emilio Nunziante: I primi anni di Ferdinando d’Aragona e l’invasione di Giovanni d’Angiò, in Archivio Storico per le Province Napoletane, Vol. XXI - Napoli 1896.

1 S. Pionati: Ricerche sulla storia di Avellino - Napoli 1828.

1 Repertorio Quinternioni - Principato Ultra e Citra.

2 Erasmo Ricca: Istoria de’ feudi delle Due Sicilie, Vol. I - Napoli 1865.

3 Erasmo Ricca: Istoria de’ feudi delle Due Sicilie, Vol. III - Napoli 1865.

4 Erasmo Ricca: Istoria de’ feudi delle Due Sicilie, Vol. II - Napoli 1865.

Diritto alla Storia, La Prammatica Filangeria

Diritto alla Storia - Capitolo 14

Alla logorante disputa fra gli Angioini di Napoli e gli Aragonesi di Sicilia si pose finalmente termine, nell’anno 1372, con la pace di Catania. Giovanna I d’Angiò rinunciò definitivamente all’isola e, pur continuando ad intitolarsi regina di Sicilia, il suo regno prese ad essere più realisticamente detto di Napoli.

Giovanna I, rimasta vedova per la seconda volta nell’anno 1362, aveva sposato Giacomo IV, ex re di Maiorca, e, morto questi nell’anno 1375, sposò, nel 1376, Ottone di Brunswick-Grubenhagen. Comunque, nonostante i quattro mariti e gli innumerevoli amanti, era rimasta senza prole, per cui designò suo successore al trono di Napoli Carlo di Durazzo, suo cognato in quanto marito di sua sorella Margherita.

Nell’anno 1378, col nome di Urbano VI, salì al soglio pontificio Bartolomeo Prignano, arcivescovo di Bari. Costui, segretamente, si accordò con Carlo di Durazzo perché si appropriasse con la forza del regno di Napoli.

Giovanna I, saputo di quanto si tramava in suo danno, revocò l’atto di successione a favore del cognato e, convocati alcuni cardinali nella città di Fondi, il 20 settembre del 1378 fece eleggere papa, col nome di Clemente VII, il cardinale di Ginevra. Successivamente, nell’anno 1380, adottò Luigi d’Angiò, fratello del re di Francia Carlo V, e lo designò erede al trono di Napoli.

A questi però Urbano VI contrappose, incoronandolo a Roma il 1° giugno del 1380, Carlo di Durazzo, terzo di tal nome, il quale si portò in armi presso Napoli dove la difesa della città fu affidata ad Ottone, marito di Giovanna I.

La maggior parte dei baroni del regno, nel timore che Luigi d’Angiò avrebbe condotto da oltralpe nobili a lui fedeli fra i quali avrebbe distribuito le più prestigiose cariche del regno, si schierò dalla parte di Carlo III ed accorse ad ingrossarne le file. Fra questi risulta il nome di Giacomo della Candida, che altri non è che Giacomo Antonio Cobelli Filangieri, signore di Paterno1.

Nell’anno 1381, l’antipapa Clemente VII, a sua volta, incoronò re di Napoli Luigi I d’Angiò che non esitò a muovere contro Carlo III di Durazzo.

Ispirati da sentimenti di ribellione nei confronti del proprio comune signore Giacomo Antonio Filangieri, piuttosto che da devozione per la regina o da lealtà verso il potere costituito, i feudi di Frigento, Candida, Paterno, Chiusano, Solofra, Castelvetere e San Mango insorsero in favore di Giovanna I. Tutto fu inutile però. Napoli fu presa da Carlo III e Luigi I, non disponendo di forze sufficienti, non fu in grado di contrastargli il possesso della città. La regina si asserragliò in Castelnuovo2, ma dopo una breve resistenza fu costretta ad arrendersi e venne relegata nel castello di Muro Lucano.

Assunti i pieni poteri, il nuovo re, allo scopo di premiare i suoi fedeli sostenitori, ridistribuì le cariche del regno. Da un documento datato 30 gennaio 1382 si rileva che Giacomo Antonio Cobello Filangieri fu elevato alla carica di Giustiziere della provincia di Basilicata3. Oltre a ciò Carlo III volle dimostrargli la propria gratitudine assegnandogli, nel febbraio del 1382, senza tuttavia investirlo del titolo di conte, la contea di Avellino, sottratta ad Elisabetta del Balzo rimasta fedele alla regina Giovanna I4. In più il Cobello, per porre al riparo da vendette i vassalli dei propri feudi, invocò per essi il perdono, ed ancora una volta nei suoi confronti si manifestò la benevolenza del sovrano che, nell’Anno domini Millesimo CCC.LXXXII° die decimo mensis martii ... ad instantiam ... Civitatis frequenti Civitatis Avellini Castri Candide et Casalium eius Castri Solofre Castri Clusani Castri Veteris Castri paterni et Castri sancti magni ...5

 

Anno del Signore 1382, nel giorno 10 del mese di marzo ... a richiesta ... della città di Frigento, della città di Avellino, del castello di Candida e dei suoi casali, del castello di Solofra, del castello di Chiusano, di Castelvetere, del castello di Paterno e del castello di San Mango ...

concesse l’indulto e diffidò chiunque dal perseguitarne gli uomini o dall’insidiarne i beni.

