Diritto alla Storia, L'eversione della feudalità

Diritto alla Storia - Capitolo 28

La spietata reazione della monarchia borbonica, la protezione offerta a bande di sedicenti realisti che sconvolgevano la civile convivenza con saccheggi e soprusi, alienarono presto le simpatie di cui re Ferdinando IV aveva goduto. L’economia del regno era allo sfascio, i terreni posti sotto sequestro erano rimasti incolti, causando una preoccupante penuria di prodotti alimentari.

L’11 luglio 1800 il pro-amministratore Pinto concesse una pensione di 10 ducati al mese alla signora Prudenza Spinelli di Montefusco ed alle due nipoti, nate dal figlio di lei Francesco. I fondi per la pensione dovevano essere tratti dai proventi derivanti dai beni confiscati in Paterno alla Casa Carafa d’Andria4, ma i terreni feudali, ormai abbandonati, non producevano reddito alcuno.

La popolazione di Paterno si era ridotta a 2475 unità5. Sul paese aleggiava lo spettro della fame, destinato, in breve tempo, ad assumere proporzioni allarmanti. Mancò il grano nel corso del primo inverno del secolo, innescando pericolose tensioni sociali. Nel periodo compreso fra il 1801 ed il 1802 Pasquale de Rienzo era, insieme con altri, deputato dell’annona e, quantunque inabile, non poté esentarsi (dimettersi), per non essere soggetto alle violenze di cittadini, li quali in detto anno sì penurioso clamoravano per il pane (protestavano per la carenza di pane) senza sentire scuse1.

Il 10 febbraio 1801, quale precondizione posta dai Francesi per l’armistizio di Foligno firmato il 18 dello stesso mese, Ferdinando IV dovette sciogliere la sanguinaria Giunta di Stato. Comunque il provvedimento fu ritenuto insufficiente e, nel trattato di pace stipulato a Firenze il successivo 28 marzo, la Francia pretese l’inclusione di un articolo, il VII, che testualmente recitava: il re di Napoli si obbliga ancora a permettere che tutt’i suoi sudditi, che fossero stati perseguitati, banditi in esilio, o costretti ad espatriare volontariamente per gli avvenimenti relativi al soggiorno dei Francesi nel regno di Napoli, ritornassero liberamente nel loro paese, e fossero reintegrati nei loro beni.

In ossequio a tale impegno, con regie disposizioni del 5 giugno 1801 e del successivo 25 luglio, si ordinò il dissequestro di tutti i beni confiscati sia ai sudditi che ai cittadini di altri stati, nonché la restituzione ai legittimi eredi delle proprietà sottratte a chi era stato sottoposto a pena capitale.

Ne beneficiò, fra gli altri, la famiglia Carafa d’Andria che fu reintegrata nel possesso del feudo di Paterno e, in data 1 marzo 1802, Francesco Carafa, secondogenito di Riccardo, potette delegare don Carlo Rossi all’amministrazione dei propri beni: Francesco Carafa, Duca d’Andria e del Castel del Monte, Conte di Ruvo, Marchese di Corato, ed Utile Signore delle Terre di Maschito, di Campolieto e Campodipietra, ecc. - Essendo nostra premura, e dovere di prescegliere, e destinare una persona proba, ed onesta, che presieda, e invigili agli affari tutti del n.ro Feudo di Paterno; e confidando noi molto nell’abilità, prudenza, integrità, ed altre lodevoli prerogative, che concorrono nella persona di D. Carlo Rossi; ci siamo perciò indotti ad eleggerlo, come in vigore della presente lo eleggiamo, e deputiamo per nostro agente in d. n.ro (detto nostro) Feudo; conferendogli tutte le facoltà necessarie per poter esigere le nostre rendite, accudire ai nostri interessi, sostenere i diritti, i privilegi, e le prerogative, che ci competono, e procurare ben anche i vantaggi, e la quiete del Pubblico, per quanto sia in suo arbitrio. Vogliamo quindi, ch’egli abbia a godere di tutti gli onori, gaggi, lucri, ed emolumenti goduti da’ suoi Predecessori; e preghiamo così il Governatore, come i Pubblici Rappresentanti, ed ognunaltro a chi spetta, di riconoscerlo, trattarlo, e stimarlo per nostro Agente, presentandogli altresì ogni assistenza, ed ajuto, nelle occorrenze di nostro servizio; ed in ricambio gli assicuriamo della nostra grata corrispondenza. In fede di che ne abbiamo fatta spedire la presente sottoscritta da noi, e dal n.ro Seg.rio (nostro segretario), e munita col solito n.ro Sigillo. - Data in Napoli dal Palazzo di n.ra residenza questo dì p.mo marzo 1802 - Il Duca d’Andria2.

Tuttavia nulla fu fatto per porre un freno all’attività persecutoria sanfedista, i cui autori continuavano a godere di appoggi e protezioni ispirate da solidarietà antigiacobina. Ne fu un tipico esempio il brigante Antonio Zagarese di San Mango. Costui, nel momento in cui era divenuta palese l’imminenza della loro sconfitta, non aveva esitato ad abbandonare i repubblicani per porsi al servizio del colonnello De Filippis nell’avanzata per la riconquista di Napoli. Al termine del conflitto era tornato alla sua primitiva attività banditesca, questa volta nelle dissimulate vesti di paladino della risorta monarchia. Arrestato per delitti precedentemente commessi, fu condannato alla pena capitale. Venutone a conoscenza, il colonnello De Filippis si premurò di intercedere per lui, testimoniando sui servigi resi alla causa regia ed ottenendo che la pena gli fosse commutata in carcere a vita.

Diversa sorte toccò ai fratelli Rossi di Paterno. Nonostante la loro fede borbonica furono arrestati per la caparbia determinazione dello Speltra che, antico giacobino da loro perseguitato, si impegnò con tutte le sue forze perché gli fosse resa giustizia1.

Ma se il comportamento dei Rossi era dettato da sincera fede politica, altri si servivano delle garanzie di impunità per dar sfogo ad istinti puramente criminali. In Paterno, in panni sanfedisti, Amato e Pasquale Passaro, fratelli, erano due perfidi forosciti (scapestrati) disturbatori al sonno della pubblica pace, tanto vero, che per li tanti delitti giornalmente commettevano, avevano spaventato, atterrito, ed intimorito tutto il Paese, e la gente tutta s’era resa soggetta alla loro selvacità; ... Pasquale in fine morì ammazzato per gelosia di Concettina2.

In questo clima di precarietà e di paura, ad opera di un personaggio dalla personalità discussa, doveva essere introdotto un nuovo elemento di confusione destinato a produrre non poco turbamento nella comunità. Il 20 agosto 1802, il dottor Ciro Mattia, morente, fece chiamare al proprio capezzale, nella casa Palaziata di sua solita abitazione, sita in ristretto di questa terra, luogo detto S. Vito, il notaio Francesco d’Amato al quale dettò le sue ultime volontà. L’uomo indicò come destinatario di tutti i suoi beni stabili, e mobili il Pio Albergo dei Poveri della città di Napoli, con condizione, e patto, che debba esso Reale Albergo costituire in questa terra di Paterno un Orfanatrofio, per l’educazione e mantenimento non solo delle zitelle e ragazzi di questa terra di Paterno, ma benanche quelli della Diocesi di Frigento, in tutto servata la regola, ed il metodo di detto Reale Albergo3.

Non appena ne furono informate, le sorelle di lui Donna Tomasina e Donna Mariantonia, e la moglie Donna Marianna Miranda fecero richiamare d’urgenza il notaio Francesco d’Amato perché annullasse la disposizione testamentaria. Il pubblico funzionario se ne dichiarò disponibile purché questa fosse stata la volontà del donante; ma il moribondo, supplicato e finanche minacciato dalle congiunte, si mostrò irremovibile. A nulla valsero neppure le argomentazioni e le pressioni a cui fu sottoposto dagli amici che, nelle ore successive, si avvicendarono al suo capezzale4.

Ciro Mattia esalò l’ultimo respiro il 22 agosto 1802, Nonostante il comprensibile rancore covato dai familiari, gli fu riservata, nel cimitero presso la chiesa maggiore, una cerimonia funebre degna del suo rango.

Tuttavia le sorelle e la moglie non si erano rassegnate alla perdita dell’eredità, sicché alcuni giorni dopo il funerale, allo scopo di invalidare il testamento, convocarono in casa propria un certo numero di persone, fra cui il sacerdote di Castelfranci Don Samuele Tecce, perché testimoniassero che al momento del trapasso Ciro Mattia aveva espresso l’intenzione di modificare la destinazione dei suoi beni a favore dei propri congiunti. Ma li fratelli D. Pasquale, e D. Giuseppe Mele, Mastro Pasquale Forino scandalizati del falzo che volevasi impiantare, riluttarono intervenirvi, e scapparono di casa, vanificando anche questo estremo tentativo di porre rimedio all’insano capriccio del vecchio dottore5.

Se Ciro Mattia aveva voluto compiere un gesto che gli meritasse ammirazione e riconoscenza, almeno nel breve termine non raggiunse lo scopo che si era prefisso. Artatamente, al fine di avvalersene nella causa subito intentata che li contrapponeva al Pio Albergo dei Poveri di Napoli, si tentò da parte dei familiari di accreditare la tesi dell’insania mentale.

Anche il suo sepolcro era destinato ad essere profanato. Rimosso dall’incarico di sacrestano mastro Basilio Balestra, ne aveva assunto le funzioni Pasquale Natale su cui gravavano non infondati sospetti di furto continuato di arredi sacri. Ebbene, si videro i familiari di quest’ultimo indossare le vesti guarnite con i preziosi castori che avevano ornato l’abito di Ciro Mattia al momento della sua tumulazione1.

Intanto il brigantaggio di ispirazione borbonica, osteggiato in Irpinia dal solo Lorenzo de Concilj, andava assumendo dimensioni incontrollabili. Nel giugno del 1803 una comitiva di malviventi fece la sua apparizione nella vicina Fontanarosa e il de Concilj, immediatamente intervenuto, ne trasse in arresto un buon numero; ma subito contro di lui si levò, da parte di alcuni settori, un vibrante coro di proteste, definendo i suoi metodi eccessivamente repressivi.

Le diffuse attività persecutorie, che godevano di palesi coperture politiche, esasperavano gli animi e spingevano alla ribellione, sicché, nel 1803, si tentò in Calabria una cospirazione giacobina. Il pericolo di un rigurgito del radicalismo repubblicano incrementò il numero delle bande costituite a difesa della monarchia, con conseguente recrudescenza della criminalità e l’adozione di una generalizzata omertà generata da un bisogno di solidarietà di gruppo da opporre ad un potere che, ormai incapace di acquisire consensi, aveva finito con l’imporsi con la violenza. Fu questa la ragione per cui Genesio Santucci, sua moglie Mariantonia Grasso, Gennaro del fu Nicola Barbieri, Nicola Felice Rosanio del fu Francesco e Benedetto Grasso, cittadini di Paterno, si coalizzarono per scagionare l’indiziato di un duplice omicidio, asserendo che la sera de undici di novembre dell’anno milleottocento, e tre, dall’ore due della notte, sino all’ore quattro, e mezze (dalle ore 20 alle ore 22,30 circa), tempo in cui nella convicina terra di Castello de Franci furono a colpi di schioppettata uccisi Dionisio di Palma, ed Alessandro Cresta della stessa terra di Castello de Franci, Giuseppe Saldutti, figlio del fu Vincenzo, della medesima terra, si trattenne in casa di detto Genesio Santucci, da cui partì posteriormente alle ore quattro, e mezze2.

Il 7 luglio 1804 Francesco Carafa, secondogenito di Riccardo, ottenne l’intestazione del feudo di Paterno3. Come il resto del regno, era un paese sconvolto dalla violenza che non poteva più essere giustificata con la contrapposizione politica, dal momento che il radicalismo giacobino era stato privato del suo specifico riferimento in quanto Napoleone aveva pacificato la Francia, ponendosi al di sopra delle fazioni, e, con la firma del Concordato, aveva posto fine al conflitto con la Chiesa.

Il 2 dicembre 1804, il condottiero corso si incoronò imperatore alla presenza del papa e, il 26 maggio 1805, a Milano, cinse la corona di re d’Italia.

Il 26 luglio di quell’anno, poco dopo le ore 10 antimeridiane, la terra fu sconvolta da un violento terremoto il cui epicentro fu localizzato nel Molise. Ne riportarono danni Montefusco ed Avellino, come pure Mirabella, Taurasi, Fontanarosa e Gesualdo4, ma non Paterno dove fu voce comune di tutta quella popolazione che l’efficace protezione della loro pietosa Madre di Consolazione l’aveva preservata da’ terribili effetti di un tale flagello5.

Il 21 ottobre 1805, nella battaglia di Trafalgar, l’Inghilterra inflisse una dura sconfitta alle truppe napoleoniche. L’insperato successo dette nuovo vigore ai nemici della Francia e Napoleone si trovò a dover fronteggiare una coalizione anglo-russo-austriaco-napoletana organizzata da Pitt, su cui però, il 2 dicembre 1805, riportò una completa vittoria ad Austerlitz.

Il pericolo di una nuova invasione incombeva su Napoli ed il 27 gennaio 1806 Ferdinando IV, onde evitare che cadessero in mani francesi, ordinò che fossero dati alle fiamme tutti gli incartamenti relativi ai processi celebrati contro i giacobini. Pochi giorni dopo il re fuggì a Palermo e, il 14 febbraio 1806, 40.000 Francesi al comando del generale Massena occuparono Napoli.

Non vi furono reazioni popolari. Il Massena istituì presidi militari per il controllo del territorio e Paterno ricadde sotto la giurisdizione di quello di stanza a Mirabella. Alla fine di marzo Giuseppe Bonaparte fu incoronato re di Napoli e, per arginare il fenomeno della criminalità, decretò il disarmo dei civili.

Ebbe l’incarico di requisire le armi in possesso dei cittadini di Paterno il tenente francese Vittorio Amedeo La Sat. Questi, giovandosi della collaborazione dei maggiorenti locali, fu messo in condizione di portare a termine il proprio compito ancor prima dello scadere del mese di aprile. In segno di riconoscenza, l’ufficiale si astenne dal sequestrare i fucili di proprietà di coloro che gli avevano agevolato il lavoro, ma qualcuno segnalò il gesto discriminante al maggiore Sax in Mirabella. Fu da questi inviato a Paterno, perché completasse l’operazione di disarmo, il tenente Bernard a cui si oppose tenacemente il collega La Sat, difendendo le ragioni del proprio operato fino a sfidarlo a duello.

Il rapporto che ne fece il tenente Bernard mandò su tutte le furie il maggiore che si apprestò a raggiungere personalmente Paterno con l’intento di metterlo a sacco e a fuoco. Avvertiti da amici di Mirabella, i cittadini di questo paese, atterriti, si raccolsero in preghiera dinanzi all’altare di Maria Santissima della Consolazione. Erano le ore 19,30 di un venerdì. In quello stesso momento il maggiore, guadato il fiume Fredane coi propri dragoni, posto piede sul territorio di Paterno, fu inesplicabilmente sbalzato di sella. Rimontato a cavallo, fu disarcionato una seconda e, quindi, ancora una terza volta. Sorpreso, turbato, a questo punto manifestò l’intento di desistere dai propri propositi e la cavalcatura ne risultò immediatamente rabbonita.

