Quando sua madre morì, Graziella aveva diciassette anni.
Era stata una donna minuta, sua madre, e malaticcia, tanto che destava meraviglia che avesse messo al mondo una figlia, oltretutto bella e in salute. La sua era stata una lunga agonia e, quando alfine aveva sentito che la vita stava per sfuggirle, consapevole di lasciare un marito ancora giovane, spinta dall'assurda illusione di poter così continuare a restargli vicina, lo aveva chiamato a sé per raccomandargli di sposare esclusivamente la donna che fosse stata in grado di calzare le sue scarpette, quelle che si era fatte confezionare per il giorno della Pasqua a cui non sarebbe arrivata.
Trascorso l'anno di osservanza del lutto, come il costume del tempo imponeva, l'uomo si era messo alla ricerca della donna ai cui piedi si fossero adattate le scarpe; ma dopo vani tentativi condotti per contrade lontane, sfiduciato, si era rintanato in casa, rifiutandosi di vedere sinanche gli amici.
Ormai trascorreva i suoi giorni chiuso in un assorto mutismo. A volte Graziella lo sorprendeva, immobile, a considerare con risentimento quelle minuscole scarpine contro cui si infrangeva ogni sua legittima aspirazione ad una nuova compagna che ridesse senso alla sua esistenza. La ragazza allora si provava a parlargli, a scuoterlo, ma egli rimaneva irraggiungibile, estraneato nel suo assillo.
Un dì che Graziella, dovendo uscire, inavvertitamente aveva calzato le scarpe della madre, per l'uomo, ormai ossessionato dal pensiero di una nuova sposa, fu quello un segno del destino. Si levò in piedi, folgorato, eccitato, e la rincorse fin sulla soglia dell'uscio. "Hai messo le scarpe di tua madre", le fece notare.
Lei si guardò i piedi, mortificata, timorosa di avergli involontariamente arrecato altro dolore. "Scusami, papà. Non me ne ero resa conto". Fece per sfilarle, ma quello la fermò.
"Tienile pure", la esortò. "Ormai ti appartengono perché sarai tu la mia sposa".
Graziella rimase allibita. La follia di suo padre non aveva più limiti. Disperata, corse presso la tomba della madre e qui, fra le lacrime, le mosse un accorato rimprovero: "Maleretta, mamma, ca le risti so consiglio; come no padre se po'sposa' na figlia!?[1]
Una voce stanca e amareggiata si levò dalle viscere della terra. "Non piangere, Graziella", le disse. "Per il tuo consenso alle nozze, chiedi che ti faccia confezionare un vestito ricoperto di campanellini d'oro".
Rasserenata, Graziella tornò a casa e pose al padre la propria condizione. Sebbene l'uomo non disponesse dei mezzi necessari, accettò. La sua smania ossessiva lo aveva reso disposto a tutto pur di raggiungere il suo scopo. Si appartò in un boschetto di noccioli e, attesa la mezzanotte, invocò il diavolo.
Questi gli si manifestò fra esalazioni di zolfo e saettanti lingue di fuoco. "So bene cosa vuoi dame", dichiarò prima ancora che l'uomo potesse profferire parola; "ma cosa sei disposto a darmi in cambio?"
"La mia anima", propose quello senza esitare.
L'apparizione si dissolse, lasciando al suo posto un abito vaporoso, guarnito di campanelli d'oro che la luna accendeva di riflessi e l'alitare del vento animava di armoniosi tintinnii.
Esultante, l'uomo corse ad offrirlo alla figlia. Graziella, sconvolta, attese il giorno per tornare presso la tomba della madre dove, come la prima volta, pianse:
"Maleretta, mamma, ca le risti so consiglio; come no padre se po' sposa' na figlia!?"
"Chiedi un nuovo vestito", suggerì la voce dall'oltretomba, "che sia intessuto di raggi di sole e di luna".