Ancora, il Cobello acquistò da Guglielmo della Leonessa il feudo di Montemarano e ne ebbe l’assenso regio il 17 aprile 1382.

Luigi I d’Angiò, dopo la sconfitta subita presso Napoli, si era ritirato in Puglia dove era impegnato a riorganizzare il proprio esercito. Dal canto suo Carlo III di Durazzo ricorse al reclutamento di massicce forze mercenarie, per le cui paghe i vassalli furono obbligati a versare l’adoa6, un contributo in danaro calcolato in percentuale sui redditi prodotti da ciascuna terra. E lo scontento cresceva fra la gente, e con esso il sostegno all’Angioino.

Nel maggio del 1382 la spodestata Giovanna I, detenuta nel castello di Muro Lucano, fu strangolata per ordine del re che sperava in tal modo di piegare i nostalgici del passato regime. Ma non si ottennero i risultati desiderati, anzi l’opposizione ne risultò rinvigorita e, in questa parte d’Irpinia, fermenti di ribellione pervasero nuovamente Castelvetere, San Mango e Chiusano.

Poi gli eventi precipitarono. Il pretendente al trono, Luigi I d’Angiò, morì a Bisceglie, in Puglia, nell’anno 1384, ed ebbe inizio allora una dura repressione ordinata da re Carlo III.

Il 16 maggio 1384 Matteo de Marra, signore di Serino e di Montoro, fu elevato al grado di capitano ad iustitiam et ad guerram terrarum ... Montelle, Balneoli, Cassani, Castri Francorum, Montis Marani, Castri Veteris, Sancti Magni, Crusani ... de provincia principatus ultra1.

per la giustizia e la guerra da portare nelle terre ... di Montella, Bagnoli, Cassano, Castelfranci, Montemarano, Castelvetere, San Mango, Chiusano ... della provincia di Principato Ultra.

In breve, in tutti i feudi ribelli, l’ordine fu ripristinato con la forza.

L’anno successivo Carlo III fu chiamato in Ungheria ad occuparne il trono vacante dal 1382 per la morte di re Luigi I, ma la vedova di quest’ultimo, l’ex regina Elisabetta, nel gennaio del 1386, nella città di Buda, gli fece somministrare un veleno che lo uccise.

A Napoli, la regina Margherita, moglie di Carlo III, fece subito proclamare re suo figlio Ladislao di soli dieci anni, assumendo lei stessa la reggenza in suo nome, coadiuvata dal cardinale Acciaiuoli.

Il partito angioino, capeggiato da Tommaso Sanseverino e sostenuto dall’antipapa Clemente VII, chiamò Luigi II d’Angiò, figlio di re Luigi I, affinché intervenisse per far valere i propri diritti sul trono di Napoli. Di nuovo il regno si divise in due, in una logorante guerra fratricida che insanguinò e ulteriormente impoverì le nostre contrade.

Le sorti della guerra parvero volgere a favore di Luigi II che, nel 1391, riuscì a sbarcare a Napoli, costringendo alla fuga re Ladislao che dovette rifugiarsi a Gaeta.

Giacomo Antonio Cobello Filangieri neppure in questa circostanza volse le spalle al legittimo re il quale, da Gaeta, volle compensarlo della sua lealtà conferendogli, nell’anno 1392, il titolo di conte di Avellino2.

Raggiunta la maggiore età, re Ladislao si fece carico in prima persona della conduzione della guerra e, con l’aiuto dei baroni a lui fedeli e col sostegno di papa Bonifacio IX, ben presto ottenne i primi successi.

In questi anni venne a mancare Giacomo Antonio Cobello Filangieri, 1° conte di Avellino, e gli succedette nei feudi il figlio Giacomo Nicola I, col titolo di 2° conte di Avellino.

Dell’eredità maritale alla vedova Giovanna Minutolo non restava che la modesta rendita annua di 30 once d’oro assegnatale per contratto nuziale. La somma le era stata garantita in un primo momento sul feudo di Lapio ma poi, avendo il Cobello ceduto tale castello al fratello Giovanni, la garanzia era stata trasferita sul feudo di Paterno.

Giacomo Nicola Filangieri I, il nuovo feudatario di Paterno nonché 2° conte di Avellino, aveva sposato Francesca Sanfromondo. A differenza del padre, costui era orientato a sostenere la causa di Luigi II, per cui, nell’anno 1399, re Ladislao, venendo da Isernia e volto alla riconquista di Napoli, pose l’assedio alla città di Avellino intimandone la resa. Il conte assicurò che avrebbe ceduto la città allo scadere di 15 giorni, se nel frattempo Luigi II non avesse mandato truppe in suo aiuto, circostanza che non si attuò per cui Giacomo Nicola Filangieri I tenne fede alla parola data. Re Ladislao potette dunque volgere le proprie armi contro Napoli, mettendo definitivamente in fuga Luigi II che si ritirò in Provenza.