Una volta a Paterno il maggiore si informò su chi proteggesse questa terra, ed essendogli stato risposto che il paese era sotto l’amorosa tutela della Vergine della Consolazione, ammirato e commosso se ne tornò al proprio presidio1.

Nella mutata scena politica si estinse la follia reazionaria e criminale, tornarono di prioritario interesse i problemi di sempre. La disputa intorno all’eredità di Ciro Mattia si era impelagata nei meandri giudiziari e non se ne intravedeva una rapida soluzione. Il 9 aprile 1806, D. Tomasina e D. Mariantonia, germane sorelle di Mattia di questa suddetta terra di Paterno, impossibilitate a presenziare alle fasi dibattimentali in Napoli, in quanto inabilitate dal sesso femineo e dalla cura di loro rispettive famiglie, delegarono i propri mariti don Luigi d’Amato e don Domenico de Sica a rappresentarle nella vertenza con il Real Pio Collegio de Poveri della città di Napoli, relativamente all’eredità ed al mal ordinato testamento fece il di loro comune fratello germano D. Ciro Mattia2.

Fu ripristinata la legalità e, perché il nuovo orientamento apparisse chiaro ed inequivocabile, la risposta ai reati fu improntata al massimo del rigore. Lo sperimentò Angelantonio di Carmine Palermo che, il 4 maggio 1806, fu ristretto nelle Baronali carceri di questa terra per un colpo di pietra tirato in una rissa a Giovanni di Amato3.

Il 25 maggio 1806, nel giorno della Pentecoste, a riprova della gratitudine per la protezione concessa a Paterno in questi anni tumultuosi, l’Immagine della Madre Santissima della Consolazione fu incoronata, per la seconda volta, dal vescovo di Avellino e Frigento monsignor Don Sebastiano De Rosa. La corona d’oro ed il collare di cui fu adornata l’Effigie erano stati appositamente realizzati per l’interessamento di un gioielliere napoletano, don Antonio Montuoro, il quale generosamente aveva voluto contribuirvi con l’offerta di una cospicua somma1.

Il governo centrale appariva ormai consolidato, con i ministeri di Polizia, Interno, Finanze e Guerra retti da Francesi. Non restava che operare il rinnovamento delle cariche periferiche, e re Giuseppe Bonaparte vi provvide con decreto n. 239 del 24 luglio 1806 che valse a mettere da parte i governatori compromessi col vecchio regime ed ostili alle riforme a cui ci si apprestava. In luogo di Gaetano Vovolo fu nominato governatore di Paterno Mariano Venditti di Napoli. A San Mango Antonio Pilosi fu sostituito con Gaetano Colletta di Napoli, e a Fontanarosa Bonaventura Pescatore dovette cedere il posto a Giuseppe Recupito di San Bartolomeo. Subentrarono, rispettivamente: Donantonio Ricci di Montagano a Michele Antonelli in Villamaina, Giuseppe de Deo di Minervino a Giuseppe Macciano in Torella, Giuseppe Gianlorenzo di Ariano a Francesco Cicirotti in Castelfranci, Michele Viti di Terlizzi a Vincenzo Cenghi in Montemarano, Beniamino Cavallo di Lucera a Giacomo Bottiglieri in Castelvetere, Bartolomeo de Nigris di San Bartolomeo ad Antonio de Luca in Luogosano, Natale Amato di Napoli a Giuseppe de Matteis in Taurasi, Bartolomeo Catenaccio di Napoli a Pasquale Pisapio in Gesualdo2.

Solo pochi giorni dopo fu compiuto il passo più significativo sul cammino delle riforme. Fu infatti il 2 agosto 1806 che fu promulgata la legge per l’abolizione della feudalità. Lo Stato avocò a sé le giurisdizioni baronali e relativi proventi, ed assoggettò indistintamente ad imposte tutte le terre mediante l’abrogazione dei privilegi di esenzioni tributarie concessi a vario titolo. Furono aboliti gli antichi diritti baronali quali le angarie, le prestazioni gratuite, i privilegi sulle acque e le dogane, per i quali però fu previsto un indennizzo. Vennero invece fatte salve le rendite derivanti dai beni immobili di cui il feudatario era diretto proprietario.

Sebbene il provvedimento non si traducesse in tangibili, immediati vantaggi per la classe contadina, l’eversione della feudalità, che era stato un secolare istituto di oppressione civile ed economica, ispirò ad uno scrittore del tempo la lapidaria espressione: Non vi ha popolo degli antichi feudi, il quale non debba in bianca pietra scolpire il secondo giorno dell’agosto 1806 in cui fu sanzionata la legge immortale dell’abolizione del feudalismo3.

Piuttosto scarsi erano stati invece i risultati fino ad allora conseguiti nella lotta al brigantaggio, soprattutto per l’insufficienza delle forze preposte al controllo del territorio. Re Giuseppe Bonaparte non aveva fatto nulla per riorganizzare l’esercito napoletano. Non era stato soppresso l’obbligo del servizio di leva, della durata di quattro anni, tuttavia se ne era incoraggiata la defezione con la possibilità afferta ai giovani di riscattarsene mediante contributi in danaro.

A tale forma alternativa aveva fatto ampiamente ricorso Paterno, ed ancora il 31 maggio 1807, alla presenza del notaio Antonio Francesco d’Amato, 73 giovani soggetti all’obbligo del servizio militare versarono nelle mani di don Nicola Famiglietti, eletto cassiere, contributi per complessivi ducati 96,50, che andarono a sommarsi ai 297,50 già depositati in cassa4.

Nell’anno 1808 Giuseppe Bonaparte fu chiamato ad occupare il trono di Spagna e gli succedette in Napoli Gioacchino Murat, cognato di Napoleone. Il nuovo re continuò la politica delle riforme iniziata dal suo predecessore e dette nuovo impulso alla dismissione dei beni del clero iniziata nel 1807. Anche se le vendite, ben oltre le buone intenzioni del governo, favorirono la costituzione di latifondi, il fenomeno ebbe proporzioni contenute in Paterno dove, seppure le poche famiglie facoltose trassero degli innegabili vantaggi, numerosi fittavoli e censuari colsero l’occasione per trasformarsi in piccoli proprietari terrieri.

Si erano finalmente create le condizioni per una migliore qualità della vita, eppure il 1808 fu un anno nefasto per Paterno. Con l’inizio dell’estate una epidemia virale colpì la popolazione, con effetti devastanti per la fascia d’età compresa fra lo zero ed i sei anni. Su 123 nati si contarono 112 decessi, con punta massima di mortalità nel mese di luglio in cui il caldo e le condizioni igieniche sfavorevoli acuirono l’incisività del morbo1.

Nello stesso periodo il paese dovette far fronte alle pretese dell’ex feudatario Francesco Carafa d’Andria che aveva avanzato presunti diritti di proprietà sul beneficio della chiesa di San Michele Arcangelo, ivi compresi i beni ad esso annessi. La lite si risolse a favore della municipalità, che aveva sostituito il termine “università” nella definizione di una entità territoriale, con sentenza della Commissione Feudale del 26 aprile 1810.


4 Francesco Scandone: Documenti per la storia dei comuni dell’Irpinia, Vol. II - Avellino 1964.

5 Lorenzo Giustiniani: Dizionario geografico ragionato del Regno di Napoli, Tomo VII - Napoli 1804.

1 Archivio di Stato di Avellino - Protocolli notarili, Distretto di Sant’Angelo dei Lombardi: Notai di Paternopoli - Fasc. 1925.

2 Archivio privato del prof. Giovanni Maccarone di Paternopoli - Documento originale in foglio legale da carlini cinque.

1 Francesco Scandone: Giacobini e Sanfedisti nell’Irpinia, in Archivio storico per le province napoletane - Nuova serie - Anno 1930.

2 Archivio di Stato di Avellino - Protocolli notarili, Distretto di Sant’Angelo dei Lombardi: Notai di Paternopoli - Fasc. 1937.

3 Archivio di Stato di Avellino - Protocolli notarili, Distretto di Sant’Angelo dei Lombardi: Notai di Paternopoli - Fasc. 1925.

4 Archivio di Stato di Avellino - Protocolli notarili, Distretto di Sant’Angelo dei Lombardi: Notai di Paternopoli - Fasc. 1924.

5 Archivio di Stato di Avellino - Ibidem.

1 Un Irpino: Uno scandalo in Irpinia nell’epoca borbonica, in Paternopoli (Avellino) - Avellino 1966.

2 Archivio di Stato di Avellino - Protocolli notarili, Distretto di Sant’Angelo dei Lombardi: Notai di Paternopoli - Fasc. 1926.

3 Erasmo Ricca: Istoria de’ feudi delle Due Sicilie, Vol. III - Napoli 1865.

4 Salvatore Pescatori: Terremoti dell’Irpinia - Avellino 1915.

5 Giuseppe De Rienzo: Notizie storiche sulla Miracolosa Effigie di Maria SS. della Consolazione, precedute da un saggio istorico sulla terra di Paterno - Napoli 1821.

1 Giuseppe De Rienzo: Notizie storiche sulla Miracolosa Effigie di Maria SS. della Consolazione, precedute da un saggio istorico sulla terra di Paterno - Napoli 1821.

2 Archivio di Stato di Avellino - Protocolli notarili, Distretto di Sant’Angelo dei Lombardi: Notai di Paternopoli - Fasc. 1926.

3 Archivio di Stato di Avellino - Protocolli notarili, Distretto di Sant’Angelo dei Lombardi: Notai di Paternopoli - Fasc. 1925.

1 Giuseppe De Rienzo: Notizie storiche sulla Miracolosa Effigie di Maria SS. della Consolazione, precedute da un saggio istorico sulla terra di Paterno - Napoli 1821.

2 Francesco Scandone: Documenti per la storia dei comuni dell’Irpinia, Vol. II - Avellino 1964.

3 Citata in Manfredi Palumbo: Prima e dopo le leggi eversive della feudalità - Montecorvino Rovella 1910.

4 Archivio di Stato di Avellino - Protocolli notarili, Distretto di Sant’Angelo dei Lombardi: Notai di Paternopoli - Fasc. 1927.

1 Archivio della Parrocchia di San Nicola di Paternopoli - Registri dei battezzati e Registri degli infanti morti.

Diritto alla Storia, La Repubblica Partenopea

Diritto alla Storia - Capitolo 27

A Napoleone Bonaparte, tornato a Parigi dalla vittoriosa campagna d’Italia che aveva portato alla costituzione della Repubblica Cisalpina, fu affidata l’armata detta di Inghilterra che, nel 1798, guidò a Malta e in Egitto per colpire il predominio britannico nel Mediterraneo. In Francia il Direttorio, ebbro dei facili successi e sensibile alle pressioni dei patrioti romani, allestì una spedizione militare contro lo Stato Pontificio. Senza difficoltà le truppe francesi occuparono Roma ed il 15 febbraio 1798 vi fu proclamata la repubblica.

Il re di Napoli, Ferdinando IV, istigato dalla regina e sentendo minacciato il regno dalle idee rivoluzionarie che si radicavano con allarmante rapidità nei ceti più elevati, ruppe ogni indugio ed aderì alla coalizione europea antifrancese. La decisione, pur prevista, suscitò contrastanti reazioni. Un’agitazione permeata di preoccupazione e di fervore patriottico si diffuse in Paterno. Il sacerdote Don Nicola d’Amato trasse dalla nuova situazione rinnovata foga per la sua crociata antigiacobina.

Si fà sapere a’ Posteri che a 12 Aprile 1798 è fioccato, ed à fatta tanta neve che si sono piene tutte le neviere1 di questo nostro paese2, annotava il notaio Nicola de Rienzo; ma nonostante l’eccezionale rigore di un interminabile inverno la gente affollava la piazza, attenta alle notizie spesso contraddittorie portate dai mercanti di passaggio e dai corrieri postali.

Si respirava sempre più aria di guerra. Nel giorno della festa del Corpo di Cristo il sacerdote Don Nicola d’Amato lanciò dal pulpito un caloroso invito per animare la gente in portarsi a partire nell’accantonamenti per la gloriosa guerra contro della regione Francese ... con tanta energia ed efficacia, e seppe tanto dire, e fare animando la gente di occorrere ogni necessaria impresa per la difesa dello Stato. Egli stesso, coerentemente con le proprie convinzioni, nonostante l’abito sacerdotale, si arruolò volontario nella milizia3.

Fu proclamata la mobilitazione generale. In questa occasione si rivelò esemplare la condotta del sindaco di Paterno, come ebbero a testimoniare in un atto trascritto dal notaio Francesco d’Amato, l’8 agosto 1799, i signori don Michele, don Francesco e don Nicola Antonelli, il magnifico Domenico Modestino, il dottor fisico don Giuseppe Iorio, don Gaetano di Rienzo, il magnifico Pasquale di Natale, Nicola Rosa, Giuseppe Balestra, il magnifico Pietrantonio d’Amato, Domenicantonio Mastrojacono ed Antonio Moccia. Costoro rivelarono come, prima della revoluzione4, trovandosi (essendo) il magnifico D. Luigi d’Amato Sindaco di questa magnifica Università di Paterno, ed essendo venuti replicati dispacci per rispetto delle reclutazioni (per l’osservanza del reclutamento), et preciso per l’esecuzione di quello del due settembre passato anno millesettecentonovant’otto, il suddetto Sindaco impegnativamente con ogni zelo, et attitudine si cooperò (adoperò) in maniera per fare la quota (di soldati) stabilita alla medesima suddetta Università, che, spendendo senza risparmio danaro anche della propria casa, fé sortire la quota suddetta felicemente, e buona, e dopo contentossi deriggerla esso proprio al loro destino (destinazione) in Capua, ed in Sessa, animandoli, ed incoraggiandoli per strada, senza darli menoma lagnanza per le spese cibarie, anzi li fece rimanere pienamente contenti, e soddisfatti, lodando sempre la sua buona condotta, ed efficace attività5.

L’esercito napoletano, forte di 60.000 uomini al comando del generale austriaco Mack, mosse alla volta di Roma il 24 novembre 1798 ed il 29 successivo fece il suo ingresso in città incontrando scarsa resistenza. Le truppe francesi però, guidate dal generale Championnet, passarono al contrattacco e già il 14 dicembre restaurarono la repubblica. Ripiegarono i soldati napoletani, subendo una sconfitta dopo l’altra, così che la ritirata si trasformò in una rotta precipitosa sotto l’incalzante avanzata del nemico.

Ferdinando IV, non sentendosi più al sicuro in Napoli, il 23 dicembre 1798 si rifugiò in Sicilia.

