Il disordinato succedersi di uscioli, di rampe di scale, di minuscole finestrelle munite di grate, nell'ultimo tratto di via Pinnino, è interrotto da un breve ed angusto vicolo coperto a volta che immette su un cortile ciottolato su cui, ancor oggi, affacciano antiche casette ad un piano.
In una di esse abitava zia Sceppa (Giuseppa), una donna minuta, molto avanti negli anni. Viveva sola e, sovente, nelle fredde e precoci sere di inverno, dopo una cena frugale, si recava dai vicini, una coppia di anziani coniugi, per consumare accanto al fuoco del caminetto gli ultimi spiccioli di una breve giornata, troppo breve per chi, come loro, aveva le notti che si popolavano dei fantasmi del passato. In una di quelle sere, come sempre, si riesumavano eventi di una giovinezza lontana, e dalla memoria affioravano volti, nomi, affetti, rimpianti, quando un miagolio, lamentoso, prolungato, si levò dal disotto della scranna su cui zia Sceppa sedeva. Lei, distrattamente, con la mano, cercò un varco fra le pieghe delle gonne che defluivano sul pavimento, ma non trovò la bestiola a cui destinava la carezza.
Il miagolio si trasferì sotto la scranna occupata da Damiano che, a sua volta, annaspando con la mano, inutilmente cercò un contatto.
Dopo un breve silenzio il verso, lugubre, umano, si ripropose sotto la credenza. Insieme, anche qui cercarono invano. Il miagolio si trasferiva da un punto all'altro dell'angusta cucina, crescendo a tratti di intensità, a tratti affievolendo fino a trasformarsi in un gemito appena percettibile.
Allora tutti e tre compresero. Ad alta voce cominciarono a recitare orazioni in suffragio delle anime del purgatorio, ed il miagolio divenne via via più flebile, accattivante, lontano, fino dissolversi del tutto nella notte.