Nell’anno 1399 morì Giacomo Nicola Filangieri I. Nel suo testamento nominava erede assoluto dei suoi feudi il figlio primogenito Giacomo Nicola II, anche lui al pari del nonno detto Cobello, che prese il titolo di 3° conte di Avellino. Essendo egli minorenne (in un privilegio emesso da re Ladislao il 5 luglio 1400 lo si definisce pueri Cobelli Filangerii Comitis Avellini), fu posto sotto tutela della madre Francesca Sanfromondo. Gli altri figli, Aldoino, Giannuccio, Urbano e Caterina, minori del Cobello, ottennero i soli beni burgensatici, cioè quelli detenuti in proprietà e non soggetti a vincoli feudali. In più a Caterina fu assegnata, a titolo dotale, una somma in danaro di 800 once1.

Agli inizi del XV secolo il borgo di Paterno si era ulteriormente ingrandito. Appena fuori della porta secondaria, una discontinua teoria di misere bicocche incombeva sul lato destro del viottolo fangoso. Altri abituri, sovrapposti e ammassati ne-gli spazi angusti, erano sorti a ridosso della chiesa e del monastero francescani. Di fronte, a tergo del-le botteghe artigiane che un tempo avevano delimitato il cortile del castello, affumicati tuguri sprofondavano nelle viscere tetre di vicoli malsani.

Anche la chiesetta eretta sotto il titolo di San Luca si era ormai rivelata insufficiente alle esigenze spirituali della accresciuta comunità. Ciò ne aveva reso indispensabile l’ampliamento mediante l’ag-giunzione di un ambiente contiguo, esteso in larghezza pressappoco fino alla balaustra dell’attuale presbiterio in cui è collocato l’altare maggiore. Qui, a ridosso della parete volta a nord, la congregazione della Santissima Annunziata aveva innalzato un altare, per cui il rinnovato luogo di culto aveva assunto, nel gergo popolare, il nome di Nunziatella.

Parimenti era stata ampliata la cripta destinata alle sepolture. Questa ora risultava delimitata da archi deputati a sostenere la sovrastante struttura e da posatoi in muratura a ridosso delle pareti, su cui disporre ordinatamente le ossa. Tuttora vi si accedeva dall’originario ingresso sottoposto al livello stradale, mediante una ripida scalinata in pietra.

Compreso fra la chiesa, l’ammasso disordinato di malsane bicocche sorte fra il sagrato ed il sottostante spiazzo del Seggio ed il caotico proliferare di tuguri che dal monastero francescano si era dilatato fino ad aggredire il castello, si era formato uno spazio chiuso, in parte identificabile con l’area di quella che è oggi piazzetta Scala Santa, su cui convergevano i tanti vicoli e le due strade che facevano capo alle porte del borgo. A questo spazio era stata conferita dignità di piazza con l’assegnargli il ruolo di luogo deputato alle pubbliche riunioni.

Il Casale di San Pietro, ora detto di Paterno, nonché le grangie di San Quirico, di Santa Maria e di San Pietro, si erano sviluppati sino a divenire dei veri e propri villaggi rurali, mentre altri più modesti agglomerati, sorti intorno alle cappelle sparse sul territorio, costituivano i restanti casali che rispondevano ai nomi di San Damiano, Sant’Andrea, Serra, Cerreto, Nocelleta, Gaudo e San Felice.

Ora questo feudo era posseduto dalla contessa di Avellino Francesca Sanfromondo, quale madre e tutrice di Giacomo Nicola Filangieri II, detto Cobello. Giovanna Minutolo però, nonna di quest’ultimo, ne riteneva illegittimo il possesso in quanto sulla terra di Paterno le era stata garantita la dote annua di 30 once, e perciò sottopose la questione a re Ladislao perché le rendesse giustizia.

