Viveva un tempo una coppia felice, benedetta dalla presenza di due figli amorosi legati fra loro da profondo affetto. Tina era la più grande dei due e da sempre aveva badato a Lino, di sei anni più piccolo di lei, così che, anche quando fu in età da apprendere l'arte del cucito e del ricamo, non se ne volle separare. Ogni mattina lo prendeva per mano e lo conduceva con sé a casa di Elvira, la sarta, dove ne sorvegliava i giochi e ne provvedeva ai bisogni.
Elvira era donna di pochi scrupoli, chiacchierata per i suoi atteggiamenti poco convenzionali nei confronti degli uomini del paese, e il fatto che non avesse trovato marito impensieriva non poche mogli e fidanzate. Ma da un po' di tempo la sarta non aveva occhi che per il padre dei due bambini, tanto che, perseguendo un suo pur vago progetto, per ingraziarseli, li colmava di gentilezze e di leccornie, al punto che essi cominciarono a preferirla alla loro stessa madre che, oberata di lavoro, di tempo da dedicar loro ne aveva ben poco.
Un giorno che per una monelleria la madre li aveva sgridati aspramente, mandandoli a letto senza cena, Tina e Lino, col cuore colmo di risentimento, stabilirono che sarebbe stato opportuno cambiare madre, investendo di tale ruolo la sarta.
Il giorno successivo andarono di buon mattino dalla donna e le sottoposero la proposta a lungo rimuginata nella notte. Elvira pensò che fosse giunto il momento propizio per realizzare il sogno generato dalla sua insana passione. Era eccitata e felice ma non lo dette a vedere.
"Ma voi avete già una madre", obiettò. Nella loro ingenua determinazione i bambini non avevano considerato questo ostacolo. Dapprima apparvero delusi, poi Tina, illuminandosi improvvisamente in volto, tutta speranzosa, interrogò:
"E se morisse, saresti disposta a farci da madre?"
Elvira a stento riuscì a celare un moto di malvagia esultanza, mascherandolo in un atteggiamento di improvvisa commozione. Li abbracciò insieme e li baciò. "Siete due bambini meravigliosi! " esclamò. "Sarei felicissima di essere vostra madre".
I bambini, commossi, lusingati dalla dimostrazione di affetto della donna ed ancora risentiti per la punizione che la madre aveva loro inflitto, stringendosi forte a lei, promisero che tutte le sere avrebbero pregato il buon Dio di far morire la loro madre cattiva.
La sarta se li staccò di dosso e li considerò a lungo con aria paziente e scettica, scosse il capo. "Siete troppo piccoli", osservò. "È probabile che le vostre preghiere non giungano fino a Dio". Indugiò, pensosa, alla ricerca di una soluzione diversa, poi, come riflettendo ad alta voce, sospirò: "Qualcosa si potrebbe fare, ma non credo che voi bambini ne siate capaci! "
Tina si irrigidì, permalosa. "Chi ti ha detto che non ne siamo capaci?" insorse con una punta d'orgoglio. "Dicci cosa dobbiamo fare e vedrai che non ti deluderemo".
Elvira sorrise, poco convinta eppur condiscendente. "Pensavo che avreste potuto tirar giù il coperchio della cassa nel momento in cui vostra madre fosse china in essa per prenderne il pane". Si serrò nelle spalle, con indifferenza, pur scrutando i bambini, pensosi, per valutare l'effetto delle proprie parole. "Era solo un'idea", soggiunse e scoppiò in un'allegra risata. "Macché, non pensateci più. Ora voglio farvi assaggiare dei dolci che ho preparato apposta per voi", e con passo svelto scomparve oltre l'uscio della cucina.
Ai bambini le parole della sarta, la sua voce dolce e suadente, risuonavano nel cervello, e più riflettevano, più si convincevano che la cosa era fattibile. Fu così che il mattino successivo, al momento della colazione, insolitamente desti, con fare complice Tina e Lino si disposero ai due lati della cassa ed attesero che la madre andasse a prendere loro del pane. Quando questa si chinò, richiusero il coperchio che le cadde pesantemente sul capo uccidendola sul colpo.
Si parlò di disgrazia. La sarta fu la prima ad occorrere, costernata, e trascorse l'intera notte nella veglia funebre ostentando un indicibile dolore, non senza aver prima fatto mangiare ed aver messo a letto i bambini.
Dopo la tumulazione della salma la sarta invitò parenti ed amici ad astenersi dal portare i pasti al vedovo ed ai figlioletti, impegnandosi a provvedervi personalmente in quanto la sua presenza, più di ogni altra, poteva essere di conforto ai bambini.
Fu così che Elvira si introdusse di forza nella vita della sventurata famigliola, preparando per essa il pane, cuocendo i cibi, facendo il bucato, badando ai bambini durante le ore di lavoro del padre, fino a rendersi ben presto indispensabile.