La notizia della fuga del re gettò Paterno in uno stato di costernazione e di paura in cui maturò la ferma determinazione di reclutare gente da inviare al fronte per contrastare l’avanzata francese: Nella fine di Dicembre poi, detto anno, essendosi inteso che il Ré Nostro Signore, Dio sempre feliciti, si era partito dal Regno, il detto Sindaco entrato in una profonda malinconia tutto mesto, e dolente per la causa che si cominciava a sentire l’approssimamento de maledetti Francesi, aprì la porta (decise di correre) al riparo, e fece sì che collo stesso zelo, ed attività, e con ogni impegno ammani (immane), preparò una buona leva di gente a massa (reclutò una massa considerevole di persone), per tutta questa popolazione, colle buone maniere, ed esortazioni, senza far mai conto del danaro, quale aveva in pensiero di deriggerla dove meglio avrebbe potuto dar riparo all’imminenti ruine (arginare l’imminente invasione)1.

Cadeva Napoli il 22 gennaio 1799 sotto gli attacchi congiunti di Francesi e Giacobini italiani, ed il giorno 24 fu proclamata la repubblica Partenopea.

In Irpinia, ad eccezione del duca di Calabritto, i signori feudatari, fra cui Ettore Carafa d’Andria la cui famiglia teneva Paterno, salutarono con favore l’avvento della repubblica. Non mancarono, invece, tentativi popolari di organizzare la difesa del territorio, soprattutto da parte di Gioacchino Renzullo di Montefusco, di Pasquale Vuolo di Villamaina, del tenente Filippo Venuti di Luogosano, di Francesco Maria Flammia di Frigento, i quali raccolsero una consistente milizia in cui affluirono le forze di Paterno reclutate dal sindaco Luigi d’Amato. Ma ormai qualsiasi tentativo di resistenza appariva inutile. I Francesi avevano occupato Ariano sin dal 13 gennaio e vi avevano innalzato il “simbolo della libertà”, rappresentato da un albero2, e per indurre gli altri paesi a seguirne l’esempio non disdegnavano l’appoggio loro offerto da loschi individui, quale il famigerato brigante Antonio Zagarese di San Mango.

Furono così costretti ad aderire alla repubblica dapprima Montemarano, poi Montella e, di seguito, la maggior parte dei restanti paesi. Piuttosto riottosa si mostrava Paterno. La detta scelerata truppa Francese, avendo preso piede (essendosi radicata sul territorio), cominciarono con proclami, e minaccie ad inculcare (ad esercitare pressioni) a loro Commissariati per la democratizzazione de Paesi, per lo che il detto Magnifico Sindaco D. Luigi d’Amato, avendo avuto più ordini per la democratizzazione di questo Paese, minaccianti saccheggio, fuoco e fucilazioni, egli in discreto fece il sordo, e non prestava affatto orecchio a tali nefande cose, ma solo pensava dar luogo agli affanni per la perdita del Nostro Ré, essendoli di già stata chiusa la porta del riparo (in quanto gli era stata preclusa qualsiasi possibilità di agire), e fra gli altri ricevé lettera di officio dal Commissario D. Amato Montefuscoli della terra di San Manco di voler venire egli a democratizzare questo Paese, ed eriggere il sacrilego albore d’insana libertà, ancora (anche) lui colle minaccie, e ruine, che diceva far cadere a questa infelice Popolazione, con un suo ricorso al Comitato interno di Napoli; ed egli il Sindaco mica curando tal minaccie il rifiutò con risposta, dicendo che non fosse venuto perché questa Popolazione era stata già democratizzata da per se sola, ma alieno dal vero (il che non era vero), perché non si fece innovazione alcuna; ma nell’estremo caso (ma alla fine) sentendo in realtà l’imminenti ruine, che cadevano (si verificavano) ne’ Paesi vicini, per evitare il periglio li bisognò prudenza, anche per non essere ucciso da quelli che per causa sua soggiacevano a qualche male, e così col consenso di molti, anzi li più probbi di questa medesima Popolazione, e coll’intervento del Sig. D. Giacomo Imbelicone promisero a Pasquale Passero di fare inficcare nel terreno della Piazza di detta terra una semplice mazza3.

Ma nonostante l’impegno assunto, l’albero repubblicano non trovò sollecita collocazione sulla piazza di Paterno che ora, in seguito alla demolizione delle case a ridosso della chiesa maggiore, si estendeva fino a comprendere la sottostante superficie dell’odierna piazza XXIV Maggio.

Tuttavia non ci si potette esimere dal costituire la municipalità, coinvolgendovi cittadini comunque poco propensi ad assumere un incarico che ritenevano disonorevole ed in contrasto con le proprie idee politiche. I prescelti, ed in particolare don Pasquale Modestino, pur se dovettero assoggettarsi al volere popolare al fine di scongiurare il pericolo di gravi ritorsioni da più parti prospettate, non si astennero dal manifestare il proprio disappunto: Avendo dovuto questa Università evitare il castigo che li veniva minacciato dalla maledetta Republica Francese, non meno che da ribelli dello Stato, di sacco, fuoco, fucilazioni, ed altro, e per deludere le loro malvaggie voglie, (fu indispensabile) creare in questa suddetta terra la municipalità, nel numero della quale per comune piacere de Paesani fu eletta la persona del Magnifico D. Pasquale Modestino ... Il predetto Pasquale, appena pervenutali a notizia una tale elezione in sua persona, ne sentì gran dispiacere per lo che subito, nella publica piazza di questa terra ne fé sentire i veri risentimenti di animo avutene1.

Al pari di Paterno, si mostravano restii ad accettare il nuovo ordinamento i comuni di Sant’Angelo dei Lombardi, Cassano Irpino, Luogosano, Sant’Angelo all’Esca e Villamaina.

Né era rimasto inattivo re Ferdinando IV. Dalla Sicilia si era preparato alla controffensiva armando un esercito che affidò al comando del cardinale Ruffo. Questi, il 7 febbraio 1799, sbarcò in Calabria. Nello stesso giorno insorse Montella, abbattendo l’albero simboleggiante la repubblica.

Sul suo esempio si mossero altri paesi, fra cui Montemarano, sicché il 10 febbraio fu dato incarico ad Ettore Carafa di reprimere i disordini popolari in Principato Ultra. Il Carafa si portò ad Avellino dove raccolse militi della guardia civica e nella seconda metà del mese poté sedare agevolmente Volturara, Sorbo, Salsa e Montemarano; e di là trasse, come da Paterno, già feudo della sua Casa, altre reclute della civica, con le quali si avanzò contro Montoro2.

Il 25 febbraio la provincia parve pacificata, ma già il 3 marzo si sollevò Lauro, quindi Marzano, Moschiano e Quindici, anche se la rivolta fu prontamente domata ed i responsabili passati per le armi. Il cardinale Ruffo si rendeva intanto padrone dell’intera Calabria Ulteriore.

Il 20 aprile insorse Serino e la rivolta si propagò ad Ariano, Fontanarosa, Gesualdo, Frigento, Mirabella e Sant’Angelo all’Esca. Il 23 i soldati francesi ristabilirono l’ordine in Ariano, ma insorse Castelfranci infervorata dal sacerdote Don Alessandro Rossi. Subito dopo si sollevarono altri comuni fra cui Montella, Avellino e Villamaina.

Altrettanto accadde in Paterno dove, Verso li quindici del mese di Aprile3 poi corrente anno, avendo avuta semplicissima idea detto Magnifico Sindaco che si approssimavano le truppe Realiste, e Cristiane spinte da passioni, nonostante che ancora reggeva la Republica, e persistevano tutta via le leggi di Republica, egli si fé spirito (si fece coraggio), che chiamati alcuni Particolari (rispettabili cittadini), e signatamente noi attestanti Magnifico Pietrantonio d’Amato, Magnifico Pasquale di Natale, e Liberatore Rosa, e mandò a togliere detto infame albore di insana libertà, o sia detta mazza, la sera dello stesso giorno che si era situata; e di poi avendo fatto formare un bellissimo tosello (palco), ed esposti in quello con tutta pompa le due effiggie de Nostri amabilissimi Sovrani, eresse nella publica Piazza la bandiera vengitrice del Nostro Ferdinando, senza dar luogo a timori e senza darsi pena di niente; dopo questo, insaziabile il detto Sindaco di far festa per sì grande allegrezza avuta, fece esponere nella Chiesa Madre di questa suddetta terra la statua del Santo Nostro Protettore S. Nicolò, li fece ponere una bellissima nocca rossa (fiocco rosso) in segno di vittoria e fece emanare i banni per tutta la terra che ogn’uno avesse fatto festa per la fausta notizia, ed avessero cacciato (esposto) la nocca rossa del Nostro Ré, e nello stesso tempo non si fussero più imbevuti di massime Republicane, ma avessero conosciuto (riconosciuto) per Amministratore di Giustizia il Regio Governatore del Luogo, e per Governante del Publico il Sindaco suddetto. In seguito fece per più giorni sontuose illuminazioni, fé portare in processione la Statua del Nostro Protettore S. Nicolò per tutta la terra con sollenne sparo di polvere, ed altro, e fece pure fare in ringraziamento per moltissime sere l’esposizione al Venerabile col canto del Te Deum1.

Il più irriducibile sanfedista in Paterno era comunque il medico Liberatore Vovolo. Era tenuto per uno dei primi Realisti, e la di lui casa per covo de Realisti, per essersi sempre letti tutti i Proclami dell’Eminentissimo Cardinal Ruffo nella medesima, in unione di tutto il popolo Realista di questo Paese, che accorreva a massa nella stessa casa, facendone far copie con averle portate, e mandate a sue spese per la Provincia2.

Costui, il 27 aprile 1799, ricevette un dispaccio reale in cui si annunciava l’imminente arrivo delle truppe comandate dal cardinale Ruffo e si affrettò a farne una copia che affidò al corriere di Paterno perché la recapitasse ai cittadini di Grottaminarda. Tale copia fu consegnata, il giorno successivo, nelle mani di Michele Faretra che immediatamente divulgò la notizia ed il paese insorse, bruciando l’albero della Repubblica3.

Quello stesso 28 aprile il dottor Liberatore Vovolo uscì dalla clandestinità, come ebbero a dichiarare in data 18 luglio 1799 i sacerdoti Don Pasquale Guida e Don Pietro Barbieri, nonché il signor don Nicola de Girolamo: Nel giorno ventiotto di Aprile di questo corrente anno, verso l’ore diecisette (le dodici antimeridiane), tempo in cui era succeduta l’insurrezzione di questo Paese contro dell’infame Republica, ed a favore del Ré Nostro Signore (Dio Guardi), colla recissione dell’infame albore dell’insana libertà, essendo stato chiamato il Dottor Fisico Don Liberatore Vovolo, medico di questo stesso Paese, in casa del suddetto D. Nicola de Girolamo, a consultare tra i Dottori Fisici D. Pietro Mazzarelli di Mirabella, e D. Giuseppe Iorio di questa stessa terra, sulla malattia cerusico fisica da cui veniva travagliata la moglie del suddetto D. Nicola, il suddetto Dottor Fisico e Cerusico Don Pietro Mazzarelli, nel vederlo colla nocca rossa al cappello, con ammirazione (stupore) li domandò perché portava quella nocca in disprezzo della Republica, col pericolo di essere fucilato; esso Don Liberatore, immediatamente ed arditamente, rispose in nostra presenza e di molta altra gente accorsa a sentire il consulto suddetto: amico, senza meravigliarvi della nocca suddetta, e senza darvi pena del pericolo mio. La porto perché sono Realista, e me ne preggio, e me ne glorio, e voglio essere Realista per sin che vivo, a prezzo della mia propria vita; perché i veri vassalli del Ré non temono di alcuno. Indi il suddetto D. Liberatore esortò il suddetto Mazzarelli a togliersi la nocca Republicana tricolore che esso portava al suo cappello, perché non conveniva ad un uomo laureato essere infido al suo Sovrano, e Signore, per seguire una giomella (accozzaglia) di traditori, i quali avevano invaso i diritti di Dio, e del Sovrano, e dissonorata con un infame tradimento la nazione. E come il suddetto Dottor Fisico e Cerusico Mazzarelli persisteva a non levarsela, perché credeva essere insurrezzione, il suddetto Dottor Fisico Don Liberatore gli disse più di una volta avanti di noi: state a vedere, poicché per tutta la fine di Maggio, o al più verso i principij di Giugno, sentirete lo scoppio della venuta del Ré Nostro Signore (Dio Guardi), e numeroso esercito ricuperarsi il Regno da mano de Ribelli, e dell’invasori4.

Ai moti di ribellione popolare di fine aprile e dei primi di maggio seguì una spietata reazione francese. Fu bruciata Mercogliano e saccheggiata Avellino, quindi la spedizione punitiva proseguì per Bagnoli.

I principali sostenitori della causa repubblicana in Paterno erano i fratelli Andrea e Paolo de Iorio. Probabilmente furono costoro a denunciare l’attività rivoluzionaria del dottor Liberatore Vovolo all’infame Cantone di Mirabella, e da questo riferito all’infame Cantone di Capua, fu condannato così il suddetto Don Liberatore, che suo nipote D. Gennaro Vovolo, alla fucilazione, e la di loro casa al sacco, ed al fuoco1.

A questo punto si verificò un evento insperato. Il generale Macdonald, che era subentrato al generale Championnet nel comando dell’esercito repubblicano, fu chiamato in Lombardia a dar man forte alle truppe francesi ivi impegnate contro forze austro-russe. L’indebolimento del fronte consentì una più rapida avanzata dell’esercito realista, ed il 26 maggio il capomassa sacerdote Don Antonio Greco entrò con i suoi uomini in Sant’Angelo dei Lombardi. Il provicario vescovile Giuseppe Rossi, fratello del sacerdote di Castelfranci Alessandro Rossi, ottenne ampio mandato dal Greco ed iniziò l’epurazione nei comuni di Rocca San Felice, Calitri e Frigento, operandovi arresti e saccheggi. Subito dopo toccò a Gesualdo, Guardia dei Lombardi, Villamaina, Paterno e Torella.

La tempestività del suo intervento fu provvidenziale per il dottor Liberatore Vovolo e per suo nipote Gennaro che scamparono alla fucilazione. A Paterno furono arrestati, con l’accusa di giacobinismo, il frate Ignazio Stanchi ed i fratelli Andrea e Paolo de Iorio.

Il 28 maggio insorsero Sant’Angelo all’Esca e Taurasi e subito dopo fecero altrettanto Mirabella e Fontanarosa. Il 30 maggio le bande capeggiate da Filippo Venuti di Luogosano occuparono Montefusco.

L’8 giugno 1799 il cardinale Ruffo giunse ad Ariano, già in mano all’avanguardia realista.

Prima che scoppiasse il conflitto, per circa sei anni, Francesco Antonelli, figlio di don Michele, aveva prestato servizio militare nella cittadella di Messina che aveva lasciato nel marzo del 1798 per fruire di una licenza. La guerra lo aveva bloccato in Paterno, ma ora che l’esercito cui apparteneva era vicino, sentì il dovere di presentarsi. Giunto ad Ariano, venne il suddetto Francesco, dal suddetto Generale, per i servizi prestati al Ré, anteposto al grado di tenente con patentali firmate dal medesimo2.