Il sovrano non disattese le sue aspettative: Magnifici Mulieri Cicchelle de Sancto Raimundo Comitisse Avellini iuniori balie et tutrici Magnifici Iuvenis Cobelli Filangerii Comiti Avellini ... Pro parte Magnifice Mulieris Iohannelle Minutule de neapoli Comitisse Avellini senioris relicte quondam viri magnifici Iacobi de Candida Militis Comitis Avellini ... fuit maiestati nostre ... oblata petitio reverens in serie subsequenti. Sacre Regie Maiestati reverenter exponitur pro parte Magnifice Mulieris domine Iohannelle minutole de neapoli senioris Comitisse Avellini dicentis quod olim tempore contracti matrimonii inter Virum Magnificum Iacobum de Candida Militem Comitem Avellini Maritum suum et ipsam exponentem prefatus Comes contemplatione contracti matrimonii supradicti constituit eidem exponenti dodarium seu tertiariam unciarum annuarum triginta super Casale lapii ... postquam prefatus Comes pro eo quod dictum Casale lapii permutavit cum Iohanne Filangerio fratre suo milite et ipsum casale lapii pervenit ad ipsum Iohannem et ex causa permutationis predicte ipse Comes habuit castrum abriole situm in provincia basilicate. Comes ipse in ultimis constitutus suum ultimum et solenne condidit testamentum in quo legavit voluit et mandavit quod prefata exponens consors sua dictum dodarium seu tertiarium consequeretur et haberet super terram paterni que est de baronia frequenti ... Postquam mortuo dicto Comite Marito exponentis eiusdem dicta terra paterni pervenit ad manus et potestatem presentis Comitisse Iunioris balie et tutricis Cobelli filangerii nunc Comitis Avellini dicta Comitissa Iunior tanquam balia et tutrix dicti Cobelli nunc Comitis Avellini pupilli tenuit et tenet dictam terram paterni et ex ea percepit et percepit iura fructus redditus et proventus provenientes ex ea ... Vestre Maiestati humiliter supplicatur quatenus dignemini commictere et mandare prefate Comitisse iuniori ad certam formidabilem penam ut in certo termino per Maiestatem Vestram statuendo prefata Comitissa iunior que tenet et possidet dictum Castrum paterni dare tradere restituere et assignare debet eidem exponenti dictam terram paterni tenendam et possidendam per eandem exponentem pro dicto dodario seu tertiaria ...1

Alla magnifica donna Francesca Sanfromondo, giovane contessa di Avellino, madre e tutrice del magnifico giovane Cobello Filangieri, conte di Avellino ... da parte della magnifica donna Giovanna Minutolo di Napoli, anziana contessa di Avellino, vedova del defunto magnifico uomo Giacomo de Candida, milite e conte di Avellino, ... fu alla nostra maestà ... presentata reverente richiesta del seguente tenore: alla Sacra Regia Maestà reverenzialmente si espone (la presente questione) da parte della magnifica donna signora Giovanna Minutolo di Napoli, anziana contessa di Avellino, che riferisce che un tempo, al momento del contratto matrimoniale fra il magnifico uomo Giacomo de Candida, milite e conte di Avellino, suo sposo, ed essa stessa richiedente, il predetto conte, nella stesura del suddetto contratto matrimoniale, costituì a favore della richiedente una dote, o rendita, di trenta once annue sul casale di Lapio ... Dopo di che il predetto conte permutò per sé quel detto casale di Lapio con Giovanni Filangieri, suo fratello e milite, e lo stesso casale di Lapio pervenne allo stesso Giovanni, e per effetto della permuta suddetta lo stesso conte ebbe il castello di Abriola sito in provincia di Basilicata. Lo stesso conte alfine scrisse il suo definitivo e solenne testamento in cui impegnò, volle e dispose che la suddetta richiedente sua consorte conseguisse ed ottenesse detta dote, o rendita, sulla terra di Paterno che è della baronia di Frigento ... Dopo morto detto conte marito della stessa richiedente, detta terra di Paterno pervenne in mano ed in possesso della attuale giovane contessa, madre e tutrice di Cobello Filangieri, ora conte di Avellino. Detta giovane contessa, quale madre e tutrice di detto Cobello ora conte di Avellino, giovanetto, possedeva e possiede detta terra di Paterno e da essa percepiva e percepisce usufrutti, redditi e proventi provenienti da essa ... Umilmente si supplica la Vostra Maestà al fine di stabilire, e ad essa sottoporre la predetta giovane contessa, una consistente e sicura pena pecuniaria affinché entro un determinato periodo, da stabilirsi da parte della Maestà Vostra, la predetta giovane contessa che detiene e possiede il detto castello di Paterno debba dare, cedere, restituire o assegnare alla stessa richiedente detta terra di Paterno, da tenersi e da possedersi dalla stessa richiedente per la detta dote, o rendita ...

Evidenziate le ragioni di Giovanna Minutolo, re Ladislao stabilì che Francesca Sanfromondo pagasse alla stessa 60 once d’oro, a copertura del dovuto per i trascorsi ultimi due anni, e per il futuro le corrispondesse annualmente le rendite derivanti dal feudo di Paterno fino al concorso delle 30 once spettanti. Inoltre indicò in mille once la penale prevista nel caso in cui la regale decisione fosse stata disattesa. Il documento reca la data del 1° giugno 1404.

Comunque la regale imposizione era destinata a rimanere inascoltata. La confusa situazione interna incoraggiava alla disobbedienza e all’anarchia. La lunga guerra combattuta contro Luigi II d’Angiò aveva prodotto un pauroso indebitamento per il quale, nell’anno 1400, re Ladislao aveva dovuto ordinare l’esazione di 10 grana mensili per ciascun fuoco del regno. Il partito angioino, strumentalizzando lo scontento popolare, fomentava la ribellione. Nel 1403 poi, quando Ladislao si era recato in Ungheria per esserne incoronato re, i Sanseverino non si erano lasciati sfuggire l’occasione per riprendere le armi, costringendo il re ad un precipitoso rientro a Napoli. Questi aveva al suo servizio un abile condottiero, Sergianni Caracciolo, che egli aveva elevato al grado di capitano, e col suo aiuto non gli era stato difficile soffocare la rivolta. Ma il pericolo non poteva dirsi scongiurato.