Trascorse circa un mese ed Elvira pensò che fosse ormai tempo di mettere in atto la seconda parte del suo diabolico piano. Chiamò a sé i bambini, se li fece sedere sulle ginocchia, e con voce flautata ne chiese l'attenzione.
"Comprendo che vostro padre, da solo, non può allevare due graziosi ragazzi come voi", esordì, "ed è questo il mio unico cruccio. Finora ho cercato di darvi una mano, mala gente è pettegola e comincia a vedere con sospetto la mia presenza in casa vostra". Il tono della voce le si fece grave. "Con mio sommo rammarico debbo rinunciare a voi", annunciò. Si morse il labbro e tirò su col naso per ricacciare indietro le lacrime che le gonfiavano gli occhi. I bambini se ne commossero. "Che ti importa della gente!?" insorsero ad una voce. "Noi lo sappiamo che sei buona! "
Lei scosse la testa, risoluta. "Mi dispiace", disse. "Mi mancherete tanto! E perdonatemi se non potrò più prepararvi i tarallini nasprati, o gli strufoli, o le zeppole, o se non potrò più cucire i vestiti per la bambola".
Tina fu scossa dai singhiozzi. L'abbracciò disperatamente. "Non ci lasciare, noi ti vogliamo tanto bene", supplicò.
Lei sospirò rassegnata. "Lo so, e ciò mi rattrista; ma non ho scelta, a meno che..." Esitò, imbarazzata.
"A meno che?" sollecitò Tina, animata dallo spiraglio che si apriva alla speranza.
"A meno che vostro padre non mi sposi", profferì lei, subito aggiungendo, preoccupata di essere fraintesa: "Non che mi importi di essere sposata, si intende. Il mio sarebbe un sacrificio, malo farei volentieri per l'affetto che nutro per voi"
Quella sera a cena, dopo un lungo e teso silenzio colmo delle occhiate di incoraggiamento di Lino, Tina propose al padre tutto d'un fiato: "Perché non sposi Elvira?"
L'uomo non parve sorpreso. Non rispose; si limitò a scuotere tristemente il capo in segno di diniego.
"Ma perché?" insistette lei. "È buona e ci vuole tanto bene. E poi tu hai bisogno di una donna che ti tenga in ordine la casa e ti prepari i pasti".
L'uomo continuò a scuotere sconsolato il capo.
"Ma perché?" piagnucolò Tina, ed il fratellino a sua volta si mise a frignare: "Sposala, papà; ti prego, sposala".
Il buon uomo, attribuendo tali insistenze alla preoccupazione dei figli per la sua difficile situazione, commosso, al solo scopo di non scontentarli, abbozzò un sorriso di resa ed acconsentì: "Va bene. Visto che ci tenete tanto la sposerò, ma non prima che tutti i vestiti di vostra madre siano marciti".
Il giorno dopo i bambini riferirono ad Elvira le condizioni imposte dal padre.
"È giusto", lei convenne. "Aspetteremo, anche se dovranno passare parecchi anni prima che ciò avvenga".
"E in questi anni verrai a casa nostra?"
si informarono, speranzosi, i bambini. "Continuerai a prepararci i tuoi dolci ed a raccontarci le favole?"
"Non è possibile: la gente malignerebbe", sentenziò lei rassegnata.
Delusí, disperati, le si aggrapparono al collo. "Ti prego", presero a supplicarla; "non devi abbandonarci".
Lei li carezzò sul capo, mestamente. "Una soluzione ci sarebbe", azzardò. "Quale?" interrogò Tina, e Lino le fece eco.
"Perché gli abiti marciscano in breve tempo dovreste farci la pipì sopra ogni giorno", spiegò.
I bambini presero a porre in atto il suggerimento con impegno ed entusiasmo. Ogni mattina, non appena il padre si richiudeva l'uscio alle spalle per recarsi al lavoro, loro saltavano giù dal letto, tiravano fuori dalla cassa gli indumenti appartenuti alla madre, li sparpagliavano sul pavimento e quindi ci orinavano sopra.
Non trascorsero più di due mesi che i vestiti marcirono e così, un bel giorno, i bambini attesero che il padre rientrasse dal lavoro e, con fare esultante, lo guidarono verso la cassa ove erano custoditi.
"Vedi", gli dissero; "ora sono marciti. Devi sposare Elvira".
L'uomo, sia per amore verso i figli, sia per tener fede alla promessa fatta, acconsentì alle nozze.
La cerimonia fu semplice ed intima, come si addiceva ad un vedovo, e la sarta potette finalmente trasferirsi nella dimora di lui.