Il passaggio del cardinale Ruffo fu una calamità per l’Irpinia. Nessun paese fu risparmiato dai saccheggi operati dalla plebaglia e da bande di briganti che per l’occasione si proclamavano realisti. Il 13 giugno 1799 il cardinale Fabrizio Ruffo entrò in Napoli, concordando la resa con i ribelli, ma la regina e Nelson non mantennero fede ai patti. Fu costituita un’apposita Giunta di Stato per i processi a carico di coloro che avevano offerto collaborazione agli invasori francesi, e non poche furono le condanne a morte comminate, e gli esili, le confische di beni, il carcere duro.

Smobilitava l’esercito. Ai principi del 1800 i primi reduci di Paterno fecero ritorno alle loro case portando la notizia della morte di Michele Girolamo: Gennaro Barbieri attesta, e depone, come essendo stato in Alvito nell’accampamento a servire la Maestà del Nostro Sovrano in qualità di soldato della nuova leva di volontarij, nella prima Compagnia del Regimento detto l’aggreggente, nella quale Compagnia stava pure a servire della medesima qualità il suo paesano D. Michele di Girolamo, lo stesso passò da questa all’altra vita verso il mese di Febbraio dell’anno millesettecentonovantasette, non ricordandosi con distinzione la giornata per la lunghezza del tempo, il quale fu sepolto nell’accampamento medesimo dentro del terreno. Nicola Mazza attesta, e depone, come verso il mese di Novembre dell’anno millesettecentonovantotto, non ricordandosi con distinzione la giornata anche per la lunghezza del tempo, ritirandosi dall’accampamento di San Germano, indove stava benanche da soldato a servire la Maestà del Ré, D. G. (Dio guardi), arrivato fu in Capua ivi s’incontrò colli sui paesani Vito Passero, e Giuseppe Gambino soldati di Cavalleria, li medesimi li diedero notizia, e l’accertarono, che il suddetto D. Michele di Girolamo era morto nell’accampamento di Alvito, onde ne avesse esso data notizia al Paese se mai si ritirava.

Antonio Palermo, Giuseppe Vucedomini, e Pasquale Petruzziello attestano, e depongono, come da circa due anni dietro essendosi ritirata molta gente dall’accampamento, dove stavano a servire la Maestà del Ré, D. G., da soldati, intesero dire tra la gente, e fra la gente di questo Paese, che il precitato magnifico D. Michele di Girolamo era morto nell’accampamento di Alvito1.

Altri riferirono della morte del tenente Francesco Antonelli, caduto in azione di guerra nel corso dell’avanzata per la riconquista di Napoli.

Intanto i processi sommari, i sequestri di beni, i saccheggi a cui erano sottoposti cittadini spesso incolpevoli sconvolgevano la provincia. Per il ruolo svolto a sostegno degli invasori giacobini dal feudatario Ettore Carafa d’Andria, furono confiscati i beni di cui era proprietaria in Paterno la di lui famiglia. Il 2 marzo 1800 Andrea e Paolo de Iorio furono condannati a 20 anni di deportazione, ed il 6 aprile al frate Ignazio Stanchi fu inflitta analoga pena di 15 anni.

Inesorabilmente si precipitava nel caos. Un primo grido d’allarme era stato lanciato nel settembre del 1799 dallo stesso cardinale Ruffo il quale aveva illustrato al re come lo stato di disordine e di sconvolgimento, in cui trovasi il regno per l’insolenza della plebe, la quale sotto finto zelo ed attaccamento alla Corona va per tutto rapinando e saccheggiando, porta il guasto nelle famiglie e lo scompiglio nella società.

Gli aveva fatto eco, nel novembre successivo, il Ludovici che aveva chiesto al Luogotenente Francesco Statella di adottare provvedimenti per l’abolizione dei sequestri di beni immobili perché per l’immenso numero loro soffre l’agricoltura, e le famiglie sono ridotte all’estrema disperazione, anche per saccheggi sofferti2.

In tale stato di confusione, ancora una volta un sacerdote di Paterno si trovò coinvolto in uno scandalo. Nell’ottobre del 1800, in località Piano, fu rinvenuto il corpo privo di vita di Elisabetta Volpe di Mirabella, donna publica, attaccata or con uno or con un altro, che colle sue lascivie ha caggionati molti omecidii in questa suddetta terra. Corse voce che dell’assassinio fosse responsabile il reverendo Don Pasquale Guida, ma Tommaso Gambino, Nicola Sarni, Nicola Antonelli, Vito Passaro e Lorenzo Iannuzzo sostennero che all’ora del delitto il sacerdote era in loro compagnia3.


1 La neviera era costituita da una profonda e larga fossa scavata nel terreno in cui, nel periodo invernale, veniva accumulata e compressa neve subito ricoperta di paglia su cui, al suono dell’organetto, esaltati da abbondanti libagioni, ci si abbandonava alle più sfrenate tarantelle.

L’ultima neviera è stata operante fino ai primi anni del XX secolo in località Serra, a ridosso di una incompiuta villa gentilizia del 1843 di proprietà della famiglia de Jorio, di recente reinterpretata, per l’esecuzione dell’impresa edile dei cugini Gregorio, dall’architetto Alessandro Di Blasi.

2 Archivio di Stato di Avellino - Nota a tergo del protocollo dell’anno 1800 del notaio Nicola de Rienzo - Protocolli notarili - Fasc. 1912.

3 Archivio di Stato di Avellino - Protocolli notarili, Distretto di Sant’Angelo dei Lombardi: Notai di Paternopoli - Fasc. 1912.

4 Il riferimento è al mese di agosto 1798, intendendo col termine “revoluzione” il periodo di tempo compreso fra l’inizio della mobilitazione generale e la fine degli eventi bellici.

5 Archivio di Stato di Avellino - Protocolli notarili, Distretto di Sant’Angelo dei Lombardi: Notai di Paternopoli - Fasc. 1925.

1 Archivio di Stato di Avellino - Protocolli notarili, Distretto di Sant’Angelo dei Lombardi: Notai di Paternopoli - Fasc. 1925.

2 Pioppi adorni di fiori, bandiere e coccarde, con un berretto frigio in cima, erano stati piantati, all’epoca della Rivoluzione francese, in vari comuni di Francia, a simboleggiare l’emancipazione dalla tirannide della monarchia, della nobiltà e del clero.

3 Archivio di Stato di Avellino - Protocolli notarili, Distretto di Sant’Angelo dei Lombardi: Notai di Paternopoli - Fasc. 1925.

1 Archivio di Stato di Avellino - Protocolli notarili, Distretto di Sant’Angelo dei Lombardi: Notai di Paternopoli - Fasc. 1925.

2 Francesco Scandone: Giacobini e Sanfedisti nell’Irpinia, in Archivio storico per le province napoletane - Nuova seria - Anno 1929.

3 La data è inesatta. La testimonianza, resa l’8 agosto, a distanza cioè di circa quattro mesi, ne ammette l’approssimazione col ricorso all’avverbio “verso”. In effetti l’evento ebbe luogo fra il 24 ed il 26 aprile 1799.

1 Archivio di Stato di Avellino - Protocolli notarili, Distretto di Sant’Angelo dei Lombardi: Notai di Paternopoli - Fasc. 1925.

2 Archivio di Stato di Avellino - Ibidem.

3 Antonio Palomba ed Elio Romano: Storia di Grottaminarda, il paese di San Tommaso - Grottaminarda 1989.

4 Archivio di Stato di Avellino - Protocolli notarili, Distretto di Sant’Angelo dei Lombardi: Notai di Paternopoli - Fasc. 1925.

1 Archivio di Stato di Avellino - Protocolli notarili, Distretto di Sant’Angelo dei Lombardi: Notai di Paternopoli - Fasc. 1925.

2 Archivio di Stato di Avellino - Protocolli notarili, Distretto di Sant’Angelo dei Lombardi: Notai di Paternopoli - Fasc. 1925.

1 Archivio di Stato di Avellino - Protocolli notarili, Distretto di Sant’Angelo dei Lombardi: Notai di Paternopoli - Fasc. 1925.

2 Francesco Scandone: Giacobini e Sanfedisti nell’Irpinia, in Archivio storico per le province napoletane - Nuova serie - Anno 1930.

3 Archivio di Stato di Avellino - Protocolli notarili, Distretto di Sant’Angelo dei Lombardi: Notai di Paternopoli - Fasc. 1923.

Diritto alla Storia, Verso la conclusione del XVIII secolo

Diritto alla Storia - Capitolo 26

Anche agli eventi straordinari si finì col fare l’abitudine. La vita in Paterno riprese a scorrere con apparente monotonia eppure in sintonia con i tempi che mutavano, pur perdurando l’antica litigiosità alimentata dalle gelosie e da persistenti tentativi di prevaricazione.

Era stato impiantato l’ufficio di posta che, nel 1775, era gestito da Ciriaco Iannuzzo1. Era però un servizio inaffidabile quello postale in quanto svolto da corrieri non sempre diligenti e comunque esposti alle insidie delle strade. Era opportuno, da parte del mittente, duplicare ogni volta la missiva da recapitare ad uno stesso destinatario, indicando per ciascuna delle due copie itinerari diversi da seguire, in modo che, riducendo i rischi di smarrimento, aumentassero le possibilità di ricezione del messaggio.

Per mantenere sotto controllo i prezzi dei generi di prima necessità l’università continuava a detenere il monopolio della macelleria e del forno, le cui gestioni venivano annualmente rinnovate col sistema solito dell’asta pubblica della durata di accensione di una candela. Fu don Michele Beneventano che si aggiudicò l’appalto del forno nell’anno 17762.

Permaneva in piazza, in locali di proprietà della famiglia Rossi, la Corte di Giustizia di cui, nell’anno 1777, era Mastrodatti Antonio Rosanio3. Anche il carcere, ritenuto decentrato e non idoneo alla detenzione dei due diversi sessi, stante l’indivisibilità dell’unico ambiente, dagli antichi sotterranei della torre aragonese era stato trasferito in prossimità della Corte di Giustizia. Ma la nuova sistemazione non soddisfaceva dal punto di vista igienico-sanitario tanto che, il 27 aprile 1801, un gruppo di cittadini ebbe a dolersene, in un esposto trascritto dal notaio Liberatore di Martino, evidenziando come il carcere ... è situato nella Piazza di questa istessa terra, che lo stesso carcere sia orrido, di pessima qualità, molto umido, ed affossato ... i detenuti in esso sono cascati ammalati4.

Altro motivo di lagnanza era offerto dalla gestione del mulino baronale, tuttora tenuto in fitto da Pasquale de Rienzo. Del malcontento dell’utenza, il 6 maggio 1779, si fecero portavoce Salvatore Cappetta, Angelo Forino, Antonio Venafra, Crescenzo Zucaro, Carmine di Sabbato d’Amato, Pasquale Grasso, Pasquale Cantarella e Francesco Forino. Costoro dichiararono al notaio Nicola d’Amato che li Garzoni delle molina di detta terra, oltre il jus della molitura che si prendono, vogliono ancora la farina della adunatura, o sia insaccatura della medesima, ed alle volte se la prendono forzosamente; e se essi costituiti, ed altri cittadini se la vogliono essi adunare, o insaccare, li suddetti garzoni ne la fanno di mala qualità, e solo spaccata, motivo per cui molte volte vi sono insorte rissa, ed hanno maltrattato li cittadini suddetti, come pure più inoltre li fanno opprimere dalli forastieri, li quali occupano tutte le molina5.

La disonestà e l’arroganza degli addetti al mulino, e l’impossibilità di ottenere un trattamento equo, indussero un numero sempre maggiore di cittadini a servirsi, nascostamente, dell’impianto di macina della vicina terra di Luogosano. Col tempo però il fenomeno assunse proporzioni tali che, il 12 aprile 1794, li Magnifici Pasquale de Rienzo e Giovanni Iorio, fittatori delli molini dell’Ecc.mo Signor Duca d’Andria, Padrone di questa terra di Paterno, hanno richiesto l’attuale Governante di questa terra, facendoli presente come la maggior parte di questi cittadini andavano a macinare nelli molini del Cossano, in frode e danno di essi fittatori, quando che, a tenore dell’obbligo stipulato, sono tenuti forzosamente andare, e venire a macinare nelli molini di questa terra, ed esigere la molitura di un quarto a sacco, onde domandano il suo braccio per poterli arrestare e pigliare, e la farina intercettare6.

Con ostinata protervia il mugnaio Pasquale de Rienzo perseguiva metodi anacronistici. Sembrava non rendersi conto delle profonde trasformazioni in atto nella società, dovute sia ad un sensibile abbassamento della soglia di analfabetismo, sia alla sempre maggiore mobilità delle masse che favoriva la diffusione delle idee e l’acquisizione della consapevolezza dei diritti di ogni singolo cittadino.

Anche il servizio di leva nel regio esercito contribuiva a dischiudere ai giovani più vasti orizzonti. Il sistema di arruolamento era ispirato a criteri di democraticità ed atto a garantire alle attività produttive una presenza di forza-lavoro sufficiente. Infatti il reclutamento veniva operato esclusivamente in seno a quelle famiglie in cui la prole maschile adulta non fosse stata inferiore alle tre unità. Conformemente a ciò, il 26 maggio 1782, avendosi convocato pubblico parlamento per l’elezzione del nuovo Regimento Nazionale, si sono unite tutte le famiglie così delli cinque, come delli quattro e delli tre, e si sono poste in urna, e se ne sono estratte dieci, o undici. A scrutinio segreto, in quanto erano richiesti buoni requisiti morali, la cittadinanza eleggeva, fra quelli appartenenti alle famiglie sorteggiate, i giovani che avrebbero prestato servizio militare. Sono stati inclusi per soldati del suddetto Regimento li suddetti Giovani, Giuseppe Calvano, Domenico di Blasi, Francesco Iannuzzo, Francesco Gallo e Giuseppe Barbiero, li quali sono delle famiglie delli tre, di unita con Pasquale d’Amato di Tomaso, e Biaggio Mastrominico, che sono delle famiglie delli quattro1.

Parimenti la fiera annuale consentiva confronti e scambi di idee. Questa si svolgeva regolarmente ogni anno, dal primo sino a tutto il nono giorno del mese di maggio. Non si procedeva però, come un tempo, alla nomina del mastro di fiera, ma da alcuni anni ormai tale funzione veniva esercitata dal sindaco in carica2.

Pure la scelta degli amministratori era ormai orientata verso persone più consapevoli e libere da condizionamenti. In nome e per conto della comunità che legittimamente rappresentavano, non trascuravano, costoro, di riappropriarsi di talune prerogative sottratte dal clero all’università. Previo regio benestare, il 2 novembre 1782, in seguito alla morte del reverendo Don Ferdinando Rinaldi di Napoli, il sindaco Vincenzo Iorio e gli Eletti Nicola Maria d’Amato e Francesco Barbieri, considerato che per il passato la nomina suddetta fu usurpata dalla Corte Romana ... eligono, nominano e presentano per Rettore, Abbate e Cappellano del Beneficio della Chiesa di Santa Maria a Canna il Rev. Sacerdote D. Carlo Braccio, atto, abile ed idoneo al governo del Beneficio predetto3.

