Masto Geseppo (mastro Giuseppe) era già uscito quella sera per i suoi bisogni ma, al momento di mettersi a letto, la sensazione, seppur vaga, di uno stimolo latente gli consigliò di tornare fuori, onde evitare l'inconveniente di una spiacevole levata notturna. Si avvolse la sciarpa intorno al collo e non prese neppure il cappello, intenzionato com'era a non attardarsi oltre il necessario.
La piazzetta della Scala Santa era deserta a quell'ora, il che gli risparmiava la fatica di osservare il complesso cerimoniale che il pudore imponeva, di assumere cioè l'atteggiamento solito, fra l'ozioso e l'indifferente, in attesa dell'attimo propizio per appartarsi inosservato. Con passo svelto si inoltrò sulle Toppole e, prima ancora di raggiungere il suo angolo abituale, cominciò a slacciare la cintura dei pantaloni.
Aveva appena sganciato il primo bottone che si sentì afferrato per le spalle. Non ebbe neppure il tempo di voltarsi, sorpreso e risentito, che fu spinto violentemente in avanti. Barcollante, una bestemmia appena accennata fra i denti, fu raccolto da braccia esili ma forti che a loro volta lo strattonarono, lo sospinsero, finché non fu travolto in una vorticosa sarabanda in cui, roteanti, venivano a sovrapporsi, carpiti per brevi attimi alla tenebra, volti scarni ed eccitati, capigliature discinte, malvagi sguardi infocati, mentre da bocche incavate e senza denti un canto sguaiato e querulo si sprigionava nella notte: "Abballa, masto Geseppo, ieremo a sei e mo' simo a sette"[1].
E mastro Giuseppe, preso nel vertiginoso carosello, si sentiva avvinghiato da mani adunche, sballottolato dall'una all'altra parte, travolto dal ritmo incalzante del canto delle streghe: "Aballa, masto Geseppo, ieremo a sei e mo' simo a sette".
Trascorse un periodo di tempo che gli parve interminabile prima che il sienzio tornasse a regnare nella notte. Ansante, frastornato, terrorizzato, il pover'uomo fece ritorno a casa dove si lasciò cadere, esausto, su una sedia. La moglie, allarmata, gli corse vicino, lo interrogò.
"Si me ne vace bona stanotte, non esso mai chiù a caga' re notte"[2], riuscì egli a profferire con un fil di voce.
Tale fatidica frase era destinata a sopravvivere fino ai nostri giorni nel linguaggio popolare, a sottolineare un'imprevedibile difficoltà insorta nel corso di un'azione intrapresa, congiuntamente alla ripromessa di non cedere in futuro alle lusinghe di apparentemente facili imprese.
[1]"Balla, mastro Giuseppe, eravamo in sei ed ora siamo in sette".
[2]"Se me ne va bene questa notte, non uscirò mai più a defecare di notte".