Alla morte del padre, Furbino, che aveva da poco compiuto i diciassette anni, ereditò cinque ducati, ma né casa né terreni perché non ne avevano mai posseduti. Sua madre, ormai vedova ed ella stessa di salute cagionevole, a malapena riusciva a mettere insieme di che soddisfare le proprie più elementari esigenze, prestando saltuariamente opera di bracciante agricola. Di lavoro non ce n'era, così a Furbino, come già a tanti altri prima di lui, non rimase che lasciare il paese per le fertili terre della Puglia dove offrirsi garzone.
Dopo tanto girovagare, fu ad una fiera che conobbe don Cosimo, proprietario di una vasta tenuta, che cercava appunto un buon garzone che gli badasse alle pecore. Non tardarono a trovare un accordo. Don Cosimo, senza neppure il minimo tentativo di lesinare, gli riconobbe il diritto ad una giusta paga e si impegnò pure a vestirlo e a calzarlo con gli indumenti da lui smessi, oltre ai due pasti al giorno ed alla fiasca di vino, come era d'uso.
Don Cosimo era un tipo gioviale, dedito alla buona tavola a giudicare dalle fattezze arrotondate, scanzonato e burlone. Cavalcando alla volta del podere, volle sapere tutto di Furbino che lo affiancava a piedi, ed il giovane non trascurò nulla, confidando finanche dei cinque ducati ereditati.
"Ti piacerebbe raddoppiare il tuo capitale?" gli propose il massaro con un lampo divertito negli occhi, tentato dall'idea di gabbare il giovane gonzo. "E cosa dovrei fare?" si informò Furbino, prudente.
"Nulla di particolare", spiegò don Cosimo. "Se ti riuscirà di farmi perdere la pazienza ti corrisponderò altri cinque ducati".
"Ci sto", accettò Furbino entusiasta. "Bada, però", precisò il massaro, "che se sarò io a farti uscire dai gangheri sarai tu a rimetterci i tuoi cinque ducati".
"Per me va bene", confermò Furbino ed incrociò le dita a sugellare il patto. Il giorno dopo, alla masseria, don Cosimo svegliò al canto del gallo Furbino e l'altro garzone, Nicola, che pure aveva a servizio. A quest'ultimo ordinò di arargli il terreno ed a Furbino affidò il gregge di cento pecore perché lo conducesse al pascolo. "Questo è per la colazione", gli disse nel consegnargli una pagnotta fragrante e la fiasca del vino. "Puoi mangiare e bere a sazietà, purché riporterai indietro la pagnotta integra e la fiasca colma", chiarì, sicuro di provocare la reazione del ragazzo.
Ma Furbino non sollevò obiezioni. Ripose nella sacca il pane e la fiasca, spinse il gregge fuori dell'ovile e con esso si avviò verso il pascolo. A mezzogiorno sedette all'ombra di una quercia, mangiò, bevve e si concesse un lungo riposo, lasciando incustodite le pecore. Quando il sole calò oltre i monti, ricompose ciò che restava del gregge e fece ritorno alla masseria.
"Mancano delle pecore", notò don Cosimo che lo aveva atteso sull'aia.
Furbino rapidamente le contò. "Avete ragione", ammise. "Debbono essersene smarrite alcune. Non sarete in collera, spero!"
"Ma no", si affrettò a rassicurarlo il massaro. "Figurati, per qualche pecora! Piuttosto, hai riportato indietro la fiasca col vino ed il pane?"
"Ho avuto fame, don Cosimo", si giustificò Furbino. "Non è che vi abbia contrariato il fatto che ho mangiato il vostro pane e bevuto il vostro vino?" "Quali idee ti vengono per la testa, benedetto figliolo; hai fatto benissimo, anzi!" E ciò detto, si ritirò per lasciare che l'ira gli sbollisse al riparo da occhi indiscreti.
Il mattino successivo don Cosimo affidò il gregge a Nicola ed a Furbino consegnò un sacco di grano da seminare. Il lavoro l'avrebbe impegnato l'intera giornata e, nell'intento di fargli saltare i nervi, non gli dette nulla da consumare a colazione.