L'atteggiamento di Elvira nei confronti dei ragazzi non tardò a mutare radicalmente. Nel giro di pochi giorni la donna si rivelò astiosa, irascibile, insofferente della loro stessa presenza, e non tralasciava occasione per rimproverarli aspramente.
"È solo per amor tuo che li sopporto", si lamentava sempre più spesso col marito mentre gli ammanniva coccole e moine. "Sono indisponenti, dispettosi, bugiardi. Oh, caro, se non ci fossero...!"
L'uomo ne era turbato ed infelice, diviso fra l'amore per i figli e la passione che la donna gli scatenava dentro. Passò più di un anno. Una bambina, Lisa, era venuta alla luce. Tina si era trasformata in una graziosa signorinetta, seppure triste e immusonita. Lino si era legato sempre più alla sorella che identificava con la figura materna. Le proteste e le lamentele della matrigna erano divenute un pervicace ritornello. Ormai ogni sera la donna, dopo aver fatto le fusa al marito come una gattina innamorata, cominciava a sciorinare i motivi del proprio scontento che alimentavano in lui il rancore verso i figli.
E venne il giorno in cui Elvira ritenne che fosse giunto il momento di proporre al marito quanto da tempo andava rimuginando. A sera, dopo aver imposto ai ragazzi di non muoversi dalla propria stanza, lo attese sconvolta sull'uscio di casa e, imponendogli con gesti concitati e perentori di non tradire la propria presenza, lo guidò fin nella camera da letto dove, stringendoglisi contro, simulò in un pianto disperato lo sfogo di un pesante fardello di amarezza che la opprimeva dentro.
"Sono allo stremo della sopportazione", disse. "Ho sempre evitato di parlartene per non farti soffrire, ma ora non posso più tacere: mi odiano e soprattutto odiano Lisa. Ho paura per la nostra bambina. So che le faranno del male, lo sento. Perdonami, amore, ma in questa casa non posso più vivere".
La passione accecava ormai l'uomo che neppure per un istante dubitò della donna. Pure l'affetto per i figli si sovrapponeva al terrore di perdere la compagna fino a moderarne il risentimento, a renderlo conciliante.
"Calmati, cara; cerca di non pensarci", provò a tranquillizzarla. "Parlerò io con loro: vedrai che mi daranno ascolto".
Lei si ritrasse, decisa. "No, è inutile", disse. "Non permetterò che si faccia del male a nostra figlia. Andrò via domani stesso". Poi di nuovo scoppiò in un pianto dirotto, gli si buttò fra le braccia e nei singhiozzi soggiunse: "A meno che non siano loro a lasciare questa casa. Tina è grande ormai e può badare a se stessa e al fratello".
"Ma come posso fare! ?" protestò l'uomo, visibilmente scosso, lisciandole teneramente i capelli.
"Puoi abbandonarli nel bosco", suggerì lei e, sentendo che l'uomo si irrigidiva, si affrettò a soggiungere: "Sono cresciuti ormai, e se sono venuti su ribelli e irresponsabili la colpa è anche mia che li ho sempre viziati". Lo guardò dritto negli occhi, a sollecitargli un rimprovero o forse ad attestargli la sincerità dei propri sentimenti. "È nel loro interesse porli al cospetto delle difficoltà della vita", argomentò; "e tu sai quanto male mi faccia, a me che li ho amati come figli". E pianse ancora più forte, disperata e indifesa.
L'uomo, a cui quel pianto doleva in petto, sospirò rassegnato. "Farò come vuoi", concesse. "Domani li accompagnerò nel bosco. Ma ora non piangere, ti prego. Il tuo dolore mi rattrista".
Intanto Tina, consapevole che si stava tramando contro di loro, bocconi sul letto, piangeva in silenzio. Lino invece, che pur si era insospettito per l'insolito comportamento della matrigna, era sgusciato fuori dalla stanza e si era portato dietro l'uscio della camera da letto dove si era trattenuto ad origliare. Aveva così udito ogni cosa. Senza farne parola con la sorella, corse in cucina e riempì le tasche di cenere del focolare, dopo di che andò a letto vestito.
Il giorno successivo il padre li destò che albeggiva, invitandoli a seguirlo nel bosco a raccogliere legna. Si incamminarono in silenzio nel mattino freddo e lattiginoso. L'uomo li precedeva a lunghi passi, taciturno, incupito. Tina gli si manteneva dappresso, sopraffatta da un senso d'angoscia, intimorita dal suo tetro mutismo. Lino li seguiva facendo fatica a tener loro dietro nel terreno impervio e fradicio dell'umidità della notte, tuttavia non trascurava di lasciarsi alle spalle una sottile traccia di cenere che di volta in volta attingeva dalle tasche.