Maria Brenna, vedova di Raimondo Orsino principe di Taranto, rifiutandosi di prestare obbedienza a re Ladislao, non esitò ad invocare l’aiuto di Luigi II d’Angiò. Il re, prima che potesse realizzarsi l’intervento francese, pose l’assedio al castello di Taranto che, validamente difeso dai Sanseverino, ben presto si rivelò imprendibile.

Re Ladislao, pur di rimuovere quella sacca di resistenza che costituiva un punto di riferimento per il suo nemico Luigi II, si risolse a prendere in sposa Maria Brenna. Era l’anno 1407 quando le nozze furono celebrate, dopo di che la principessa di Taranto si trasferì a Napoli dove, però, fu fatta rinchiudere in Castelnuovo.

L’episodio è ricordato nelle nostre zone nel-l’espressione l’accatto re Maria Vrenna (l’acquisto di Maria Brenna), a significare la conclusione di un pessimo affare, quale fu appunto quello della principessa Maria Brenna che, per divenire regina, finì col perdere il principato e la libertà.

Luigi II d’Angiò armò un nuovo esercito ed attraversò le Alpi. Re Ladislao gli mosse contro e pose i suoi accampamenti presso Siena, espugnando, fra altre, la città di Cortona che due anni più tardi avrebbe ceduto a Firenze. La flotta francese fu intercettata e sconfitta alla Meloria, un tratto di mare che fronteggia Livorno: era l’anno 1409.

La lite per il possesso di Paterno era tuttora aperta e senza prevedibili possibilità di accordo, tanto che si rese necessario un nuovo ricorso al giudizio del re. Ladislao, pur impegnato nella spedizione bellica, in data 22 aprile 1409, dal suo accampamento presso Siena, dispose che in merito alla petizione relativa alla controversia in atto con Iacobum nicolaum filangerium et magnificam mulierem Cecchellam da Sancto flaimundo eius matrem tutricem et baliam per Magnificam mulierem Iohannellam minutolam Comitissam Avellini relictam quondam Iacobi filengerii Comitis Avellini seu eius procuratorem super solutione certi dotarii seu tertiarie sibi constitute per dictum quondam Comitem ... assignet sibi terram paterni de provincia principatus ultra serras montorii super qua constituta fuit sibi dicta tertiaria triginta videlicet annuarum unciarum seu patiatur quod ipsa exponens super dicta terra paterni iuribus et fructibus ipsius recipiat et consequatur annuatim dictas uncias triginta pro tertiaria seu dotario suo predicto et aliis prout in actis vestre curie asseritur contineri supersedere et ad anteriora non procedere penitus debeatis ex nunc et usque ad felicem reditum nostrum ad civitatem nostram neapolis1.

Giacomo Nicola Filangieri e la magnifica donna Francesca Sanfromondo, madre, tutrice e balia di lui, da parte della magnifica donna Giovanna Minutolo, contessa di Avellino, vedova del fu Giacomo Filangieri conte di Avellino, ossia del suo procuratore, circa la soluzione del problema di una accertata dote, o rendita, a lei destinata dal detto defunto conte ... si assegni a lei la terra di Paterno della provincia di Principato Ultra Serra di Montoro, su cui per lei fu costituita la detta rendita di 30 once annue, oppure si consenta che la stessa richiedente riceva ed ottenga, in diritti e prodotti, sulla detta terra dello stesso Paterno, annualmente le dette 30 once per rendita o dote sua predetta; si impone inoltre che (voi, Giovanna Minutolo da una parte, e Giacomo Nicola Filangieri congiuntamente a Francesca Sanfromondo dall’altra,) dobbiate del tutto astenervi, soprassedere, e non procedere oltre nelle vostre azioni, neppure in altra sede, da ora e fino al nostro felice rientro nella nostra città di Napoli.

Di lì a poco re Ladisalo dovette fare ritorno a Napoli in quanto gli era stato somministrato del veleno nel cibo, e lasciò al comando delle truppe di stanza in Toscana il capitano Sergianni Caracciolo2.

Intorno al 1411 Caterina Filangieri, ultima dei figli di Giacomo Nicola I, compì 18 anni e suo fratello, Giacomo Nicola II detto Cobello, 3° conte di Avellino e signore di Paterno, la dette in sposa al capitano Sergianni Caracciolo3.

Trascorse non più di un anno che, probabilmente avvelenati, morirono prima Alduino Filangieri, poi Giacomo Nicola II detto Cobello, ed alfine, a distanza di otto giorni, Giannuccio ed Urbano non ancora maggiorenni. Né Alduino né Giacomo Nicola II avevano avuto figli sicché, mortuis predictis Cubello Iohannucio et Urbano in pupillari etate Rex Ladiczlaus ... ad manus suas auctoritate propria recipere seu recipi fecit omnia bona feudalia que fuerunt dicti quondam Cubelli ...1.

alla morte dei predetti Cobello, Giannuccio ed Urbano in minore età, re Ladislao ... d’autorità, fece confiscare o confiscò tutti i beni feudali che erano stati del defunto Cobello ...