Neppure questa nuova richiesta impensierì il folle padre che promise di soddisfarla quella stessa notte. Evocò il diavolo e questi gli chiese quale prezzo fosse stato disposto a pagare.
"Avrai l'anima della mia sposa", egli assicurò, ed in cambio ottenne un meraviglioso vestito che, pur essendo del pallido candore della luna, irradiava la luce calda e dorata del sole.
Non rassegnata, Graziella, per la terza volta, si recò a lamentarsi sulla tomba della madre:
"Maleretta, mamma, ca le risti so consiglio; come no padre se po' sposa' na figlia!?"
"Figlia mia", la voce le giunse addolorata e fioca, soffocata da un'angoscia profonda più che dallo spesso strato di zolle, "dal momento che tuo padre non desiste dal suo folle proposito, non ti rimane che chiedergli un vestito fatto di pelle d'asino, che aderisca perfettamente al tuo corpo. C'è da sperare che, una volta che l'avrai indossato, trovandoti repellente, riesca a rinsavire".
Ma invano, il giorno successivo, indossato il grottesco costume, cercò nello sguardo del genitore un segno di repulsa. Tornò allora sulla tomba della madre:
"Maleretta, mamma, ca le risti so consiglio; come no padre se po' sposa' na figlia!?"
Un profondo sospiro venne fuori dal tumulo. "Fingi di acconsentire alle nozze", consigliò poi la voce, distante, stremata. "Durante il festino nuziale fa' in modo che beva abbondantemente, sì da renderlo meno vigile e sospettoso, quindi fuggi lontana, dove non gli sia più possibile trovarti".
Rientrata a casa, Graziella concesse al padre di fissare la data delle nozze. L'uomo ne fu felice. Pur nell'impossibilità di ottenere la consacrazione del vincolo da parte della Chiesa, non volle rinunciare a che la cerimonia assumesse il carattere fastoso e solenne che si addiceva a simile circostanza. Diramò gli inviti e, quando finalmente giunse il giorno in cui concretizzare l'unione, sgozzò polli e conigli e sturò la botte più grossa della cantina.
Graziella indossò per l'occasione un vestitino semplice, da lei stessa cucito, e, sebbene sollecitata, si rifiutò di calzare le scarpe della madre. Comunque, a tavola, pur preoccupandosi che il bicchiere di suo padre fosse sempre colmo di vino, finse un insolito buonumore, mostrandosi partecipe dell'allegria generale. Alfine, secondo tradizione, ballò con lo sposo e con gli invitati sino a notte inoltrata.
Quando tutti gli ospiti ebbero finalmente lasciato la casa, suo padre, brillo e malfermo, si ritirò in camera da letto. Graziella non lo seguì.
"Vieni", chiamò egli, impaziente.
"Non posso lasciare tutto questo disordine", si giustificò lei. "Dammi almeno il tempo di sciacquare i piatti". Il padre zittì, ma rimase in attesa, tendendo l'orecchio ad ogni rumore. Graziella si affrettò a riporre le sue cose in una sacca e si vestì della pelle d'asino. Legò poi per i piedi una coppia di colombi che lasciò a sguazzare nella tinozza allo scopo di far credere che fosse intenta a riasciacquare; quindi, furtivamente, si allontanò nella notte.
Camminò giorni e giorni, ovunque destando pietà e ripugnanza ed ottenendone di che sopravvivere, finché il suo casuale girovagare non la portò presso il palazzo del re. Col cuore colmo di speranza, pensò che lì suo padre non l'avrebbe cercata, così decise di offrire al monarca i propri servigi in cambio di cibo e di un tetto.
Era disgustosa nell'aspetto ed emanava un fetore nauseabondo tale che, benché assunta per carità cristiana, fu destinata alla cura dei porci, e come alloggio le fu assegnato un tetro ed angusto ripostiglio seminterrato, a tergo delle cucine. Nessuno si preoccupò di chiederle di dove venisse o come si chiamasse, e malignamente le fu affibbiato il nomignolo di Pellecchione[2].