"Mangerai al ritorno", gli disse. "E bada che i chicchi siano ben coperti dal terreno in modo che non possano essere asportati dagli uccelli".
Furbino si caricò il sacco in spalla e raggiunse l'area da seminare. Qui scavò una profonda buca, vi rovesciò il contenuto del sacco e ricoprì i semi con uno spesso strato di terra. Non era ancora mezzogiorno quando fece ritorno alla masseria e reclamò la sua razione di cibo.
"Possibile che tu abbia già terminato!?" si stupì don Cosimo.
"Nessun uccello potrà mai mangiare quel grano", assicurò Furbino. "L'ho sotterrato in una buca così profonda che nemmeno le talpe vi possono arrivare".
"E ti pare questo il modo di seminare?" lo rimproverò il massaro, visibilmente contrariato.
"Non ne conosco altro", si scusò il garzone. "Ma se per caso ho sbagliato, voglio sperare che non ve la siate presa a male".
"Che vuoi che sia un sacco di grano", minimizzò don Cosimo ma, sentendosi incapace di dominare la collera, si allontanò in tutta fretta.
Troppi danni gli stava procurando quel gonzo. Doveva assolutamente piegarlo, indurlo anche ad un semplice moto di dispetto, non tanto per i cinque ducati, ché venale non era, ma per non dover ammettere di essere stato gabbato da un garzone. Raggiunse Nicola in collina, dove era intento a sorveglia
re il gregge, e senza preamboli gli chiese di indagare su cosa maggiormente irritasse Furbino, promettendogli in cambio dell'informazione qualche carlino di mancia.
Quella stessa sera, a letto, Nicola provò ad interrogare il collega ma, sospettandolo persona astuta, prese il discorso alla larga. "Fortuna che non russi", disse. "Quelli che russano mi mandano addirittura in bestia, sai! Non ci riesco a dormire la notte". Parve riflettere un istante. "E a te, cosa ti indispettisce?" domandò poi in tono discorsivo.
"Sono paziente", rispose Furbino. "Nulla riesce ad írritarmi".
"Ma va"', ribatté Nicola scettico. "Deve pur esserci qualcosa che ti fa perdere le staffe".
"Le staffe proprio no", ribadi Furbino. "Un po' di paura, forse... Qualcosa che mi fa paura c'è", ammise alfine, riluttante.
"E cosa può essere mai?" lo canzonò Nicola.
Furbino esitò, a disagio. "So che può sembrare sciocco, ma quell'animale che di notte fa cucù..., ebbene, quello mi terrorizza", confessò.
Nicola rise. "Ma quello è il cuculo. È solo un uccelletto innocuo!"
"E con questo?" si risentì Furbino. "C'è chi ha paura dei topi, chi degli scarafaggi, e a me quel coso, come hai detto tu, mi fa venire la pelle d'oca. Se dovessi sentirne il verso, solo, di notte, son convinto che impazzirei".
Il mattino successivo Nicola riferì a don Cosimo quanto Furbino gli aveva confidato. Il massaro ne fu soddisfatto. Se proprio non c'era verso di spuntarla col garzone, almeno se ne sarebbe liberato evitandosi ulteriori danni. L'occasione propizia gli era offerta dall'invito alle nozze di una lontana parente che abitava in un villaggio oltre i monti. Aveva programmato di mettersi in cammino all'alba del giorno dopo ma, al fine di mettere in pratica il piano che avrebbe indotto Furbino a lasciare precipitosamente la casa, avrebbe finto di anticipare la partenza a quella stessa sera.
Così, subito dopo il tramonto, sellò la giumenta, quindi chiamò Furbino e gli disse: "Debbo assentarmi per qualche giorno per le nozze che sai. Nicola mi farà compagnia nel viaggio, pertanto la masseria e gli animali restano affidati a te. Bada che al mio ritorno sia tutto in ordine, così come lo lascio, perché se mi infurio non ti negherò certo i cinque ducati, ma non so se ti resterà la voglia e la salute per goderteli".