Nulla fu concesso a Caterina, moglie di Sergianni Caracciolo, unica superstite della famiglia, e parte dei feudi addirittura fu dal re venduta o donata.

Nell’anno 1414, in conseguenza di una malattia, morì in Napoli re Ladislao. Gli succedette al trono sua sorella, Giovanna II d’Angiò-Durazzo che, vedova dal 1406 e senza figli, nominò Gran Siniscalco del regno il suo amante Pandolfello Piscopo, detto Alopo, a cui lasciò piena libertà d’azione nel governo del Paese.

Intanto una furiosa disputa s’era accesa per il possesso dell’eredità del defunto Giacomo Nicola Filangieri II, detto Cobello, 3° conte di Avellino. Oltre sua sorella Caterina, moglie di Sergianni Caracciolo, vi erano coinvolti, reclamando presunti diritti di successione, Filippo Filangieri II, zio di Caterina, ed il di lei cugino Matteo Filangieri, figlio di Riccardo VI che di Filippo II era fratello.

Non è dato sapere se Paterno, confiscato dal defunto re al pari degli altri feudi posseduti dal Cobello, fosse stato ceduto ed a chi. Del tutto indifferente alle dispute baronali, la vita vi si svolgeva secondo i ritmi di sempre, divisa fra il duro lavoro e gli impegni imposti dalla complessità dei rapporti sociali che rendeva l’intera comunità partecipe di ogni singolo evento, fausto o infausto che fosse. In virtù di questi rapporti, un legame indissolubile si stabiliva fra questa terra e i suoi figli. Roberto di Antonio di Leonarda, originario di Paterno ma abitante in Mercogliano quale vassallo del monastero di Montevergine, il 6 settembre del 1414 prese in fitto per 29 anni, dall’abate dello stesso monastero, una casa in Paterno, forse la stessa donata da Tommaso Parisio nell’anno 1348, pagando 20 tarì per la concessione ed impegnandosi a corrispondere un tarì all’anno, da versarsi in agosto nel giorno della festa di Santa Maria2.

Era somma non da poco per un vassallo, privo di qualsiasi risorsa che non fosse il lavoro delle proprie braccia; ma così pressante era il richiamo del luogo natio che dovette apparirgli sopportabile qualunque sacrificio.

A Napoli, sollecitata dalla nobiltà ansiosa di assicurare un erede al trono, nell’anno 1415 la regina Giovanna II sposò Giacomo di Borbone, conte delle Marche. Questi, offeso dalla condotta spregiudicata della moglie, ne fece decapitare l’amante Alopo e relegò lei stessa negli appartamenti reali.

Ma la reazione della nobiltà napoletana fu immediata e, nel settembre dello stesso anno, Giovanna II fu sottratta al marito e protetta in Castelcapuano. Quindi, a seguito di laboriose trattative concluse nel 1416, furono assegnati a Giacomo di Borbone 50 mila ducati d’oro in cambio dell’impegno di tenersi fuori dal governo del regno.

Giovanna II intrecciò una nuova relazione con Urbano Origlia, ma Sergianni Caracciolo, che ambiva introdursi nelle grazie di lei, lo fece inviare ambasciatore al concilio di Costanza. Liberatosi così del rivale, non gli fu difficile divenire l’amante della regina e, come tale, perorare la causa di sua moglie Caterina nella lite che la vedeva contrapposta allo zio Filippo Filangieri II ed al cugino Matteo per la successione nei feudi appartenuti al defunto Giacomo Nicola II, ed alla sua morte dispersi, donati o venduti.

La regina, per poter decidere, costituì una commissione di giuristi a cui affidò il compito di esaminare il caso e di esprimersi in merito. Tale commissione, in data 19 gennaio 1418, emise la prammatica3, detta Filangeria, in cui si stabiliva che una sorella dovesse essere esclusa dalla successione al fratello nel solo caso in cui fosse stata da lui dotata di beni, o anche in quello in cui ne fosse stata dotata dal comune padre1.

L’esclusione quindi non poteva essere operante nei confronti di Caterina, sia perché la prematura morte del fratello Giacomo Nicola Filangieri II, detto Cobello, non aveva consentito la stesura di una disposizione testamentaria, sia perché la stessa, dal comune genitore, non aveva ereditato che parte dei beni burgensatici, oltre ad un’assegna-zione dotale di 800 once.

In base a questo principio, peraltro sancito in ossequio alla regale volontà, la regina Giovanna II riconobbe a Caterina Filangieri il diritto di succedere nei beni del fratello Cobello. Ma poiché questi erano stati in parte ceduti o venduti e, nei relativi strumenti, re Ladislao aveva fatto inserire l’obbligo di non molestare, per qualsiasi ragione, i nuovi possessori, la regina, con privilegio del 22 gennaio 1418, adducendo a giustificazione che all’epoca dei fatti Caterina fosse minorenne, l’autorizzò ad agire contro i detentori di essi al fine di ottenerne la restituzione2.