Dopo aver a lungo camminato, quando furono dove più fitta era la vegetazione, il padre ordinò loro di fermarsi e di attenderlo ché egli sarebbe andato in cerca del posto migliore per raccogliere fascine. Il tono era perentorio. I ragazzi capirono che a nulla sarebbe servito protestare; sedettero ed in silenzio si disposero all'attesa.
Passarono le ore e Lino cominciò ad avvertire i morsi della fame. "Voglio mangiare", piagnucolò, rompendo il lungo silenzio carico di sospetto e di oppressione.
Tina si scosse. Ormai era certa che erano stati abbandonati, ma non osava parteciparlo al fratellino. Era lei la più grande, doveva farsi forza e provvedere a lui. Si alzò e prese a raccogliere fragole, more, lamponi, tutto ciò che di commestibile le capitava sotto mano, ed ogni cosa offriva al bambino che mangiò avidamente fino a saziarsi.
Intanto le ombre della sera cominciavano ad addensarsi sul bosco.
"Ho freddo", disse Lino.
Lei lo strinse, tremante, a sé per riscaldarlo col proprio corpo.
"Ho paura", egli prosegui lamentoso. "Non ti preoccupare", cercò di fargli coraggio Tina. "Ci sono qua io a proteggerti".
Ma il bambino non voleva intendere ragioni e continuava a frignare: "Ho paura. Voglio tornare a casa".
"Non possiamo", lei disse, cercando di farlo ragionare. "Non conosciamo la strada del ritorno e, prima o poi, vedrai che nostro padre tornerà a prenderci".
"Ma io la conosco", lui disse.
Tina lo guardò, incredula eppure animata da improvvisa speranza. "Come puoi conoscerla?" chiese.
Lino, esitante per il timore che gli venisse rimproverato l'espediente adottato, confessò: "Ho lasciato cadere una traccia di cenere lungo il cammino".
Tina lo abbracciò e lo baciò in un impeto di riconoscenza e, ridendo di gioia, improvvisamente libera dall'oppressione che le aveva gravato l'animo, prese a seguire di corsa la labile traccia, trascinandosi dietro il fratellino che teneva per mano.
Quella sera, in casa, la tavola era insolitamente imbandita. C'era di tutto, dal prosciutto ai fichi secchi, dalla frittura di patate e carne al formaggio pecorino, dal pane di mais con uva passa alle nocciole, ma l'uomo non aveva toccato quasi nulla, oppresso dal rimorso e tormentato dal pensiero dei figli abbandonati nel bosco. Eppure, quando si spalancò l'uscio ed i ragazzi, pavidi, laceri, affamati apparvero sulla soglia, non si senti affatto sollevato e non osò guardare in viso la moglie di cui avvertiva le occhiate sospettose ed infuriate. Comunque, in un silenzio carico di tensione, si lasciò che i bambini mangiassero con voracità e, satolli, si ritirassero nella loro stanza a dormire.
Quando furono di nuovo soli, Elvira ruppe il silenzio per rivolgersi al marito in tono astioso e accusatorio. "E questo come lo spieghi?" domandò.
Egli allargò le braccia in un gesto di sconforto. "Devi credermi", farfugliò. "Ho fatto tutto come mi avevi chiesto. Li ho lasciati nel bosco e non capisco come possano essere tornati".
Stava per aggiungere altro, ma lei lo fermò con atteggiamento gelido e perentorio. "Non mi interessano le tue ragioni. Fa' in modo che sin da domattina spariscano per sempre da questa casa". Ciò detto si ritirò nella stanza da letto, sbattendo la porta che richiuse a chiave.
Dopo una notte insonne trascorsa seduto, immobile presso la tavola lasciata ingombra, il volto serrato fra le mani quasi a contenerne la muta angoscia, l'uomo accese il fuoco e destò i ragazzi che albeggiava, invitandoli a seguirlo. Lino, insospettito, fece per raccogliere un po' di cenere, ma il fuoco ardeva violento nel camino. Si guardò allora intorno, ansioso, e, adocchiato il sacco della crusca, di soppiatto se ne riempì le tasche.
In cammino attraverso il bosco, come il mattino precedente, non visto, il bimbo provvide a segnare con la crusca la strada percorsa così che, alcune ore dopo, quando il padre raccomandò loro di attenderlo assicurando che sarebbe tornato di li a poco, egli potette lanciare un'occhiata rassicurante alla sorella.
Appena soli i ragazzi si misero alla ricerca della traccia, ma non tardarono a scoprire che la crusca era stata tutta asportata dalle formiche. La disperazione si impadronì di loro. Cominciarono a vagare senza meta, seguendo sentieri presto soffocati dalla fitta vegetazione, aprendosi a fatica il varco fra i rovi, guadando torrenti che si illudevano di riconoscere e a cui attribuivano, con sempre minor convinzione, nomi familiari.