"Andate tranquillo ché ai vostri averi ci starò attento come fossero miei", assicurò Furbino.
Il massaro montò a cavallo e, seguito a piedi da Nicola, partì. Percorse poche centinaia di metri, però, lasciò il sentiero e si inoltrò in un boschetto dove arrestò la giumenta, e qui attese la notte.
Quando fu buio fitto, don Cosimo propose a Nicola: "Vuoi guadagnarti un altro carlino?"
"Come no, padrone!" accettò Nicola. "Ebbene non hai che da salire sul fico davanti alla masseria ed imitare il verso del cuculo fino a quando quello sciocco non sarà scappato di casa".
Nicola, eccitato e contento per la burla ordita dal massaro, sgattaiolò silenziosamente attraverso i campi ed andò ad appollaiarsi sul ramo più alto del fico. Poi, ampliandone il suono fra le mani, cominciò ad emettere, ad intervalli regolari, il lugubre verso dell'uccello.
Furbino si destò di soprassalto e prese a tremare per la paura. Il primo istinto fu di darsela a gambe, ma ricordando le minacce del padrone, nel timore di lasciare la casa incustodita, febbrilmente si impegnò a cercare una diversa soluzione. Ricordò alfine di aver visto un grosso fucile da caccia alla parete della cucina. Vi corse, lo imbracciò e, portatosi alla finestra, esplose un colpo in direzione del fico. Gli fece eco un rumore di rami spezzati ed un tonfo.
"Disgraziato, che hai fatto! " urlò dalla tenebra, sconvolta, la voce di don Cosimo, e l'uomo apparve sull'aia correndo ed agitando le braccia.
Sorpreso, confuso, Furbino venne fuori. "Hai ammazzato Nicola", gli gridò don Cosimo in preda alla disperazione. "Per quale sventura mi sei capitato fra i piedi. Ora finiremo in galera".
Passato il primo attimo di sgomento, Furbino non tardò a riprendere il controllo della situazione. "Don Cosimo", disse, "ci conviene metterci subito in cammino per quel matrimonio. Quando il corpo di Nicola sarà rinvenuto, potremo sostenere che eravamo lontani al momento del fattaccio e che lui era stato lasciato a badare alla casa durante la nostra assenza".
"Credo sia la soluzione migliore", convenne il massaro e si affrettò verso la giumenta che aveva tenuto nascosta. Furbino rientrò in casa, ripose il fucile, si vestì in tutta fretta e, prima di uscire, agguantò una pagnotta che nascose sotto la camicia. Don Cosimo lo attendeva a cavallo e senza indugio partirono.
Procedettero per alcune ore in silenzio. Furbino seguiva a piedi la giumenta su cui don Cosimo, a tratti, cedeva al sonno. Aveva rimuginato a lungo sugli eventi delle ultime ore, riconsiderando fatti e circostanze, fino ad acquisire la totale certezza della propria íncolpevolezza. Ciò lo aveva rimesso in pace con la propria coscienza.
Ai primi albori, quando il freddo si fece più pungente, il massaro fu scosso da un brivido che lo destò del tutto. Sentì le membra indolenzite per la lunga, scomoda immobilità ed il conseguente bisogno di smontare da cavallo per sgranchirsi le gambe. "Sarai stanco, Furbino", considerò. "Ti lascio per un tratto la cavalcatura".
"Non che sia stanco", puntualizzò il garzone, "ma se viva di camminare un poco, sarebbe da stolti lasciare inutilizzata la giumenta".
Le salì in groppa e, siccome cominciava ad avvertire i morsi della fame, le serrò i talloni contro i fianchi per accelerarne l'andatura, sì da distanziare il massaro a mangiare inosservato un boccone. Ma pure l'animale era stanco e malvolentieri obbediva alle sollecitazioni, così a don Cosimo, che si affrettava a tenerne il passo, non sfuggirono le furtive manovre del garzone. "Che mangi, Furbino?" gli domandò. "Che volete che mangi, don Cosimo! " sospirò il ragazzo rassegnato. "È solo una manciata di fieno che ho preso dalla sacca della giumenta".
