Don Guglielmo si svegliò di soprassalto, turbato, eccitato. Oltre le imposte chiuse della finestra della camera da letto che si apriva su piazzetta Scala Santa l'orologio del campanile battè le due della notte.
La famiglia Rossi abitava quella magione sin da epoca remota. In luogo del palazzo vi era stato l'antico castello. Se ne conservavano la vetusta cisterna, gli angusti camminamenti dall'alta volta che conducevano alle postazioni degli arcieri aperte sul lato esterno della cinta muraria, i tenebrosi alloggi dei soldati ed un tratto della più antica massiccia muraglia. E poi c'era quel cunicolo, angusto, umido, buio, dalla pavimentazione a selciato, viscida, che sembrava portasse nelle viscere della terra. Si supponeva che uscisse lontano dal paese, in aperta campagna, estrema via di scampo per i signori della rocca in caso di sconfitta militare. Si supponeva, ma ora don Guglielmo sapeva che non era così, ora che aveva avuto quel sogno rivelatore.
Il cunicolo non era altro che la via d'accesso alla segreta in cui era custodito il tesoro accumulato dagli antichi signori di Paterno in azioni di guerra e di saccheggio. Ed il tesoro era là, in attesa del temerario che lo avesse fatto proprio.
Don Guglielmo non ebbe un attimo di esitazione. Scese dal letto, calzò le pantofole, accese la lampada a petrolio ed in camicia da notte discese la rampa di scale che dava nel cortile. La notte era fredda, ma egli non ne avvertiva il gelido morso, eccitato ed ansioso. Spinse il cancello di ferro che chiudeva i granai e fu presso la porticina che immetteva nel cunicolo. Lo imboccò. La pavimentazione era viscida. Il lume mandava flebili guizzi di luce che destavano ombre secolari, ma egli procedeva spedito, incurante dell'ignoto che gli si apriva davanti, sicuro di sé. Non seppe mai dire quanto lungo fosse quel budello, né si sorprese della camera buia e putrida d'umido e di mistero in cui venne a trovarsi: era tutto così come lo aveva sognato!
Il grosso baule era al centro della stanza di cui non vedeva le pareti, immerse nel buio. Non ispezionò il locale. Tutta la sua attenzione e la sua bramosia si concentrarono sulla grossa cassa dalle massicce montature in ferro ormai arrugginito. Vi corse vicino, con mano tremante sollevò il pesante coperchio e la luce della lampada investì un groviglio di ori, monete, monili, strappandovi iridescenti riflessi in una esplosione di luce.
Fu allora che avvertì una presenza infida, una putrida calura, un ansimo fetido, un gemito o un ghigno. E lo vide, materializzarsi nell'ombra, ondeggiante nel tremito del lume, avanzarsi, orrido ed avido.
Il lume gli sfuggì di mano e in un tintinnio di vetri infranti la sotterranea cavità piombò nel buio. Don Guglielmo si slanciò su per il cunicolo. Le pietre aguzze dei muri gli laceravano le vesti e le carni. L'ansimo caldo che lo inseguiva gli era di sprone. Scivolava, si rialzava, riprendeva la folle corsa, braccato, soffocato dall'orrore, incapace di urlare.
E vide finalmente la luce della notte. Una mano di fuoco gli ghermì la spalla. Il dolore parve farlo impazzire ma, con un ultimo disperato sforzo sovrumano, fu fuori, bocconi sul lastrico del cortile.
Don Guglielmo rimase a lungo fra la vita e la morte, l'impronta del demone, una mano di fuoco, impressa sulla spalla. Si trasferì a Napoli e mai più mise piede a Paterno. I suoi eredi si disfecero di palazzo Rossi che, dopo il sisma del ventitre novembre del millenovecentottanta, fu raso al suolo dalle ruspe seppellendo per sempre il suo orribile segreto.