Si accasciarono al suolo, esausti, affamati, solo quando la notte inghiottì gli alberi e destò il volo delle civette e dei gufi. Si avvinghiarono l'uno all'altra e, tremanti, si disposero a trascorrere la notte all'addiaccio, sussultando ad ogni fruscio, stringendosi ancor più con vigore ad ogni gemito, ad ogni battito d'ali, ad ogni scricchiolio. Poi, d'improvviso, a distanza, una tenue luce tremolò nella notte. Tina la indicò al fratello.
"Lì c'è qualcuno", gli disse. "Te la senti di camminare ancora un poco? Laggiù troveremo riparo e forse non ci negheranno un pezzo di pane".
Il bambino era allo stremo delle forze, tuttavia si levò in piedi e si incamminò dietro di lei. La sterpaglia ne ostacolava il cammino, i pruni penetravano le carni, le felci umide elargivano gelide carezze, eppure loro proseguivano, scivolando e rialzandosi, senza un gemito di dolore, verso quella luce flebile, sempre lontana ed irraggiungibile. "Ho sete", piagnucolò Lino ad un tratto.
"Laggiù potrai bere", gli promise la sorella. "Cammina e non parlare".
Il bambino si concentrò nello sforzo, ma l'ansimo gli essiccava la bocca, gli bruciava in gola. "Ho sete", supplicò in un lamento ancor più fievole.
"Cammina", lo esortò la sorella, prendendolo per mano e trascinandolo. Mala luce appariva sempre debole e lontana.
Procedettero in silenzio finché non intesero uno scroscio d'acqua davanti a loro e Lino, divincolatosi dalla presa della sorella, corse avanti e fu presso una fonte che sgorgava da una roccia. "Aspetta", lo fermò Tina preoccupata, ricordando i racconti degli anziani a proposito di fonti stregate disseminate per il bosco. "Potrebbe essere non buona".
"Ho sete", egli insistette e stava per avvicinare la bocca al getto d'acqua, mala ragazza lo afferrò per le spalle e lo tirò indietro.
"Fontana, fontanella", interrogò, "se beve mio fratello, cosa succede?"
"Diventa una lepre", rispose una voce argentina che sembrava sgorgare direttamente dalle viscere della terra.
Sorpreso e contrariato, Lino lasciò che la sorella lo trascinasse via, mala sete lo ossessionava, acuiva la fatica. Sempre guidati dalla flebile luce camminarono ancora a lungo finché giunsero presso una seconda fontana. Anche qui la ragazza trattenne il bambino a viva forza, anche qui interrogò: "Fontana, fontanella, se beve mio fratello cosa succede?"
Come prima una voce remota le rispose: "Diventa un'oca".
Ripresero il cammino che Lino impuntava ormai i piedi, gemeva, si appellava alla pietà di lei che lo trascinava irremovibile e, dopo tanto, furono presso una terza fontana. Ancora Tina domandò:
"Fontana, fontanella, se beve mio fratello cosa succede?"
"Diventa un agnello", fu la risposta; ma il bambino, vinto dall'arsura, si liberò con uno strattone dalla presa della sorella e, prima che questa potesse fermarlo, offrì al getto d'acqua la bocca spalancata e bevve a lungo, avidamente.
L'incantesimo si compi. Lino fu tramutato in agnello. Tina scoppiò in un pianto dirotto, abbracciò la bestiola, la scosse quasi a volerle strappare di dosso il morbido vello, supplicò la fontana, ma tutto fu vano. L'agnello le strofinava il musetto umido sulle guance e con la lingua ne tergeva le lacrime nel tentativo di consolarla. La ragazza pianse a lungo finché comprese che era inutile continuare a disperarsi. La notte era ancora lunga e la luce appariva lontana. Si asciugò le lacrime col dorso della mano, tirò su col naso e, seguita dall'agnellino, riprese il cammino.
Cominciava ad albeggiare quando attraversarono il vasto parco fiorito sotto lo sguardo fiero di enormi statue che fiancheggiavano il viale ghiaioso, salutati dal chiassoso risveglio degli uccelli e dallo scroscio armonioso di cento' fontane a zampillo. La luce che li aveva guidati filtrava da una delle finestre del meraviglioso palazzo, ornato di colonne di marmo, che si stagliava al disopra delle chiome di alberi secolari.
Il portone era in robusto rovere scolpito con scene di caccia. Soggezionata, intimidita da tanta ricchezza eppure resa audace dalla stanchezza e dalla fame, Tina bussò ed attese. Una cameriera venne ad aprire.
"Cosa desiderate?" le domandò.
La ragazza si guardò i vestiti laceri e sporchi, le gambe e le braccia graffiate dai rovi, le carni illividite dal freddo e, incapace di una qualsiasi risposta, scoppiò in un pianto disperato.