Tale soluzione fu così commentata più tardi da Gaetano Filangieri nella sua opera dal titolo “Scienza della legislazione”: Un’altra legge converrebbe abolire presso di noi. Questa è quella, che preferisce nella successione de’ feudi la figlia del primogenito a’ suoi fratelli. Questa legge dettata dalla passione e dall’amore di una voluttuosa regina, questa legge che trasporta i beni da una casa in un’altra e che impoverisce un fratello per arricchire un estraneo, questa legge è quella che ha cagionato la rovina della famiglia dell’autore e che ne porta il nome. Questa è la prammatica Filangeria.

Il 10 dicembre del 1418 alfine, la regina Giovanna II, confermando il privilegio del 22 gennaio, ribadì a Caterina Filangieri la propria autorizzazione ad agire contra quoscumque possessores seu detentores prescriptorum bonorum dicti quondam Cubelli Comitis Avellini fratris exponentis ...3

contro qualsiasi possessore o detentore dei sopra trascritti beni del detto defunto Cobello conte di Avellino, fratello della richiedente ...

Fu così che Caterina Filangieri, moglie di Sergianni Caracciolo, assunse il titolo di quarta contessa di Avellino e fu ammessa nel pieno possesso dei feudi paterni costituiti, per quanto concerneva la provincia di Principato Ultra, dalle terre di Avellino, Candida, Chiusano, Prata, San Mango, Luogosano, Taurasi, Castelvetere, Paterno, Gesualdo, Fontanarosa e Frigento4.

Non avendo eredi la regina Giovanna II, papa Martino V prese ad interessarsi della successione favorendo le aspirazioni di Luigi III d’Angiò, figlio di Luigi II. Questi, con l’aiuto di Francesco Sforza, nell’anno 1421 entrò nel regno e cinse d’assedio Napoli.

La regina Giovanna II, appreso che Alfonso V, re di Aragona, di Sicilia e Sardegna, si trovava in Corsica per occupare l’isola, ne invocò l’aiuto in cambio della successione. Alfonso V accorse e sbarcò ad Ischia.

Papa Martino V, temendo le gravi conseguenze di un conflitto fra i due pretendenti al trono, invitò Luigi III ad abbandonare le terre occupate, la qual cosa egli fece senza indugio.

Alfonso V invece entrò in Napoli e, forte della designazione fattagli da Giovanna II, prese a sollecitare appoggi al fine di assumere il pieno potere del regno. Sergianni Caracciolo se ne avvide ed avvertì la regina del pericolo che stava correndo. Questa se ne lamentò con Alfonso V il quale, il 27 maggio del 1422, fece incarcerare il Caracciolo e predispose la cattura della stessa regina.

Giovanna II, avvertita per tempo, invocò l’intervento dello Sforza accampato presso Benevento il quale, prontamente accorso, la portò al sicuro in Aversa.

Alfonso V, consapevole di aver forze insufficienti per tenere Napoli, propose la liberazione di alcuni baroni a lui fedeli detenuti dallo Sforza in cambio di Sergianni Caracciolo. Riottenuta così la libertà, il Caracciolo si attivò per organizzare la riconquista di Napoli.

Alfonso V, richiamato in Catalogna, dovette lasciare la città la cui difesa affidò al capitano di ventura Giacomo Caldora ed al proprio fratello Don Pietro d’Aragona.

Scaduto il contratto di assoldamento però, Giacomo Caldora passò al servizio di Giovanna II, inducendo Don Pietro d’Aragona ad abbandonare il regno1.

Nell’anno 1423 la regina Giovanna II designò quale suo successore Luigi III d’Angiò e lo associò al trono. Il 20 gennaio dell’anno successivo elevò Sergianni Caracciolo al grado di Gran Contestabile del Regno, né cessò dall’elargirgli favori, assegnandogli terre e castelli e persino la città di Capua.

Ma ormai l’arroganza del Caracciolo non aveva limiti. Non pago dello strapotere concessogli e delle immense fortune accumulate, nell’anno 1431 chiese alla regina di donargli il principato di Salerno di cui era stato privato Antonio Colonna. Questa, in cui il gelo degli anni aveva spento il fervore de’ sensi, per la prima volta negava. Sergianni, non uso a siffatte repulse, proruppe in villanie ed ingiurie gravissime, e v’ha qualche istorico che narra di averle benanche dato uno schiaffo2.

Dati i non pochi nemici che Sergianni Caracciolo aveva a corte, l’insano gesto non poteva restare senza conseguenze. Covella Ruffo, duchessa di Sessa e cugina di Giovanna II, si fece presso costei portavoce di quanto da più parti si lamentava circa lo strapotere del barone e di come lo esercitasse nel proprio esclusivo interesse, insinuando finanche il sospetto che potesse giungere a tramare contro la stessa sovrana.

La regina si lasciò alfine convincere della pericolosità dell’ex amante ed acconsentì che fosse catturato ed imprigionato.