Nonostante le puntigliose rivendicazioni che molto spesso vedevano contrapposti i cittadini al clero, restava radicato nel popolo un profondo senso di religiosità che puntualmente si traduceva in opere di interesse comune. Il 20 novembre 1783 Giovanni Iuorio, amministratore della cappella della Beata Vergine della Consolazione, rese noto che Don Pietro Andreatini della città di Napoli, come suo Priore, e di suo ordine, sotto il dì tredici del corrente mese di Novembre, ad anno 1783, stipulò lo istrumento di convenzione col magnifico Michele Salemme, anche di Napoli, mastro Marmoraro, per costruire, e fare in detta cappella la balaustrata di marmo di tutta bontà, qualità e perfezione con le tre portelle di ferro ottonato secondo la mostra (il progetto), fra lo spazio di mesi sette decorrenti dal detto giorno della stipula dell’istromento, per lo convenuto prezzo espressolo in detto istromento rogato per mano del magnifico Notar D. Luca Salzano di detta città di Napoli4.

Il prezzo convenuto per il lavoro era stato fissato in 225 ducati, da corrispondersi in questo modo, cioè, docati centocinquanta d’esse nell’atto ... ed il restante delle suddette summe pagarlo alla raggione di docati venti l’anno fino all’estinzione del totale importo de lavori ... e pagar l’interesse scalare alla raggione del quattro per cento1.

Sebbene non ci si sottraesse all’impegno di rendere sempre più decorosa la cappella di Maria Santissima della Consolazione nella quale ognuno riconosceva la propria appartenenza spirituale, non pochi ambivano ad un altarino personale davanti al quale raccogliersi in preghiera. Ve ne erano di assai modesti, costituiti da semplici statue di ridotte dimensioni protette da campane di vetro, ed altri, più preziosi, i cui simulacri erano custoditi in teche o in scrigni portatili di legno intarsiato. Non mancava chi disponesse addirittura di un vero e proprio altare in pietra, né chi se ne facesse costruire uno in legno. In ciò non volle essere da meno Giuseppe de Mattia il quale, il 4 dicembre 1783, ottenne che fosse benedetta la cappella privata sotto il titolo di Maria Santissima della Concezione, da lui eretta in uno stipone, cioè in un grosso armadio, all’interno della propria casa palaziata in via San Vito, avendone ottenuto licenza dalla Curia Vescovile in quanto la sua abitazione era sita in luogo lontana dalla Chiesa Parrocchiale dove volendo andare deve ascendere necessariamente per una rapida salita, per dove passa tutta l’acqua del Paese, e le lave delle pioggie, e delle nevi disciolte in tempo d’inverno, in cui è affatto impraticabile2.

Anche numericamente il paese era cresciuto. Ora Patierno, della diocesi di Frigento, contava 2618 abitanti3, pure se il tasso di crescita risultava piuttosto contenuto. Infatti, sebbene il numero delle nascite superasse di regola le cento unità annue, per la mancanza assoluta di igiene la mortalità infantile si manteneva su livelli elevati, raggiungendo e talvolta superando il tasso del cinquanta per cento. A fronte dei 104 nati, i bambini deceduti nell’anno 1783 furono 51. Di questi, 9 non avevano compiuto neppure il terzo mese di vita, mentre complessivamente in 20 non erano riusciti a superare il primo anno di età. Nell’anno 1785, poi, furono addirittura 94 i decessi che interessarono la fascia d’età compresa fra lo 0 ed i 6 anni, di cui 33 nel solo mese di novembre4.

Gli spazi destinati alle sepolture si erano fatti insufficienti. Il vecchio cimitero manifestava con crepe e cedimenti strutturali l’incuria degli uomini e le ingiurie del tempo. Le ossa dissepolte, ammassate alla rinfusa sulle mensole disposte alle pareti, si erano elevate fino ad occludere le alte finestre prive di vetri e, non di rado, battute dal vento, franavano sulla via sottostante. Offrivano un macabro spettacolo i miseri resti che calcinavano al sole, e si facevano pressanti le istanze di destinare loro un ricovero decoroso e definitivo, degno del rispetto e della pietà dovuti.

Il processo di trasformazione e di crescita, troppo repentino per risultare immune da squilibri e da tensioni, finì col comportare una recrudescenza delle attività delinquenziali. Ne fu vittima Giuseppe Caliberto nel 1785, anno in cui esercitava la funzione di Mastrodatti della Corte di Paterno. Nottetempo, fu ferito con un colpo di scoppettata (di fucile) e, interrogato, non seppe indicare i propri feritori, pur esprimendo sospetti su Francesco d’Antonio Iannuzzo e sui fratelli Onesto e Pasquale di Pietro. Non sopravvisse alla ferita riportata e del suo omicidio, l’8 giugno 1786, fu giudicato colpevole, e quindi rinchiuso in carcere, Francesco d’Antonio Iannuzzo.

A distanza di un anno però, esattamente l’8 giugno 1787, Pasquale Cuoci e Nicola Rosa dichiararono al notaio Giuseppe di Natale che, discutendo dell’atto criminoso con Angelo Riccardi, questi aveva esclamato: Che Francesco Iannuzzo, che Francesco Iannuzzo; siamo stati noi che l’abbiamo ucciso5.

I furti erano divenuti pratica quotidiana, ben oltre la tradizionale asportazione di prodotti agricoli dai fondi più decentrati ed incustoditi che comunque si giustificava con la miseria e la necessità di sopravvivenza. I nuovi ladri erano spinti dall’avidità più che dal bisogno e non esitavano ad introdursi nelle case per sottrarvi quanto di più prezioso contenessero, al fine di trarne lucro.

Nell’aprile del 1787 Ciro Mattia fu derubato di alcune lenzuola, che custodiva in casa in un cesto, ed indirizzò i suoi sospetti verso Domenico d’Amato, da cui era diviso da un astio profondo. Al fine di dimostrare la colpevolezza del proprio nemico, l’uomo iniziò ad indagare presso le vicine di casa. Le richieste però, reiterate e improntate a caparbia animosità, assunsero toni sì insistenti ed intimidatori che Caterina Zollo, Nicolina Strafezza, Giovanna Ragozzino, Teodora Pecce e Giuseppina di Stasio ricorsero al notaio Nicola d’Amato perché prendesse atto delle pressioni e delle minacce a cui Ciro Mattia le andava sottoponendo1.

Nella nuova concezione assunta dall’etica, l’indebitamento non venne più ad essere considerato disonorevole. Purtroppo però la facilità con cui si faceva ricorso a prestiti si traduceva sovente nell’impossibilità di restituzione delle somme ricevute, spesso gravate di onerosi interessi, per cui, gli incauti, venivano a trovarsi esposti al rischio della privazione di beni, e talvolta degli stessi strumenti di lavoro indispensabili al sostentamento delle famiglie. Fu quanto accadde a Pasquale Venafra nel febbraio del 1789 allorché Domenico Antonio Mastroiacono, Giurato della Corte di Paterno, ad istanza di Pasquale Vecchia, eseguì nella sua casa, sita in via Baracche, oggi corso Garibaldi, il pignoramento di un caldajo (pentola) di rame, una tiella (padella) di rame, una zappa, e due zappelli2, vale a dire tutto quanto la misera bicocca di assi e di paglia conteneva.

In tale clima di illiceità le carceri di Paterno erano sempre stracolme. Il 29 ottobre 1791, di sabato, invece, ne era eccezionalmente unico ospite Lorenzo Iannuzzo il quale, in pieno giorno, praticò un’apertura nel muro che la cella aveva in comune con la casa di Lucia Troisi e riguadagnò la libertà. Si sospettò della complicità della donna, la quale però riuscì a dimostrare la propria totale estraneità al fatto, avendo trascorso l’intera giornata a lavorare nel proprio terreno in località Taverne, unitamente ad una donna assunta come giornaliera3.

Profondi mutamenti politici si apprestavano intanto all’orizzonte. La scintilla che aveva innescato la deflagrazione di un nuovo radicalismo libertario era scoccata in Francia dove, più che altrove, la feudalità e i privilegi opprimevano l’economia. L’acuirsi dei contrasti fra la nobiltà ed il clero da una parte e la borghesia dall’altra era sfociata in una sommossa popolare che, il 14 luglio 1789, si era conclusa con la liberazione dei detenuti rinchiusi nella Bastiglia. L’anarchia aveva travolto il Paese. Voci di progetti di controrivoluzione avevano spinto migliaia di persone a marciare su Versailles da dove, non ritenendosi al sicuro, il 6 ottobre i sovrani erano fuggiti per riparare a Parigi.

Nell’anno 1790 aveva preso il sopravvento il partito della Gironda, di idee moderate e disponibile ad una monarchia costituzionale. Tuttavia le ali più radicali ed errati calcoli politici indussero Luigi XVI a dichiarare guerra, il 20 aprile 1792, a Francesco II, re di Boemia e di Ungheria, ma le inevitabili sconfitte in cui incorse il disorganizzato esercito francese fecero ritenere il sovrano reo di tradimento per cui, il 10 agosto 1792, fu arrestato ed imprigionato.

Il 21 settembre 1792 la Francia si proclamò repubblica. Processato e riconosciuto colpevole, Luigi XVI fu ghigliottinato il 21 gennaio 1793. Il Paese precipitò nel caos. Col disordine sociale crebbe la miseria che, a sua volta, finì col portare alla ribalta l’estremismo repubblicano rappresentato dal partito dei Giacobini. L’odio di classe esplose con violenza ed ebbe inizio il cosiddetto periodo del terrore.

Finalmente, stanco degli eccidi, il 27 luglio 1794 il popolo si rivoltò contro Robespierre ed i suoi seguaci mettendoli a morte. Del nuovo stato di confusione approfittarono i monarchici col porre in atto un tentativo di riprendere il potere, ma il pericolo fu scongiurato per l’intervento di un giovane generale corso che rispondeva al nome di Napoleone Bonaparte. L’istituzione repubblicana ne uscì consolidata.

La rivoluzione francese trovò vasti consensi in tutta Europa, soprattutto presso i ceti sociali più elevati e negli ambienti culturali uniformati al movimento illuministico.

Al contrario, a Paterno, se ne preoccupò il sacerdote Don Nicola d’Amato. Egli considerava con timore il diffondersi delle idee giacobine, fondamentalmente anticlericali, che avevano portato in Francia alla confisca dei beni della Chiesa e minacciavano l’esistenza stessa dello Stato Pontificio. Le sue apprensioni e le sollecitazioni ad orientare l’opinione popolare cozzavano però contro l’ottusa indifferenza del clero locale, diviso da gelosie ed attento solo a meschini interessi personali. Addirittura, per oscure ragioni, il reverendo Don Tommaso Rosanio osteggiava con ogni mezzo la presenza del sacrestano mastro Basilio Balestra. Si disse che fosse giunto a minacciarlo con la pistola perché lasciasse tale incarico. Il 6 dicembre 1794 però mastro Basilio negò la fondatezza delle dicerie, dichiarando in presenza del notaio Nicola de Rienzo che le accuse mosse al sacerdote erano pure illazioni e che le presunte minacce erano smentite dal disinteresse col quale egli, il sacrestano, svolgeva il proprio compito, per non aver bisogno, avendo nelle sue mani l’arte del tessitore di tela, colla quale bastantemente può vivere colla sua famiglia1.

Dalla indolenza, non scevra di grettezza, in cui una cospicua parte del clero era precipitata, emergeva la figura del sacerdote Don Nicodemo Jorio che, avendo ereditato la dirigenza dell’istituto di studi superiori avviato da Don Antonio Pilosi, colla scuola di belle lettere, di filosofia, di teologia e di diritto canonico dirozzò la Provincia, essendo stato anche autore della parafrasi su’ salmi penitenziali2. Fra l’altro, l’illustre sacerdote aveva pubblicato traduzioni dal latino quali le Odi di Orazio, le Elegie di Properzio e le Bucoliche di Virgilio3. Ne era stato discepolo il sacerdote Don Giuseppe de Rienzo, appassionato studioso ed autore di una ricerca storica su Paterno, e per circa due anni nella sua scuola aveva insegnato il reverendo Don Nicola Ruzza della terra di Fontanarosa4.

Don Nicodemo Jorio si mantenne sostanzialmente estraneo al dibattito politico che già segnava le prime spaccature nel paese. Don Nicola d’Amato invece maturava sempre più la convinzione di dover assumere un impegno diretto a sostegno del regime, ravvisando nel nuovo sistema di ispirazione transalpina pericoli di destabilizzazione per il potere temporale della Chiesa. Purtroppo però non godeva di eccessive simpatie per il suo carattere impulsivo ed intransigente che gli aveva procurato non pochi nemici. Fra questi ci fu chi approfittò del clima di sospetto che si andava instaurando per sporgere contro di lui denunzia di cospirazione.

In conseguenza di ciò, agli inizi di maggio del 1797, il reverendo Don Pietro Barbieri fu convocato dal luogotenente della Corte di Paterno, don Antonio di Martino, il quale gli chiese se mai il Sacerdote D. Nicola d’Amato di detta terra avesse proferite parole, o dette parole inciuriose contro li Nostri Sovrani (Dio Guardi); al che l’interpellato rispose che il riferito Sacerdote D. Nicola mai aveva detto parole male, o inciuriose, contro le dette Maestà Loro, ma bensì in ogni occorrenza che di loro si parlava, il riferito Sacerdote D. Nicola ne aveva parlato con ogni umiliazione, riverenza e rispetto1.

Il più accanito fra i nemici di Don Nicola d’Amato era senza dubbio Cristofano Leone il quale, qualche anno addietro, a conclusione di un diverbio, ne era stato bastonato. L’umiliazione patita aveva alimentato nell’uomo un desiderio di vendetta che l’attuale situazione politica, greve di incertezze e di sospetti, invitava a consumare. Il 3 maggio 1797 costui avvicinò Ciriaco Raozino e li disse, voi siete stati sempre inimici della casa di D. Nicola d’Amato, mò è tempo di precipitarlo, e vendicarti, perché à commessi dilitti, che à grazia meritano la galera. Suggeriva costui al Raozino di recarsi dal luogotenente don Antonio di Martino a cui dovea dire avere il detto D. Nicola biastemato (bestemmiato), non ricordandosi però la biastema; li disse che avesse deposto come pure che aveva stracciato un Messale, e che aveva buttato a terra un calice, e si era rotto, ed in ultimo che aveva il prefato D. Nicola detto male di S. Maestà, Dio guardi.

Assicurava, Cristofano Leone, che altri avrebbero testimoniato contro il sacerdote, e cioè Angiolo Caporizzo inimico ancora di detto D. Nicola, per averli lo stesso giorni passati uccise tre sue pecore, che le ritrovò a danneggiare nel suo territorio; Caterina Beneventano e suo figlio, anche questi inimici del prefato D. Nicola, per aversi lo stesso portate le di loro pecore, giorni passati, avendole trovate a dannificare anche nel suo territorio; e che ci sarebbe stato ancora Francesco Pecce.

Ciriaco Raozino però non se la sentì di prendere parte alla congiura e, nonostante fosse nemico giurato di Don Nicola d’Amato, a discolpa dello stesso, il 16 agosto 1797, rivelò la losca trama al notaio Giuseppe Piccarini che ne prese nota nel proprio protocollo2.