Commossa, la cameriera la prese per mano e la introdusse nel salone che fungeva da atrio, lasciando che l'agnellino la seguisse. "Aspetta qui", le raccomandò. "Ora avverto il padrone. È una persona molto buona, vedrai che ti aiuterà".
Tina smise di piangere, rincuorata. Appena sola, si guardò intorno, stupita. Un grosso lampadario pendeva dal soffitto e la luce veniva diffusa dallo sfavillio di gocce sfaccettate di cristallo, alle pareti teste di cervi e di cinghiali, in terra un soffice tappeto con esotiche rappresentazioni, disposti in bella mostra su mobili laccati o intarsiati anfore d'argento e vasi decorati in oro, e in fondo una scala imponente, tutta in marmi pregiati, che conduceva ai piani superiori.
Dall'alto di essa una voce gentile la richiamò alla realtà. "Chi siete?" la interpellò. Era un giovane alto e forte, dai lunghi capelli neri e dallo sguardo dolce e comprensivo.
Lei si curvò in un inchino impacciato e goffo. "Scusatemi", disse. "Mi sono smarrita nel bosco e sono così stanca. Vorrei ospitalità per qualche giorno". Poi, temendo di aver osato troppo, si affrettò a soggiungere: "Mi basta un cantuccio nella stalla ed un pezzo di pane. Lavorerò per compensarvi del fastidio della mia presenza".
Il giovane sorrise bonario e schioccò le dita: la cameriera accorse. "Accompagna la signorina in una delle stanze degli ospiti ",ordinò. "Dalle dei vestiti puliti e fa' in modo che venga lavata e rífocillata".
Tina avvampò in viso, grata, confusa da tanta magnanimità, ma temette che la separassero dall'agnellino. "Signore, vi ringrazio", disse, "ma non voglio abusare della vostra bontà. Mi è sufficiente un cantuccio nella stalla, anche perché per nessuna ragione al mondo mi separerei dal mio agnellino".
Egli sorrise di nuovo, condiscendente. "Non temete", la tranquillizzò: "Nessuno vi toglierà la vostra bestiola". Poi, rivolto alla cameriera: "Fai in modo che nella stanza della signorina venga allestito un angolo adatto ad ospitare il suo agnello".
Commossa, la ragazza gli si buttò ai piedi, gli afferrò entrambe le mani e gliele baciò a lungo fra le lacrime.
Passarono i giorni. Tina trascorreva il suo tempo facendo delle lunghe passeggiate nel parco, sempre accompagnata dall'amato agnellino. Ora indossava dei vestiti lussuosi che le sarte avevano appositamente cucito per lei ed era rispettata e riverita dalla servitù che, per la sua mitezza, per la sua bontà d'animo, le manifestava un profondo affetto.
Alderigo, era questo il nome del giovane signore del castello, si intratteneva volentieri con lei. Era bella Tina, soprattutto ora che aveva ritrovato la propria serenità, ed il giovane non tardò ad innamorarsene.
Fu una sera, nel parco, in cui erano rimasti insieme, in silenzio, ad osservare il tramonto, che Alderigo le sfiorò i capelli con un bacio per poi sussurrarle in un orecchio: "Mi vuoi sposare?"
Per l'improvvisa emozione Tina non fu capace di profferire parola, però si infiammò in viso e gli occhi le si accesero di felicità e di gratitudine, sì che lui la strinse teneramente fra le braccia e la baciò a lungo sulla bocca.
Si sposarono e per loro iniziò una vita tranquilla e serena. Di solito sedevano nel parco oppure, in inverno, presso il fuoco del camino. Tina ricamava ed Alderigo le leggeva i versi degli antichi poeti o le leggende di popoli lontani e sconosciuti. Quando invece lui si concedeva una battuta di caccia, lei si spingeva fino ai casolari più remoti a far visita ai coloni, non trascurando di portar dolci o abitini per i figli di essi. Passarono gli anni e la notizia della fortuna toccata alla ragazza smarrita nel bosco e dello strano sentimento che la legava al suo agnello si diffuse per tutto il regno, sino a giungere all'orecchio di Elvira. Il folle sogno d'amore della donna si era infranto ben presto. All'infatuazione si era venuta gradualmente a sostituire l'insofferenza per la monotona quotidianità, gravosa di sacrifici. Sopraffatto dal rimorso, il marito aveva cominciato a bere, trascurando il lavoro, sicché in breve si era visto costretto a vendere il podere ed a contrarre debiti fino ad ipotecare la loro stessa dimora. Gli stenti esacerbavano gli animi. La miseria generava continui, violenti litigi. Ora poi che per Lisa si era fatta prossima l'età in cui avrebbe dovuto prendere marito, il rancore era acuito dalla disperazione di non possedere di che farle il corredo e costituirle una dote, tanto che i giovani del paese le giravano al largo.