Pellecchione trascorreva tutto il tempo fra il porcile e la sua stanza, senza mai separarsi dalla sacca in cui custodiva i preziosi vestiti, nel timore che qualcuno vi potesse frugare. Era evitata da tutti. Solo l'anziana cuoca, ormai esonerata dalle sue mansioni, non disdegnava la sua compagnia. Così, talvolta, quando l'intero palazzo era immerso nel sonno, la laida guardiana di porci si intratteneva in cucina con lei che si aggirava fino a notte fonda fra i fornelli spenti, a rimpiangere i tempi della sua giovinezza.
Dalla cuoca seppe del ballo che di lì a pochi giorni il re avrebbe dato a palazzo. Era giovane, Pellecchione, e, come a tutti i giovani, le piaceva ballare; così non seppe resistere alla tentazione e, quando fu il momento, dismessa la pelle d'asino, indossò la veste guarnita di campanelli d'oro e si presentò a corte.
Ammirata per la sua bellezza, contesa da nobili e cavalieri, ballò quasi esclusivamente col giovane principe che, al momento del commiato, le prese la mano e le infilò al dito un anello tempestato di diamanti. "Questo per ricordarti di non mancare al ballo del prossimo mese", le sussurrò in un orecchio.
Puntuale, il mese successivo Graziella si presentò a corte con indosso il vestito intessuto di raggi di sole e di luna. Era stupenda ed il principe non ebbe occhi che per lei. Ballarono insieme tutta la sera, senza nulla concedere alle torve occhiate di invidia ed agli acidi commenti delle damigelle e delle loro madri. Al termine della festa, il principe le mise al polso un bracciale d'oro con rubini incastonati. "Perché tu sappia che io sarò qui ad attenderti impaziente", le disse.
Ma Graziella non tornò più ai balli di corte. Si era innamorata del principe e ciò la faceva soffrire. Non era che una guardiana di porci ed i suoi sentimenti non potevano che offendere il giovane. La sola consolazione che si concedeva era ascoltare dalla vecchia cuoca i ricordi dell'infanzia di lui.
Molti mesi passarono e circolò la voce che il principe era intenzionato a prendere moglie, e a tal fine le nobili fanciulle del regno venivano convocate a corte perché egli potesse operare la sua scelta. Pellecchione ne provò un gran dolore, ma realisticamente dovette convenire che era assurda l'illusione che egli potesse restare per sempre vincolato al ricordo di una sconosciuta che aveva danzato fra le sue braccia. Ormai non le restava che disfarsi di quei pegni della sua ammirazione che aveva gelosamente custodito, se non altro per evitare che il loro possesso perpetuasse in lei sentimenti e sogni impossibili.
Rifletté a lungo ed alfine escogitò un sistema di restituzione che le consentisse di serbare l'anonimato. Preparò una torta, che guarnì con ricami di creme e fragole, ed in essa introdusse 1' anello.
"La offriresti al principe?" chiese all'anziana cuoca. "Puoi dirgli di averla preparata con le tue mani e son certa che te ne sarà grato".
La donna accettò, entusiasta dell'opportunità che le si offriva di ben figurare. Dispose il dolce su di un vassoio e, appena fu giorno, si recò a farne omaggio al giovane.
"Ottima! " si complimentò questi dopo averla assaggiata. Affondò di nuovo il coltello per servirsi di una abbondante porzione e l'anello, fortuitamente liberato dall'impasto, rotolò tintinnando sul vassoio. Lo riconobbe. Il cuore gli pulsò in gola, gonfio di trepidazione e di speranza.
"Sei sicura di aver preparato tu sola questa torta?" indagò.
"Con queste mie stesse mani, signore" assicurò la donna.
"Nessun'altra ti ha aiutata?" egli insistette.