Apparentemente nulla era cambiato nelle abitudini del popolo minuto: le giornate trascorrevano nel consueto lavoro, la domenica i pellegrini giungevano sempre numerosi a rendere omaggio alla Sacra Immagine di Maria Santissima della Consolazione, le sere d’estate ci si riuniva fuori degli usci a ricordare i tempi andati, nelle fredde sere di inverno si era soliti recarsi presso famiglie amiche ove le donne arrostivano patate sotto la brace del caminetto e gli uomini tiravano fino ad ora tarda a giocare vino al tocco (morra)3. La gente si interrogava perplessa sugli eventi, incapace di cogliere il senso dei mutamenti da più parti auspicati, ma poiché i fautori delle nuove idee si identificavano con la classe da sempre dominante, istintivamente era indotta a parteggiare per la monarchia dei Borboni.


1 Archivio di Stato di Avellino - Protocolli notarili, Distretto di Sant’Angelo dei Lombardi: Notai di Paternopoli - Fasc. 1913.

2 Archivio di Stato di Avellino - Protocolli notarili, Distretto di Sant’Angelo dei Lombardi: Notai di Paternopoli - Fasc. 1923.

3 Archivio di Stato di Avellino - Protocolli notarili, Distretto di Sant’Angelo dei Lombardi: Notai di Paternopoli - Fasc. 1913.

4 Archivio di Stato di Avellino - Protocolli notarili, Distretto di Sant’Angelo dei Lombardi: Notai di Paternopoli - Fasc. 1918.

5 Archivio di Stato di Avellino - Protocolli notarili, Distretto di Sant’Angelo dei Lombardi: Notai di Paternopoli - Fasc. 1921.

6 Archivio di Stato di Avellino - Protocolli notarili, Distretto di Sant’Angelo dei Lombardi: Notai di Paternopoli - Fasc. 1911.

1 Archivio di Stato di Avellino - Protocolli notarili, Distretto di Sant’Angelo dei Lombardi: Notai di Paternopoli - Fasc. 1921.

2 Archivio di Stato di Avellino - Ibidem.

3 Archivio di Stato di Avellino - Protocolli notarili, Distretto di Sant’Angelo dei Lombardi: Notai di Paternopoli - Fasc. 1903.

4 Archivio di Stato di Avellino - Protocolli notarili, Distretto di Sant’Angelo dei Lombardi: Notai di Paternopoli - Fasc. 1910.

1 Archivio di Stato di Avellino - Copia della stipula di contratto fra Don Pietro Andreatini e Michele Sallemme, redatta dal notaio don Luca Salzano, inserita in Protocollo notarile dell’anno 1783 del notaio di Paterno Nicola de Rienzo - Fasc. 1910.

2 Archivio di Stato di Avellino - Protocolli notarili, Distretto di Sant’Angelo dei Lombardi: Notai di Paternopoli - Fasc. 1903.

3 Giuseppe Maria Galanti: Della descrizione geografica e politica delle Due Sicilie, Tomo IV - Napoli 1790.

4 Archivio della Parrocchia di San Nicola di Paternopoli - Registri degli infanti morti.

5 Archivio di Stato di Avellino - Protocolli notarili, Distretto di Sant’Angelo dei Lombardi: Notai di Paternopoli - Fasc. 1903.

1 Archivio di Stato di Avellino - Protocolli notarili, Distretto di Sant’Angelo dei Lombardi: Notai di Paternopoli - Fasc. 1922.

2 Archivio di Stato di Avellino - Ibidem.

3 Archivio di Stato di Avellino - Protocolli notarili, Distretto di Sant’Angelo dei Lombardi: Notai di Paternopoli - Fasc. 1904.

1 Archivio di Stato di Avellino - Protocolli notarili, Distretto di Sant’Angelo dei Lombardi: Notai di Paternopoli - Fasc. 1911.

2 Paolino Macchia: Sulla valle d’Ansanto e sulle acque termo-minerali di Villamaina in Principato Ultra - Napoli 1838.

3 Biblioteca Provinciale di Avellino - Carlo Aristide Rossi: Provincia di Avellino: Monografia de’ 128 comuni della Provincia - Manoscritto ricopiato nell’anno 1946.

4 Archivio di Stato di Avellino - Protocolli notarili, Distretto di Sant’Angelo dei Lombardi: Notai di Paternopoli - Fasc. 1911.

1 Archivio di Stato di Avellino - Protocolli notarili, Distretto di Sant’Angelo dei Lombardi: Notai di Paternopoli - Fasc. 1923.

2 Archivio di Stato di Avellino - Ibidem.

3 Archivio di Stato di Avellino - Protocolli notarili, Distretto di Sant’Angelo dei Lombardi: Notai di Paternopoli - Fasc. 1910.

Diritto alla Storia, Prima incoronazione della Vergine Santissima della Consolazione

Diritto alla Storia - Capitolo 25

Non si era interrotta la serie di prodigi iniziata nel lontano 1751, né si era affievolita la devozione del popolo, più che mai orgoglioso di godere delle grazie di sì Misericordiosa Madre. Si imponeva un atto di gratitudine e prevalse l’orientamento di tributare alla Sacra Immagine gli onori di una solenne incoronazione. A tale scopo, il 23 settembre 1770, il notaio Nicolò de Rienzo raccolse le testimonianze dei miracoli più significativi di cui corredare l’istanza da trasmettere al Capitolo Vaticano:

Si sono in nostra presenza constituiti il moltissimo Reverendissimo Sig. D. Tomaso Mattia Arciprete Curato della Chiesa Maggiore sotto il titolo di S. Nicolò de Bari di questa terra di Paterno, i Reverendi Signori Sacerdoti D. Tomaso Ricca, D. Ciriaco Mattia, D. Alberto d’Amato, D. Goglielmo Marra, D. Nicolò d’Amato, D. Domenico Mattia, D. Angelo Conte, D. Pasqua, e D. Gio: Rosanio, D. Crescenzo, e D. Carlo Bonaventura, D. Domenico Mele, D. Tomaso Petroziello, D. Giuseppe Mastrominico, D. Alessandro de Martini, D. Alessandro, D. Pasquale, e D. Francesco Barbiero, D. Casimiro Sarni, in una radunati ad sonum campanelli entro la Sacrestia di detta Chiesa Madre, i quali ... dichiarano et attestano in nostra presenza, qualmente essi loro sanno benissimo, come anche per tradizione de’ loro predecessori, che l’Altare sotto il titolo di Maria Santissima di Consolazione con quadro immezzo, sul quale sta dipinta l’Effigie suddetta et antigua è stato situato sempre dentro la Chiesa Madre; e quantunque da molti anni la detta Chiesa dovette demolirsi, et de nuovo edificarsi con nuove fabriche, parimenti de nuovo furno costrutti tutti li suddetti Altari, come anche quello summontovato (sopra menzionato) della Vergine di Consolazione. Ben vero però il suddetto quadro antico non è stato mai rimosso dal suddetto suo luogo, e quantunque si fusse dipinto altro nuovo quadro di detta Beata Vergine, questo fu situato, e posto sopra il detto quadro antico, come presentemente ritrovasi, con cristallo e pannetto (tendaggio) per maggiore adorazione, e venerazione. Nell’anno 1751 stando in detta Chiesa il Signor mastro Gio: Pasquino ingegniero facendo le cornici a li due quadri grandi situati immezzo la crociera e l’altro immezzo la nave (navata) grande della suffitta di detta Chiesa, capitò in questa terra Gio: Battista d’Amato de’ casali de Benevento muto non di natura nato, ma da cinque anni prima per un tocco apopletico si ritirò la lingua, e s’offese un braccio, sapendo egli di legere, e scrivere, lo quale andava elemosinando per questa terra, et avendo richiesta l’elemosina ad essi Sacerdoti D. Nicola d’Amato, e D. Guglielmo Marra immezzo la piazza per via de segni colle mani, e balbuziando colla lingua, questi riguardandosi non lo facesse ad arte per procacciare danaro, feronli aprire la bocca per vedere se veramente era muto, come in fatti tale era, osservarno, e viddero la lingua tirata dentro le fauci, che poco, o niente pareva, e così esso Sacerdote postasi mano alla sacca (tasca) pigliò un pezzo (una moneta) e li diede l’elemosina; E dopo lo detto muto per quelli pochi giorni che si trovava in questa terra andava ogni giorno, anzi spesso in Chiesa a fare orazioni inginocchiandosi avanti l’Altare di detta Beata Vergine di Consolazione allora scoverto, senza cristallo avanti; E fatigando dentro la suddetta Chiesa lo detto mastro Gio: Pasquino con altri suoi lavoratori, un giorno il muto suddetto, anche in presenza di essi Sacerdoti D. Alberto d’Amato e D. Guglielmo Marra, et altre persone, stava riguardando con attenzione detto mastro Gio: che stava fatigando su dette cornici, tanto vero che esso mastro Giovanni lo domandò se mai sapeva lavorare di quel mestiere, et il muto facendoli segni li disse di sì, e pigliatosi il calamajo, e carta scrisse con sua propria mano, dichiarando che sapeva fatigare in grande, et in piccolo; a questo, lo detto mastro Gio: artefice datoli i ferri avanti, esso il muto pigliò detti ferri e si pose a fatigare sopra le dette cornici, e perché la sua forza piacque al suddetto mastro ingegniero lo fece fatigare sino la sera, e poi se lo portò seco in sua casa, et il giorno seguente andò nuovamente a fatigare, e nel atto (mentre) fatigava dava sempre, anzi quasi spesso un’occhiata al quadro di detta Immacolata Vergine di Consolazione, la quale li stava dirimpetto, e da quando in quando s’andava ad inginocchiare davanti l’Altare facendo orazione, e seguitando così tre o quattro giorni. Un giorno poi che fu il dì sedici Aprile di detto anno 1751, verso l’ore decirotto (diciotto) in circa, lo suddetto muto secondo il solito s’andò ad inginocchiare avanti detto Altare, e facendo segno ad essi Sacerdoti testificanti, cioè D. Nicola d’Amato, D. Alberto d’Amato, e D. Alessandro Barbiero questo ancora Sagristano, et altri fu (ora deceduti) Sacerdoti D. Filippo Cobelli, e D. Bonaventura Piccarini anche presenti, che si fossero ad esso accostati, come in fatti portaronsi essi vicino lo suddetto Altare; il detto muto balbuziando colla lingua, e facendo segni colle mani voleva che si fossero allumate (accese) due candele avanti lo detto Altare innanzi l’Effigie suddetta come in fatti il fu Sacerdote D. Bonaventura Piccarini entrò in Sacristia, pigliò due candele, l’allumò, e le pose innanzi il suddetto quadro di Maria Santissima di Consolazione, e il detto muto percotendosi il petto fortemente, e balbuziando colla lingua, essi Sacerdoti si posero anche inginocchioni cantando la litania, et il muto non cessava più fortemente di infervorarsi, e pur balbuziando colla lingua proferì colla bocca magnificat Anima mea Dominum, e così si compiacque detta Beata Vergine di Consolazione Maria Santissima ristituirli la loquela (restituirgli la parola) et esso poi, e suddetti presenti Sacerdoti tutti unitamente cantarono e con suono di campane, e spari di mortaretti, al che accorse tutto il Popolo a tal grazia. Nello stesso punto subito si sparse la voce di tal grazia dispensata da detta Beata Vergine di Consolazione al detto muto col restituirli la loquela, immediatamente fu portato in Chiesa il magnifico Gennaro Cobelli nostro paesano, lo quale stava da più tempo con sputi di sangue, e gionto avanti l’Effigie suddetta, in presenza trovossi di tutto il Popolo che era concorso, buttò dalla bocca sopra la grada (il gradino) del Altare una quantità di sangue così grande, et il Sacerdote suo fratello D. Felippo Cobelli davali un cocchiarino d’oglio della lambada (lampada) di detta Beata Vergine che stava accesa, non tantosto postoli in bocca detto oglio, si compiacque detta Beata Vergine di Consolazione farli la grazia restituendoli la pristina sanità (la passata salute) cessandoli lo sputo di sangue, et a tal grazia ricevuta esso magnifico Gennaro Cobelli si denudò di tutte le sue vesti, donandole a detta Beata Vergine facendole ponere appese vicino il muro della detta sua cappella, e si fé dipingere volgarmente detta pittura sotto la soffitta del suo Altare, come oggidì si vede; Tanto vero, dal punto che il muto suddetto ottende (ottenne) la grazia, ogni Persona per devozione si faceva dare dal Sacerdote D. Filippo Cobelli un poco d’oglio della detta lambada, e quella stava sempre nella stessa maniera (colma d’olio), e durò la lambada suddetta a non mancare (e continuò la lampada suddetta a non esaurire l’olio in essa contenuto) per un giorno, e mezzo dispensando dell’oglio a tutti Fedeli j quali se ne facevano riempire le anforine, e pure non si vidde giamai mancare. Dal detto giorno del dì 16 Aprile che alora fu di giorno di venerdì, ogni venerdì alla stess’ora da detti Reverendi Sacerdoti testificanti sempre con concorso del Popolo si canta avanti l’Altare di detta Imagine di Maria Santissima di Consolazione la Magnificat, con la litania, con suono di organo, et in ogn’anno si solennizza ad onore e gloria sua la festività con grande concorso di persone forastiere, anche da lontani Paesi, j quali con viva fede vengono ad adorare detta Beata Vergine chi a piedi scalzi, chi mezzi ignudi, chi con donativi di cere di gambe, piedi, braccia, teste, mammelle, mazze, stampelle, vesti, e cere lavorate, e chi vengono processionalmente cantando rosarij, e litanie tutto in ringraziamento delle grazie rispettivamente ricevute, come comodamente oggi si vede da tutti j doni pendenti avanti la sua cappella. Alla giornata si vedono processioni da lontani Paesi venire a visitare, et a rendere grazie con profonda fede alla detta Beata Vergine di Consolazione per le grazie che alla giornata ha dispensate, e dispensa, come si compiacque la detta Beata vergine dispensare la grazia a Vincenza Mortifera della terra di Capossela (Caposele) a dì undici maggio 1757, questa portata zoppa sopra una calvaccatoja (sella ), con due ossa uscite dalla coscia, calatala da cavallo avanti la porta della Chiesa appoggiata a due stampelle sotto le braccia, fu accompagnata avanti l’Effigie di detta Beata Vergine, ivi gionta buttatasi a terra in dove stiede colla faccia a terra da circa due ora, et con fervore, e vera fede, chiedeva la grazia alla detta Beata Vergine di Consolazione, come in fatti si compiacque detta Beata Vergine concederli la grazia liberandola dalla sua zoppia, e lasciate le dette due stampelle avanti l’Altare, se n’uscì libera, e sana dalla Chiesa ringraziando, e lodando la detta Beata Vergine di Consolazione della grazia ricevuta. Caterina Ricciardi della terra di S. Angelo Lombardi portata entro una fasciatoja (coperta usata a mo’ di barella) in Chiesa di sera non potendosi regere in piedi rotte le gionture tutte, postala entro la stessa fasciatoja entro la Chiesa e posta avanti l’Altare di detta Beata Vergine ed ivi lasciata usandoli la carità (somministrandole il cibo) la gente di questa terra, quindi pigliata, e riportata per più giorni ogni giorno avanti l’Immacolata Beata Vergine di Consolazione, ungendoli il Sacerdote ogni giorno l’oglio della lambada accesa, accapo di giorni (dopo alcuni giorni), si compiacque detta Beata Vergine di concederli la grazia restituendola sana, e libera, che s’alzò sola da dentro la suddetta fasciatoja, e ringraziando la Beata Vergine se n’uscì sola dalla Chiesa, e sola camminando se n’andò alla detta sua Padria (paese), et ogn’anno si porta in questa terra a visitare la detta Beata Vergine di Maria SS. di Consolazione. Un certo monaco francescano di Montella muto da cinque anni per un tocco apopletico, venuto a visitare detta Beata Vergine et inginocchiatosi avanti la sua Imagine, e trattenutosi inginocchioni li si pose in bocca l’oglio della lambada dal Sacerdote, si compiacque detta Beata Vergine concederli la loquela, et ottenuta la grazia se ne tornò al suo monastero in Montella sano, e libero noto a tutti. Un certo tale della città di Bari cieco venuto a visitare detta Beata Vergine ottende la grazia della vista. D. Vittoria moglie di D. Pasquale Trojano della Rocca di S. Felice con una mammella fracida da più anni tagliatila da medici per essere incurabile, venuta a visitare detta Beata Vergine di Consolazione et unto l’oglio della lambada sopra la detta mammella, si compiacque detta Beata Vergine concederli la grazia ristituendoli la mammella, nel stato pristinato di sua salute, et in ringraziamento di tal grazia donò alla detta Beata Vergine una cannacca d’oro. Francesco Carofalo della terra di Leoni (Lioni) infermo per un anno intiero, venuto sopra una calvaccatoja con sua moglie pure inferma a visitare detta Beata Vergine per ottenere la grazia della salute, gionti avanti la Chiesa, e portatesi avanti l’Imagine di detta Beata Vergine, e postosi inginocchioni fé cantare una messa cantata ad onore, e gloria di detta Beata Vergine, e finita la messa il Sacerdote celebrante l’unse dell’oglio della lambada accesa, et unto l’oglio suddetto si ristabilì, e dall’allora in poi stiede bene tanto esso quanto sua moglie per la grazia ricevuta, et ringraziando detta Beata Vergine se ne ritornarono sani, e liberi alla loro Padria. Michele Buccella della terra di Castello di Franci con butti (sbocchi) di sangue per un’anno continuo, fatto voto venire a visitare la detta Beata Vergine come in fatti fé, e portatosi a questa Beata Vergine, subito arrivato fé cantare la litania, e questa finita se li diede un cocchiarino d’oglio della lambada di detta Beata Vergine et in un subito per miracolo se li cessò lo sputo di sangue, e d’allora in poi è stato, e sta presentemente bene, e di perfetta salute, et ogn’anno si porta a visitare la detta Beata Vergine. La magnifica Giustina di Mattia nostra paesana da più anni zoppa per un dolore avuto alla coscia, che bisognava camminare appoggiata alla mazza, fece voto alla detta Beata Vergine e portatasi un giorno in Chiesa nel atto si cantava la magnificat si fece versare l’oglio della lambada, et un’altra carafina se la fé empire per devozione et per grazia del Figlio di Dio, ottende la grazia da detta Beata Vergine e se ne andò in casa bene, e senza mazza, e così si visse sino alli suoi ultimi giorni. Francesco Vosillo della terra di S. Angelo avendo condotto un suo figlio stroppio (storpio) non avendo gionture alle braccia, e portatosi avanti l’Effigie di detta Beata Vergine di Consolazione, pose lo detto suo figlio sopra l’Altare donandolo alla detta Beata Vergine, piangendo dirottamente, et per grazia di Dio Benedetto, si compiacque la detta Beata Vergine di Consolazione consolarlo, alzandosi lo detto figliolo in piedi sano, e salvo, con grande giubilo, e consolazione di tutti, e così il padre tutto consolato, e festante se ne ritornò in casa col figlio sano, et a capo poi di otto giorni che detto figliolo ottende la grazia se ne morì. L’Eccellentissimo Signore D. Emanuele d’Amato Marchese della terra di Castello de Franci confinato in letto con mortale infermità abbandonato da medici appena (a mala pena) poté proferire Maria di Consolazione, et in quell’istante incominciò a passare meglio, cessandoli la febre, et il giorno seguente stiede bene, e si liberò da quella mortale infermità, et alzatosi dal letto si portò a visitare la detta Beata Vergine di Consolazione per la grazia ottenuta, e li donò un’anello d’oro con finissimo rubino, e tre diamanti. La Signora Nicolina Mattioli della terra di Gesualdo appena fatto voto venire a visitare detta Beata Vergine, atteso (poiché) si ritrovava da più mesi confinata in letto da una fiera malattia, non tantosto fatto il voto passò bene, e subito s’alzò da letto, e si portò a sodisfare il voto, e donò a detta Beata Vergine un’anello d’oro. Grazia Guarini della terra di Solofra per un anno di febre esinaurita (debilitata) in modo tale che fu destituta (abbandonata) da medici, fece voto venire a visitare detta Beata Vergine di Consolazione et appena fatto detto voto di venire a visitare la detta Beata Vergine si sentì passare migliore, et ottende la grazia della sanità (guarigione), e dopo alzatasi da letto si portò a sodisfare il voto fatto, e donò a detta Beata Vergine una veste di tela, et un’oncia di pezzillo (disco) d’argento. Angiola Rossa della terra di Mirabella cadde sotto il carro, e si fracassò una coscia, e gridando, chiamando la Beata Vergine di Consolazione par che si vidde sollevare, e si fé uncere l’oglio della lambada di detta Beata Vergine, fra pochi giorni se ne sanò perfettamente, e venuta a visitare detta Beata Vergine li donò la coscia di cera, et un filo (catenina) d’oro. Pasquale Iannuzzo di questa terra di Paterno tirando li bovi col carro appresso pieno di gregne (covoni) di grano, li detti bovi si posero in fuga, et esso avanti, et per la troppa fuga cadde, et invocando la Beata Vergine in un subito li bovi si fermarono, et esso ebbe luogo ad spazi e scostarsi, e non tantosto scostatosi li suddetti buovi nuovamente si posero a fuggire col carro appresso, et isso senza cagionarsi nienti ma illeso, e sano. La Signora D. Antonia Ferrara figlia del Signor D. Cosmo Ferrara Aggente di Sturno ossessa (invasata) fu portata in questa terra a visitare la detta Beata Vergine, e gionta avanti la Chiesa non voleva entrare facendo grandi strepiti (agitandosi furiosamente), e postola forzosamente avanti l’Imagine di detta Beata Vergine diede segni ben noti dello spirito maligno, et avendo il Signor Arciprete D. Tomaso Mattia testificante postasi la stola al collo per scongiurarla (esorcizzarla), essa a guisa di serpe si distese a terra, e poste le braccia sopra le spalle strisciando con pancia per terra senza aiuto de mani e piedi correva appresso detto Signor Arciprete che colla stola al collo d’avanti l’Altare di detta Beata Vergine la portava avanti l’Altare del Santissimo Sacramento, dove esorcizzatola, lo spirito maligno obbediente se ne uscì, gridando essa grazie, grazie, et da indi in piedi se liberò, e lo spirito maligno non ebbe ardire qui toccarla, stupendo tutti, et essa D. Antonia ricevuta la grazia da detta Beata Vergine li donò un filo d’oro. Un certo tale chiamato Giuseppe di Santofele (S. Fele, in provincia di Potenza) anche ossesso dopo avere dati orribili segni manifesti del demonio, lo stesso Arciprete esorcizzandolo avanti un corso (moltitudine accorsa per assistere all’esorcismo) infinito di Popolo, cittadini e forastieri, doppo tanti strepiti fatti avanti la detta Imagine di Maria Santissima, restò libero gridando egli grazie, grazie, e dopo poco tempo rendendo grazie e lodi a detta Beata Vergine si partì sano, e libero, senza mai patirne più. Di più esso Reverendo Signor Arciprete attesta che numerare (esporre l’elenco completo) di tali ossesse, et ossessi da esso esorcizzati avanti detta Beata Vergine tutti rimasti sani, e liberi, sarebbe a non finirla mai, ignorandosi da lui nomi, e Padrie. La moglie di Antonio Forgione della terra di Castello de Franci, inferma da più mesi, portata avanti l’Altare di detta Beata Vergine, et con fervore, e viva fede chiedendoli la grazia si liberò dalla sua infermità. Lorenzo Cione della terra di Bagnuolli (Bagnoli Irpino) stroppio da più tempo fu portato in questa terra e condotto avanti l’Altare di detta Beata Vergine, non tantosto arrivato incominciò a sentirsi buono (bene), et piancendo fortemente si compiacque detta Beata Vergine di Consolazione guarirlo, e liberarlo dalla sua infermità, e se ne ritornò al suo Paese sano, e libero. Di più Gio: Iuorio attesta, qualmentre esso Procuratore di detta Beata Vergine nel anno 1764 tempo della mala annata (carestia), avendo terminato l’oglio che teneva per la lambada di detta Beata Vergine, si vidde in disperazione non rattrovandolo a comprare per la penuriosa annata, e vedendolo la sua moglie sì afflitto, andarono a vedere dentro il vaso se mai ne avessero possuto ritrovare qualche cocciatura (rimasuglio) per la lambada, per miracolo di detta Beata vergine rattrovarono in detto vaso tanto oglio che bastò fin tanto poi che esso Procuratore ebbe il comodo di comprarlo. Polisto Cimino di Bonito da più anni infermo con febri gravi, portato da più persone suoi parenti in questa terra, avanti l’Imagine di detta Beata Vergine immediatamente guarì perfettamente, e se ne ritornò sano, e libero con giubilo, e festa. Grazia Solimeno della terra di Cassano, acciaccata con febre maligna, ridotta agli ultimi fiati invocò il nome di Maria Santissima di Consolazione facendo voto di venire a visitarla se si compiaceva liberarla da detta febre, subito si mutò la febre, e fu liberata da detta infermità, e venuta a rendere grazie a detta Beata Vergine li donò un filo d’oro. D. Nicola Angrisano Arciprete della terra dello Cossano (Luogosano), ridotto egli da una fiera infermità agli ultimi fiati, fatto voto a detta Beata Vergine dalla gente di sua casa, si portarono scalze, e scapellate (coi capelli tagliati) a visitare la detta Beata Vergine, e subito detto Signor Arciprete ottende la grazia della sua salute, et alzatosi da letto si portò anch’esso a rendere grazie, e donò alla detta Beata vergine un suo anello d’oro. Pasquale Sopito della terra di Chiusano per una fiera febre si vidde ridotto vicino alla morte, tanto che se li diede l’estrema unzione, e venuto in se si raccomandò alla detta Beata Vergine che l’avesse fatto ritornare in vita, e fece voto venirci, come di già la mattina si rattrovò in meglio stato, e passò se in meglio, et ottende la grazia, e doppo sanato si portò ignudo a rendere grazie a detta Beata Vergine. Letizia Coluccia di Consa, per un anno intiero ammalata, fece voto alla detta Beata Vergine di Consolazione, e subito si liberò, e poi vende (venne) a rendere grazie alla detta Beata Vergine e li donò un filo di granate (collana di filigrana). Luca Andriotto della Baronia balzato da una calvaccatoja che doveva ridursi in pezzi, chiamando per l’aria la detta Beata Vergine di Consolazione cascò a terra senza farsi un poco di male, e venuto a visitare detta Beata Vergine li donò un chierchino (braccialino) d’oro, et una libra di cera. Catarina Gargano della terra di Bagnuolli da gravi dolori di testa che per undici giorni continui la travagliarono, tanto vero che fu licenziata da medici, invocando la Beata vergine e fatto voto di venire a visitarla subito li cessarono, e venuta a rendere grazie alla detta Beata Vergine li donò una croce d’argento, un paio di sciaccaglie (orecchini) d’oro, et un pungolo (spillone) d’argento. Catarina Amatusso della terra di Montemiletto cruciata (avvilita), e tormintata da fiero dolore di stomaco, che siccome si cibava così lo buttava, fece voto alla Beata Vergine et immediatamente fu liberata, e venuta a rendere grazie alla detta Beata Vergine li donò un’anello d’oro. Angiola Andreone di S. Andrea da più tempo era bersagliata da fieri dolori di viscere, invocando un giorno il nome di Maria SS. di Consolazione subito si cessarono j dolori, e fu sana, e venuta a visitare la detta Beata Vergine li donò una cannacca (collana) d’oro, et un vantesino di orletta (grembiule di merletto). D. Agata Mattioli della terra di Fontanarosa da più tempo inferma senza potersi ristabilire fece voto alla detta Beata Vergine e fra due giorni guarì, e venuta a visitarla, e renderli grazie, li donò una croce d’argento ed un chierchietto (braccialetto) d’oro. Anna Giannini della città di Nusco, non potendo sgravidare, invocato il nome di detta Beata Vergine, subito senza molestia sgravidò, e venuta a visitare la detta Beata Vergine li donò un filo d’oro.

Et infiniti altri miracoli, che da essi Reverendi Sacerdoti testificanti non possonsi numerare, che da detta Beata Vergine di Consolazione sono stati in presenza loro dispensati, et in segno della verità, et in quanto la loro coscienza ad essi dettano, n’hanno fatto la presente dichiarazione1.

Il raffronto fra la prima testimonianza del primo miracolo, documentata per mano de notaio Piccarini, e questa, resa a soli 19 anni di distanza, induce a considerare quanto arduo sia il compito dello storico impegnato a districarsi fra verità solo in parte falsate dalle aberrazioni della memoria, più di sovente asservite ad oscuri calcoli di parte.

Trascurabile è l’arricchimento di particolari circa l’abilità del muto Giovan Battista d’Amato che, laddove secondo la primitiva versione aveva semplicemente manifestato dimestichezza con gli attrezzi da falegname nel maneggiare un’ascia, si ritrova ad essere assunto da mastro Pasquino, ospitato nella sua casa ed impiegato nel lavoro per più giorni. Tale riedizione, maturata nella tradizione orale popolare, trova logica spiegazione in una inconscia propensione psicologica verso il miracolato che induceva ad elevarlo dall’anonima massa di mendicanti e di diseredati.

Deprecabile è invece l’intenzionale contraffazione dell’evento perpetrata da una parte del clero, privo di scrupoli ed avido di protagonismo. Nella prima testimonianza si rileva in maniera incontrovertibile che a rendersi disponibile alle istanze del muto fu il solo Don Bonaventura Piccarini, il quale coinvolse il novizio Pasquale Marriello chiamandolo all’accensione di due candele. Solo in un secondo momento avevano fatto il loro ingresso in chiesa i sacerdoti Don Tommaso Ricca, Don Nicola di Amato e Don Filippo Cobelli. Nella nuova versione vengono ad assumere un ruolo primario i sacerdoti Don Nicola di Amato, Don Alberto d’Amato e Don Alessandro Barbiero, gli ultimi dei quali risultavano addirittura assenti al momento del miracoloso evento, mentre vengono relegate in secondo piano le figure dei sacerdoti Don Bonaventura Piccarini e Don Filippo Cobelli, nel frattempo deceduti.