Elvira íntuì che la ragazza di cui si diceva altri non doveva essere che la propria figliastra e che, di conseguenza, l'agnello non poteva essere che Lino, vittima di qualche sortilegio. Rosa dall'invidia e tentata di trarre vantaggio dalla situazione, non tardò a concepire un diabolico piano che trovò l'entusiasta condiscendenza di Lisa. Cucì alla figlia un vestito nuovo, le racimolò qualche provvista e le consigliò di mettersi subito in viaggio. Al momento del commiato le disse: "Se riuscirai nell'intento, fammi avere il cuore dell'agnello ed io capirò".
Lisa assicurò che non l'avrebbe delusa e, senza dir niente al padre, che oltretutto si interessava poco o nulla delle due donne, partì al seguito di una carovana di mercanti.
Dopo solo un giorno ed una notte di cammino, giunse al margine opposto del bosco e bussò al portone del lussuoso palazzo. Quando fu al cospetto della sorellastra, le si buttò fra le braccia. "Tina, sorella mia!" esclamò al colmo dell'emozione. "Quanto desiderio avevo di conoscerti. È da quando ho saputo di te e del nostro amato fratello che vi cerco in ogni angolo del regno".
Tina avvertì un tuffo al cuore. I ricordi dell'infanzia la investirono in un turbinio di sensazioni dolci e dolorose. Si fece forza per vincere la commozione. "Dunque sei Lisa!" arguì, visibilmente sorpresa ma contenta. Poi di nuovo il cuore le si colmò d'affetto e di rimpianto: "E nostro padre?" si informò. "Dimmi di lui. Sta bene?"
Lisa si fece triste. "È invecchiato, sai! Da quando siete scomparsi nel bosco non è stato più lo stesso uomo. Vi hanno cercato tanto lui e mia madre". Poi scosse il capo, come a liberarsi del peso di una pena antica e profonda. Arretrò di un passo per osservarla meglio. "Quanto sei bella!" esclamò ammirata. "Sei proprio come ti ho sempre immaginata". Esitò un istante. "Ma dimmi, che ne è stato di nostro fratello?"
Di colpo Tina si rattristò. Aveva a lungo tenuto in serbo il segreto dell'antico sortilegio ma con lei sapeva di non poter tacere. In fondo Lino era anche suo fratello e l'affetto che l'aveva spinta a cercarli le dava il diritto di conoscere la tragica verità.
Le raccontò tutto e Lisa pianse sconsolata. Neppure Tina riuscì a trattenere le lacrime, tuttavia dovette farle coraggio e alfine, quando si fu calmata, le cinse amorevolmente le spalle. "Vieni", le disse. "Ti mostrerò il palazzo. Questa sera poi ti farò conoscere Alderigo che ora è a caccia nel bosco. È un uomo buono, ti piacerà". Le fece visitare ogni stanza ed infine la guidò nei sotterranei dove invecchiavano vini pregíati. Una sola porta non le aprì: era di rovere massiccio, serrata con un robusto catenaccio di ferro.
"Cosa c'è di là?" si informò Lisa incuriosita.
Tina scosse il capo. "Non è prudente avvicinarsi a quella porta", confidò. "Da oltre un secolo vi è rinchiuso un feroce drago vinto dal trisavolo del mio sposo che comunque volle risparmiargli la vita, imprigionandolo. A nessuno è consentito varcare quella soglia".
"Un drago!" esclamò Lisa presa da improvviso entusiasmo, quasi infantile. "Da sempre ho desiderato vederne uno. Ti prego, sorellina, dischiudi quella porta, solo di poco, quanto basta a sbirciare dentro".
Tina cercò di farla desistere. "È pericoloso", disse. "Neppure io l'ho mai visto".
"Ti prego, sorellina!" insistette Lisa eccitata. "Solo una sbirciatina breve, te lo prometto".
Tina esitò indecisa. Paventava le tragiche conseguenze che avrebbe potuto comportare la sua trasgressione, ma nel contempo non se la sentiva di deludere la sorella appena ritrovata. Di malavoglia scelse dal mazzo una grossa chiave e piano, con prudenza, la girò nella toppa e, tendendo l'orecchio per cogliere un eventuale segno di pericolo, dischiuse la pesante porta. Con un balzo Lisa le fu alle spalle e con un violento spintone la fece ruzzolare oltre l'uscio che prontamente richiuse. Un ruggito inumano prevalse sulle grida d'orrore di Tina, e poi fu di nuovo silenzio. Lisa si fregò le mani soddisfatta, si volse per tornare sui suoi passi e nell'ombra colse lo sguardo dell'agnello colmo di impotente disperazione. Per nulla turbata, corse di sopra e si rifugiò nella stanza da letto che era stata di sua sorella, tirò le tende alle finestre e si infilò sotto le coltri, al buio. Nell'oscurità Alderigo non si sarebbe accorto della sostituzione e lei, confidando nelle subdole arti della seduzione di cui si sentiva naturalmente dotata, era certa di riuscire, anche in una sola notte di passione, ad ammaliare il cognato al punto che non avrebbe avuto rimpianti per la scomparsa della sposa. Di Tina avrebbe detto che era fuggita per il timore che gli si rivelasse il matricidio di cui si era macchiata. Solo l'agnello era stato testimone del misfatto, ma già aveva in mente di come disfarsene. Suonò il campanello. Alla cameriera che accorse disse di non sentirsi bene e chiese di non essere disturbata.