Proseguirono ancora un poco in silenzio e a don Cosimo, stimolato dalla vista di Furbino che continuava a sbocconcellare, il languorino destatogli dall'aria frizzante del mattino non tardò a trasformarsi in irrefrenabile appetito.
"Ma è proprio fieno che stai masticando da un'ora?" volle sincerarsi.
"E che volete che mangi, padrone: non c'è altro!"
"Ma... che sapore ha?" indagò il massaro.
"Non male", rispose Furbino. "Un po' duro, forse; ma basta masticare a lungo e alla fine va giù".
Seppur riluttante, don Cosimo affiancò la giumenta e, dalla sacca che pendeva a lato della sella, prelevò alcuni fili di fieno che prese a triturare con forza fra i denti. Erano duri, coriacei e dal sapore maleolente, tuttavia, visto che Furbino ne mangiava, con uno sforzo riuscì a deglutirne qualche boccone.
Giunsero al villaggio in anticipo, così ebbero modo di intrattenersi a salutare i parenti ed a conversare con qualche conoscente prima di assistere alla cerimonia nuziale in chiesa. Don Cosimo era tormentato dai morsi della fame ed attendeva con impazienza il momento di sedere a tavola, mentre invece Furbino, che si era rimpinzato a dovere, appariva allegro e vivace e non perdeva occasione per frenare il corteo, ora invitando gli astanti che vi facevano ala a congratularsi con gli sposi, ora suggerendo di rallentare il passo perché una sposa sì bella aveva il dovere di mostrarsi e di essere ammirata.
A1 momento di mettersi a tavola, Furbino fermò don Cosimo sull'aia dove era stata collocata una botticella di vino a disposizione degli ospiti, invitandolo ad un brindisi. Il vino tacitava i morsi della fame e don Cosimo ne tracannò un intero boccale. Avrebbe voluto unirsi subito agli altri conviviali, ma tanto il garzone lo indusse a indugiare con nuove offerte di vino che la madre della sposa dovette venir fuori a sollecitarli.
"Nemmeno a parlarne", si affrettò a rifiutare Furbino. "Abbiamo pranzato e al solo pensiero del cibo ci dà di volta lo stomaco".
Don Cosimo gli rivolse una truce occhiata ma, temendo di tradire la propria collera, subito la mutò in una smorfia che voleva apparire un sorriso. "Abbiamo mangiato lungo il cammino", confermò. "Comunque, per far piacere agli sposi..."
"Ma che dite, don Cosimo!" lo interruppe Furbino. "Gli sposi non se ne avranno a male. Piuttosto si sentirebbero in colpa se ci sacrificassimo per contentarli". Si rivolse alla donna: "Fate come se non ci fossimo", la tranquillizzò. "Noi non chiediamo di meglio che restarcene qui al fresco a gustare di questo vino che sembra uscito dalla cantina del re".
La donna trovò scortese insistere. "Se è così che preferite...!" concesse in tono di resa, affrettandosi a rientrare. Restarono soli. Don Cosimo, roso dalla rabbia, tormentato dalla fame, ossessionato dagli odori appetitosi che si propagavano dalla cucina, si sforzava di sorridere a Furbino che il vino rendeva loquace. L'allegro schiamazzare dei commensali ed il rumore delle stoviglie che sottolineavano il susseguirsi delle portate tennero loro compagnia per l'intero pomeriggio, che al massaro parve interminabile.
A pranzo ultimato, si ballò fino a tarda notte sull'aia, e le rare offerte di dolci e frutta secca furono prontamente respinte dai convitati sazi fino alla nausea. Finalmente gli ospiti, esausti, brilli, sciamarono, e venne il momento di andare a dormire.
A don Cosimo e al suo garzone fu assegnata una camera con un unico grande letto, adiacente alla stanza degli sposi. Furbino, spossato per la notte insonne, non perse neanche tempo a svestirsi e si lasciò cadere bocconi sul materasso, rimanendovi immobile. Al massaro, invece, il vino ingerito gli si rimescolava nello stomaco vuoto, procurandogli crampi e fitte che gli toglievano ilsonno.