Covella Ruffo contattò allora Ottino Caracciolo, suo fratello Francesco, Marino Boffa, Pietro Palagano ed Urbano Cimino, tutti acerrimi nemici di Sergianni3, e comunicò loro il beneplacito della regina ad agire. Costoro però, conoscendo la volubilità della sovrana e temendo che prima o poi si fosse lasciata nuovamente irretire dall’uomo che non avrebbe mancato di vendicarsi, concordarono di non limitarsi a catturarlo, bensì di eliminarlo del tutto.

Il giorno 18 agosto 1432, in Castelcapuano, furono celebrate le nozze fra Troiano, figlio di Sergianni Caracciolo, e Maria, figlia di Giacomo Caldora. I festeggiamenti si erano protratti fino a notte fonda e Sergianni si era appena messo a letto quando giunse un servitore della regina ad annunciargli che la sua padrona era stata colpita da apoplessia. Lasciato l’uscio aperto per la fretta, il nobiluomo si accingeva a rivestirsi quando i congiurati irruppero nella stanza e lo finirono a colpi di pugnale e di accetta. Per impedirne la reazione furono quindi sorpresi nel sonno ed imprigionati Troiano Caracciolo ed altri congiunti della vittima, ed il mattino successivo il cadavere seminudo ed insanguinato di colui che era stato l’uomo più potente del regno fu trascinato in strada ed esposto alla curiosità del popolo.

Sul principio la regina si infuriò perché si era andati oltre le sue intenzioni, ma poi non solo pubblicò un indulto a favore degli assassini, ma addirittura dispose la confisca di tutti i beni del Caracciolo.

Non furono invece tolti a Caterina Filangieri, sua vedova, i feudi ereditati dal fratello Cobello, fra cui Avellino e Paterno.

Il 29 agosto 1432 Giovanna II ordinò che la città di Capua e le altre terre appartenute al Caracciolo fossero consegnate al conte Giorgio de Alemagna, ma Cobello de Stefano e Giacomo de Abate, suffeudatari di Caterina, si rifiutarono di obbedire per i castelli da loro tenuti, sicché si rese necessario, nel successivo mese di settembre, che Troiano Caracciolo e sua madre spedissero a costoro due lettere in cui li si sollecitava ad ottemperare all’ordine sovrano.

Fra i beni sottoposti a confisca figurava pure il castello di Melfi. Non avendolo però Caterina Filangieri consegnato a Giorgio de Alemagna, la regina ordinò che a quest’ultimo fosse dato in ostaggio, a titolo di pegno, il di lei figlio Troiano Caracciolo. Nonostante ciò, permanendo Caterina restia alla cessione del castello, in data 18 ottobre 1432 la regina ordinò che Troiano venisse consegnato a lei.

Di lì a poco, sul finire dell’anno 1432 o agli inizi del 1433, Caterina Filangieri morì in Avellino e fu sepolta nella chiesa di Montevergine.


1 Erasmo Ricca: Istoria de’ feudi delle Due Sicilie, Vol. II - Napoli 1865.

2 Più noto col nome di Maschio Angioino.

3 Carlo Padiglione: Tavole storico-genealogiche della Casa Candida già Filangieri - Napoli 1877.

4 Erasmo Ricca: Istoria de’ feudi delle Due Sicilie, Vol. II - Napoli 1865.

5 Registri angioini.

6 Prima ancora che nelle guerre fossero impiegate truppe mercenarie, ai militi tenuti a prestare servizio militare era concessa l’esenzione in cambio di un contributo in danaro detto adoa. Questo istituto era stato conservato, ma i feudatari avevano ottenuto facoltà di rivalsa sui propri vassalli.

1 Registri angioini.

2 Carlo Padiglione: Tavole storico-genealogiche della Casa Candida già Filangieri - Napoli 1877.

1 Erasmo Ricca: Istoria de’ feudi delle Due Sicilie, Vol. II - Napoli 1865.

1 Registri angioini.

1 Registri angioini.

2 Conte Berardo Candida Gonzaga: Memorie delle famiglie nobili delle province meridionali d’Italia, Vol. III - Napoli 1875.

3 Erasmo Ricca: Istoria de’ feudi delle Due Sicilie, Vol. II - Napoli 1865.

1 Registri angioini.

2 Giovanni Mongelli: Abbazia di Montevergine - Regesto delle pergamene, Vol. V - Roma 1956.

3 Regola desunta dalla consuetudine.

1 Erasmo Ricca: Istoria de’ feudi delle Due Sicilie, Vol. II - Napoli 1865.

2 Erasmo Ricca: Ibidem.

3 Registri angioini.

4 Francesco Scandone: Abellinum feudale, Vol. II - Napoli 1948.

1 Conte Berardo Candida Gonzaga: Memorie delle famiglie nobili delle province meridionali d’Italia, Vol. III - Napoli 1875.

2 Erasmo Ricca: Istoria de’ feudi delle Due Sicilie, Vol. II - Napoli 1865.

3 Conte Berardo Candida Gonzaga: Memorie delle famiglie nobili delle province meridionali d’Italia, Vol. III - Napoli 1875.

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