A sera, di ritorno dalla caccia, Alderigo non trovò la moglie ad attenderlo come era solita fare e se ne informò presso la servitù. Appena seppe che Tina stava male, corse di sopra e, preoccupato, sedette sul letto accanto a lei.
"Amore, cosa ti senti? Vuoi che ti chiami il medico?" la interrogò allarmato.
"No, no", rifiutò Lisa con un fil di voce, serrando ancor più le coltri sul capo.
"Cosa posso dunque fare?" insistette Alderigo premuroso. "Vuoi che ti faccia preparare un brodo caldo?" "No, ti prego, non parlarmi di brodo", implorò lei. "Sto male".
"Vuoi un po' di cacciagione?" egli suggerì. "Ci sono lepri e starne appena uccise"
"Non è cacciagione che desidero", lei gemette.
"Dimmi cosa vuoi. Metterò a soqquadro il regno perché tu guarisca!"
Lisa sospirò: "Sei molto caro", disse. Esitò un istante, quindi in tono rassegnato soggiunse: "Penso che possa giovare alla mia salute un pezzetto di cuore arrostito del mio agnello".
Alderigo apparve sconcertato. Era tale l'affetto che legava sua moglie all'animale che temette di averne frainteso le parole. "Il cuore del tuo agnellino, hai detto?"
"So che può sembrarti crudele", ammise lei, dolente, "ma purtroppo sento che è l'unico cibo che può ridarmi salute".
Alderigo non stette su a pensarci. La salute di Tina era la cosa più importante in quel momento. Chiamò i servi ed impartì loro l'ordine di sgozzare l'agnello e di metterne sulla brace una porzione di cuore.
Questi, sebbene stupiti, non osarono replicare. Si munirono di coltelli ed andarono alla ricerca dell'animale. L'agnello, come li vide, capì che stavano per ammazzarlo ed accadde il prodigio. Esso che non aveva mai emesso alcun verso, terrorizzato, inseguito, si dette alla fuga attraverso le stanze del palazzo implorando in un lamentoso belato: "Sorella, mia sorella, ora affilano i coltelli per ammazzare tuo fratello. Tu sei in bocca ad un dragone e non mi puoi salvare".
Fuggiva e ripeteva la sua angosciata invocazione finché non fu udito da Alderigo il quale, colto da atroce sospetto, fermò i servi, si precipitò giù nel sotterraneo, spalancò la pesante porta di rovere ed affrontò il drago in tono minaccioso.
"Restituiscimi la mia sposa se non vuoi che ti apra il ventre con la mia lama", intimò.
Il drago, intimidito dalla determinazione dell'uomo, spalancò le fauci e rigettò la povera Tina, sconvolta ma viva, che si rifugiò fra le braccia del marito narrandogli, fra i singhiozzi, l'inganno perpetrato dalla perfida sorellastra.
Pazzo di furore, Alderigo raggiunse di corsa la stanza da letto e si scagliò su Lisa che, ignara, se ne stava rannicchiata sotto le coltri, colpendola più volte col pugnale fino a finirla. Poi, non ancora placato, ridusse la ragazza in pezzi che introdusse in un sacco, ponendone il cuore in evidenza. Consegnò alfine il sacco al suo messaggero più veloce affinché lo portasse alla sarta quale dono di Lisa.
Elvira, alla vista del cuore, giubilò convinta che fosse dell'agnello e, per festeggiare il successo del suo criminoso disegno, lo mise senza indugio a cuocere.
Non aveva mai mangiato con tanto gusto. Attratta dal profumo appetitoso, la gatta accorse e le miagolò intorno, maligna, reclamando la propria parte. "Dammene un boccone che ti confido un segreto", propose; ma Elvira, stizzita, l'allontanò con una pedata.
Quando fu satolla, la donna si levò da tavola e prese a tirar fuori e a riporre i pezzi di carne finché, nel ritrovarsi la testa di Lisa fra le mani, inorridì e comprese di essere stata tremendamente punita per la sua malvagità.