"Nessuna, lo giuro", sostenne la cuoca. "Chi volete che consideri più una povera vecchia quale io sono!" Non senza disagio, timorosa di tradirsi, si allontanò dopo un rapido inchino, lasciandolo a meditare in uno stato di incomprensione e di turbamento.
Passò una settimana e Pellecchione preparò una seconda torta in cui inserì il bracciale, incaricando nuovamente la cuoca di farne omaggio al principe.
Questi, quasi l'aspettasse, non mostrò compiacimento né gratitudine, ma solo una sorta di ansia irrazionale che lo spinse ad affondare le mani nella soffice sfoglia, ad abbrancare e strizzare le creme con gesti impazienti, fino a trarre fuori il bracciale.
"Ora mi dirai la verità", ingiunse, severo.
"Signore, non c'è nessuna verità che io vi nasconda", protestò debolmente la donna.
Il principe dovette fare uno sforzo per conservare la calma. "Ascoltami", disse; "ho rispetto per la tua età e riconoscenza per i lunghi anni prestati al nostro servizio, ma ti giuro che se non mi riveli il nome della fanciulla che ha preparato le due torte finirai i tuoi giorni nelle segrete del castello in compagnia di topi e scarafaggi".
La donna, spaventata più che dal senso delle minacce dalla determinazione che gli si leggeva sul viso, cadde in ginocchio. "Perdonatemi, signore", supplicò in lacrime. "Lungi da me l'intenzione di recarvi danno od offesa. È Pellecchione l'artefice dei dolci, ma temendo un vostro rifiuto ha pregato me della consegna e della innocente menzogna".
"Pellecchione? La vecchia addetta al porcile?" stupì il giovane e, senza attendere risposta, si allontanò deciso, seguito dallo sguardo interdetto della cuoca tuttora genuflessa.
Pellecchione era intenta a governare i porci, col suo inseparabile sacco in spalla. Il principe l'afferrò per una mano e, trascinandosela dietro, raggiunse, irrompendovi, gli appartamenti del re.
"Padre", annunciò, "ho scelto la donna che sarà la mia sposa".
"Me ne compiaccio, figliolo", si complimentò il re in tono bonario, sebbene interrotto in una importante riunione coi propri consiglieri. "Qual'è il nome della fortunata?"
"Pellecchione, padre", rispose egli serio, e spinse in avanti la sgradevole vecchia, intimidita e confusa.
Lo stupore del re si incrinò di un riso convulso, scettico eppure isterico. I presenti ammutolirono incerti, prima di accomunarsi all'ilarità del sovrano. Poi il monarca ritrovò la sua abituale compostezza, non disgiunta da un piglio severo.
"È di cattivo gusto prendersi gioco di questa povera disgraziata", ammoni il figlio.
"No, padre; sono sincero", dichiarò il principe; quindi si genuflesse di fronte a Pellecchione. "So che non sei ciò che vuoi apparire, anche se ne ignoro il motivo", esordì. "Sappi che il mio cuore ti appartiene sin dalla sera del nostro primo ballo. Rivela a tutti le tue reali sembianze, te ne supplico, e ridona la serenità a questo tuo umile servitore che comunque ti prenderà in sposa, anche se vorrai continuare ad essere Pellecchione".
Commossa, la vecchia guardiana di porci, fra lo sconcerto e il silenzio generale, si ritirò dietro un paravento dove smise la pelle d'asino per indossare il vestito intessuto di raggi di sole e di luna. Ricomparve nella sua stupenda bellezza e, sotto lo sguardo ammirato dei consiglieri e del re, si rifugiò fra le braccia del principe.
Si sposarono e chi li conobbe sostenne che mai vi fu al mondo coppia più felice.
[1]Maledetta, mamma, che gli desti quel consiglio; come può un padre sposare la propria figlia!?
[2]Termine spregiativo di pellecchia, intesa come pelle vecchia e rugosa.