"La fame mi impedisce di dormire", sussurrò a Furbino; ma questi non si mosse, e probabilmente non lo udì neppure.
Allora don Cosimo lo scosse, dapprima con delicatezza, poi sempre con maggior vigore. "Ehi, Furbino, ho detto che ho fame!"
"Non vi è bastato il fieno?" si lamentò il garzone con voce impastata.
"Non ne ho mangiato quanto te", gli fece notare don Cosimo. "Sai per caso se è superato qualcosa?"
"Nel forno", bofonchiò Furbino, rigirandosi su di un lato. "Mi sembra che la padrona vi abbia riposto una porzione di torta".
"Ne mangerei volentieri!" sospirò il massaro. "Tu che hai visto, perché non vai a prenderne un pezzo?"
"Scherzate, don Cosimo", si risentì Furbino, allarmato dall'assurdità della richiesta. "Dimenticate che io sono solo un garzone e, se dovessero sorprendermi, non esiterebbero a darmi del ladro. Voi, piuttosto, come parente...!"
"Hai ragione", convenne don Cosimo. "Di me non direbbero nulla, anche se mi seccherebbe essere sorpreso in mutande aggirarmi per casa".
"Chi volete che se ne accorga se agite in silenzio ed evitate di accendere il lume?"
"Dici bene tu", obiettò il massaro perplesso; "ma poi, al buio, come farei a ritrovare la camera?"
"Di questo non dovete darvi pensiero", lo rassicurò Furbino. "Nella mia sacca, in terra, deve esserci un gomitolo di spago. Èsufficiente che ne assicuriate un'estremità al letto e ne srotoliate il resto fino alla cucina. In questo modo il ritorno vi risulterà più facile che l'andata".
"Sei in gamba, ragazzo", si complimentò don Cosimo. "Andrebbe anche a te un pezzo di torta?"
"Grazie, don Cosímo", accettò di buon grado il garzone. "Perla verità anch'io comincio ad avvertire un vuoto allo stomaco".
ll massaro legò un capo della cordicella alla spalliera del letto e, in punta di piedi, trattenendo finanche il respiro, si allontanò, al buio, verso la cucina. Furbino, ben desto, gli concesse appena il tempo di uscire che lasciò il giaciglio, sciolse in fretta il nodo appena fatto e, portandosi dietro l'estremità dello spago, si introdusse nella stanza adiacente dove l'assicurò al letto degli sposi, per far subito dopo ritorno alla propria camera.
Di lì a poco, guidato dal filo, don Cosimo tornò reggendo il piatto con la porzione di torta destinata al garzone. "Furbino", chiamò sottovoce, appena tastò il materasso; ma non ebbe risposta. "Furbino", ripeté, inutilmente. Allora lo scosse e chiamò più forte: "Furbino", ma un urlo di spavento gli fece eco e il letto si animò di un dimenio frenetico di corpi e di braccia. Don Cosimo ne fu investito e la torta gli schizzò di mano. Da ogni angolo della casa si levarono urla, imprecazioni, bestemmie e l'accorrere precipitoso di passi.
Finalmente qualcuno accese un lume e, in camicioni o in mutande, si ritrovarono tutti a contornare la sposa, frastornata, sconvolta, col volto impiastricciato di torta. Non poco si faticò per chiarire l'equivoco.
Paonazzo per la collera, don Cosimo considerò Furbino che, in disparte, mal celava la propria soddisfazione. "Sei un figlio di cagna", gli sibilò fra i denti.
"Stavolta ve la siete presa sul serio, padrone", commentò Furbino gongolante.
Il massaro si astenne dal replicare. Pagò i cinque ducati e, sopraffatto dallo scorno, andò a chiudersi in camera.
Al chiarore delle stelle, la vecchia sacca sdrucita a tracolla, Furbino si mise in cammino, fischiettando allegramente, in cerca di un nuovo padrone e, perché no, di una nuova opportunità di raddoppiare il suo piccolo tesoro.