Ignorato è del tutto il novizio Pasquale Marriello il quale, dopo l’accensione delle candele, pure s’era unito in preghiera al muto ed al sacerdote Piccarini.

Tali riflessioni, lungi dall’intento di sminuire la portata del prodigio operato dalla Vergine Santissima della Consolazione, vogliono al contrario restituire alla realtà storica un evento esposto all’ombra del dubbio dal cinismo di un clero attento più ad accreditare la propria immagine che a diffondere le ragioni della fede.

Sebbene fiduciosa, l’attesa per l’esito del processo volto ad accertare l’autenticità dei miracoli operati da Maria Santissima della Consolazione non era priva di trepidazione.

Fonte di preoccupazione era invece la consapevolezza che per l’occasione una massa enorme di forestieri si sarebbe riversata in Paterno. La porta maggiore della chiesa restava di difficile accesso, servita com’era da un’angusta stradina serrata fra vetuste abitazioni. Fu così che, l’8 dicembre 1771, con atto del notaio Nicolò d’Amato, il sindaco Gennaro Rosanio, Pasquale Vovola Capoeletto e Giovanni d’Amato secondo Eletto acquistarono da Alessandro Salierno una casa, sita, e posta nel ristretto di detta terra, nel luogo detto la Piazza, consistente in due soprani, ed un sottano ad uso di cellario ... segnatamente per ampliarsi la strada che conduce alla Chiesa1.

Sempre perseguendo tale scopo, l’università acquistò ancora un sottano del Reverendo Clero, ed il soprano a questi delli figli et eredi di Ciriaco Gammino, et un altro sottano di Lucia Cascione2.

L’opera di risanamento dell’area, che si protrasse fino al mese di maggio dell’anno 1774, venne così riassunta da don Nicola Antonelli: Vi fu in detto mese la demolizione delle case avanti la Chiesa per ingrandire la strada e spiazzo avanti di d.a Chiesa, consistenti in due soprani ed un sottano di Alessandro Salierno, un sottano di Mazzoccola, un soprano del figlio del fu Ciriaco Gammino, ed un sottano del Rev.o Clero, e questi soprani e sottani confinavano colla casa mia, delli quali avendo comprato il materiale a lume di candela per docati 30, e la demolizione e spianamento a mie spese, le mura mezzanili sono rimaste intere a mio beneficio. Più due soprani di Gius.e della Ezza, e sua suocera, un sottano di Ciriaco Vicco, un soprano di Genn.o Vicco, un sottano di Pasquale Gammino, ed un altro sottano dei F.lli Vicedomini. A costoro, parte lor se gli è dato l’escambio le case de Cappelle, e parte danaro. Lo scrivo a memoria dei Posteri.

Di questa demolizione ... ne sono stato io Deputato con D. Giuseppe Rossi, il quale poco o nulla si è intricato (se ne è occupato), Giovanni Iuorio Depositario (cassiere), Lorenzo di Amato Sind.o, Biase di Prisco ed Antonio Marra Eletti, e di buona morale, e zelanti del Pubblico3.

Finalmente l’ingresso principale della chiesa maggiore fu liberato dall’oppressione delle catapecchie e la strada, resa spaziosa, iniziò ad evolvere verso quella che oggi è nota col nome di Viale del Santuario.

L’attesa autorizzazione all’incoronazione della Vergine giunse da Roma nei primi mesi dell’anno 1774. Senza indugio l’intera comunità si mobilitò per concretizzare i progetti di festeggiamenti a lungo discussi e perfezionati. Furono contattati gli addetti agli addobbi ed ingaggiati i più valenti cantori napoletani.

E venne alfine il dì della Pentecoste, giorno prescelto per la solenne cerimonia. Era il 22 maggio dell’anno 1774 e la chiesa era stata guarnita con preziosi drappi alle pareti ed alle colonne. Presenti, in veste ufficiale, il notaio Nicolò de Rienzo, il vescovo di Avellino e Frigento Monsignor Gioacchino Martinez in trono assiso vestito con abiti pontificali avanti l’altare suddetto per l’incoronazione di detta Beata Vergine di Maria Santissima della Consolazione, dipinta vicino al quadro, ... il Sig. D. Giuseppe Antonio Rossi, e Dr. D. Nicola Antonelli di questa suddetta terra depotati, in publico parlamento eletti per detto atto, nec non (nonché) li Magnifici Lorenzo d’Amato, e Biaggio de Prisco, Sindaco ed Eletto dell’Università di detta terra.

Deputati ed Eletti, assumendo l’impegno vincolante anche per i loro successori, stabilirono che, per la coronazione di detta B. V., deve questa magnifica Università essere tenuta non solo ogni anno alla celebrazione della sua festività, ma anche, per dare maggior gloria alla detta Beata Vergine, ... fare con ogni pompa sollennizzare la sua festività con spari, apparato di Chiesa, istrumenti musicali, suono di campane, ed altro, anche giornalmente mantenere, e fare mantenere la lambada accesa avanti il quadro suddetto, e l’Altare sempre apparato (addobbato), e quantità di candele, e fiori, e buone tovaglie1.

Il rito religioso si svolse accompagnato dal canto dei fedeli accalcati sulle strade, in quanto la chiesa non potette contenerne che una minima parte. Fu tale, e tanta la frequenza, e la moltitudine delle genti, che concorsero a questa solennissima festività, che avreste facilmente asserito, che si fussero spopolati, e lasciati deserti, non che i Paesi, e le Città ma le Provincie intere2.

Il dottor Nicola Antonelli volle testimoniare la solenne cerimonia in questi termini: Addì 22 maggio 1774 Domenica di Pentecoste è sortita la coronazione della Beatissima Vergine Maria della Consolazione con gran pompa e Festa, collo sparo di cento rotoli di polvere, 14 sonatori, 2 di Nola e 12 di Avellino, quattro musici religiosi di S. Maria della Nova celeberrimi, Monsignor di Avellino D. Gioacchino Martinez, cinque Canonici della Cattedrale di Frigento, trai quali l’Arcidiacono D. Pasquale di Martino, due Fratelli (monaci) di Montella e D. Carmine Pascucci, Festa per tutti li tre giorni con illuminazioni e sparo. Vi fu trall’altri il Barone di Castelvetere e Famiglia, il Marchese Berio, sua moglie e famiglia, ed un popolo Forastiero numerosissimo da non credersi. Si compiacque la Vergine SS. dispensar più grazie a tanti ciechi, zoppi ed altri. Deputati D. Giuseppe Rossi, ed io D. Nicola Antonelli dell’opera sud.a (cioè dei festeggiamenti), depositario Giovanni Iuorio. Il peso (impegno) maggiore fu il mio per lode e grazia di Maria Santissima. Vi fu un panegirico degno di D. Domenico Addimandi di Carife. Vi fu un’accademia (interventi recitati e canori) degnissima con gran applauso di Monsignore, Canonici e letterati, composta dal Sacerdote D. Nicodemo Iuorio in età di anni 25 in 26, rappresentata nobilmente dai suoi scolari, fra’ quali Giovannantonio in età di anni 11 portò il vanto sopra tutti, rallegrandosi con me Monsig. e tutti l’ascoltanti, augurandoli da Dio la sua benediz.e, e lo scrivo a memoria dei posteri, acciò ognun lodi, e divoto sia di quella Gran Madre e Regina del Cielo e della Terra. Ave Maria Consolationis3.

Il 5 giugno 1774 il sindaco Lorenzo d’Amato acquistò, per la somma di ducati trenta, dal dottor Nicola Antonelli, una casa che ancora limitava l’accesso alla chiesa di San Nicola, col obligo di dovere fare demolire le case suddette e restare il piano, che si renda la strada appurgata (sgombra)4.

In seguito a quest’ultima demolizione risultò alfine sgombro lo spazio antistante l’ingresso principale della chiesa e, senza ulteriore indugio, si procedette alla realizzazione della gradinata in pietra, sostanzialmente di forma e dimensione non diverse da quelle attuali.


1 Archivio di Stato di Avellino - Protocolli notarili, Distretto di Sant’Angelo dei Lombardi: Notai di Paternopoli - Fasc. 1908.

1 Archivio di Stato di Avellino - Protocolli notarili, Distretto di Sant’Angelo dei Lombardi: Notai di Paternopoli - Fasc. 1920.

2 Archivio di Stato di Avellino - Ibidem.

3 Archivio non identificato - In fotocopia del documento originale: Relazione a memoria dei posteri sulla “Festa della Incoronazione - 1774”, redatta da Nicola Antonelli.

1 Archivio di Stato di Avellino - Protocolli notarili, Distretto di Sant’Angelo dei Lombardi: Notai di Paternopoli - Fasc. 1909.

2 Giuseppe De Rienzo: Notizie storiche sulla Miracolosa Effigie di Maria SS. della Consolazione, precedute da un saggio istorico sulla terra di Paterno - Napoli 1821.

3 Archivio non identificato - In fotocopia del documento originale: Relazione a memoria dei posteri sulla “Festa della Incoronazione - 1774”, redatta da Nicola Antonelli.

4 Archivio di Stato di Avellino - Protocolli notarili, Distretto di Sant’Angelo dei Lombardi: Notai di Paternopoli - Fasc. 1920.

Diritto alla Storia, La carestia del 1764

Diritto alla Storia - Capitolo 24

Fu in un inverno piuttosto asciutto che si concluse il 1762, e la siccità si protrasse per tutta la primavera del 1763. Il raccolto di frumento si prevedeva scarso, comunque le scorte appositamente accantonate per simili circostanze, unitamente all’immenso granaio rappresentato dalla regione pugliese, avrebbero potuto sopperire, come già in passato, alla minore produzione.

Maggiormente esposte erano le classi sociali più deboli, fra cui già si registrava un innalzamento della soglia di povertà. Il dato tuttavia non era da considerare allarmante: i negozi non incontravano difficoltà nell’approvvigionamento, restavano invariati i prezzi dei generi alimentari, il traffico commerciale lungo la via per la Puglia si manteneva regolare, l’attività artigianale non risentiva minimamente della crisi dell’agricoltura e l’economia del paese appariva solida come non mai, sorretta dall’incessante affluenza di pellegrini in visita alla miracolosa Immagine della Consolazione.

La fiducia nella solidità dell’economia di Paterno era condivisa anche oltre i confini dell’università tanto che, nell’agosto del 1763, Andrea Bianco di Mugnano prese in fitto la taverna dei signori Rossi presso la fontana delli Gaotoni2.

L’estate trascorse lunga e torrida, e di nessun sollievo furono alla campagna inaridita i rari ed inconsistenti conati di pioggia che caratterizzarono la stagione autunnale. I pascoli appassiti e l’impossibilità di costituire riserve di foraggio per l’inverno imposero la riduzione, mediante abbattimento, di numerosi capi di bestiame. Gli alberi non generarono che pochi frutti, e quei pochi non giunsero neppure a maturazione. Irrisorio fu il raccolto delle olive, minuscole, scarne, rinsecchite, da cui a malapena si ricavò olio sufficiente ad alimentare le sole lucerne.

L’inverno sopraggiunse rigido e secco. Cresceva il numero degli indigenti. Sui 49 decessi di persone adulte verificatisi in Paterno nell’anno 1762, 15 erano state esentate dal pagamento delle spese funerarie e di sepoltura in quanto povere. Nel 1763 invece, pur essendo rimasto invariato il numero dei morti, quello degli individui classificati nullatenenti era asceso a 24 unità1.

In questa circostanza la politica di Bernardo Tanucci, ottimo giurista, rivelò tutti i suoi limiti in campo economico. Le riserve di frumento accantonate risultarono insufficienti e mal distribuite sul territorio del regno; gli inventari relativi ai magazzini annonari si dimostrarono approssimativi, ed in alcuni casi se ne constatò addirittura l’inesistenza; le deficienze organizzative non consentirono razionalità e rapidità di interventi; l’inefficienza degli organi di controllo, non disgiunta dalla corruzione di cui erano permeati, favorì gli illeciti e la conseguente fioritura di un attivissimo mercato nero.

Non giunsero in Paterno, come in quasi nessun altro dei paesi irpini, gli aiuti sperati. Si esaurirono presto le inadeguate provviste di tante famiglie e la carestia, sin dai primi mesi del 1764, dispiegò in tutta pienezza i suoi effetti devastanti. Si invocava l’aiuto dei Santi, si innalzavano suppliche in tutte le chiese, si ricorreva a lunghe ed estenuanti processioni e si sperava nelle piogge dell’incom-bente primavera, ma la siccità perdurava e gli organismi provati, debilitati dalla fame e dagli stenti, si mostravano sempre più incapaci di reagire agli attacchi virali particolarmente attivi nella stagione fredda.

Deluse la tanto attesa stagione primaverile. Mancarono le piogge e la terra, arida e screpolata, non consentì ai semi di germogliare. Dall’1 gennaio al 20 maggio furono 50 gli adulti falcidiati dall’inedia e dalle malattie, tutti sepolti nel cimitero presso la chiesa di San Nicola.

Dal 23 maggio, essendo ormai saturi gli spazi a ciò destinati nella chiesa maggiore, si cominciò a tumulare le vittime del flagello nella chiesa di San Sebastiano, poi in quella di San Francesco, quindi in quella di San Michele Arcangelo ed alfine in Santa Maria a Canna. Un’eccezione si fece per il sacerdote Don Domenico (Mele?), il cui cognome è illeggibile, che franco, cioè non soggetto al pagamento dei diritti funerari, fu sepolto, il 6 luglio, nel cimitero della chiesa maggiore. Lo stesso avvenne per il sacerdote Don Bonaventura Piccarino, deceduto il 23 luglio, e per il suddiacono Pasquale Stefanelli, morto quattro giorni dopo2.

Mutavano intanto, finalmente, le condizioni meteorologiche. In luglio si ebbero le prime piogge torrenziali e come d’incanto rinverdirono i pascoli e negli orti tornarono copiosi legumi e verdure. Rinvigorirono pure vigneti ed uliveti e si comprese che l’incubo stava per finire.

Il 2 settembre trovò sepoltura nella chiesa di San Nicola la signora Annamaria Famiglietti, moglie del dottor Giacomo Antonio Rossi, deceduta non certo per inedia. Analogo privilegio toccò, il 24 settembre, al ventenne Angelo, figlio di Biasi di Mastrominico e di Rosa dello Grieco. Queste ulteriori eccezioni, del tutto ingiustificate, suscitarono malcontento fra la gente.

Comunque la situazione era sensibilmente migliorata. Seppure in quantità limitata, ci fu distribuzione di grano di provenienza estera, mentre i raccolti autunnali si prospettavano abbondanti. Lo spettro della fame si andava sempre più allontanando.

Dal 2 ottobre fu regolarmente ripristinata la tumulazione entro la cappella cimiteriale annessa alla chiesa di San Nicola. Fino alla fine dell’anno si verificarono ancora 29 decessi di persone adulte, e di queste 26 ebbero qui sepoltura. Il bilancio dei deceduti dell’anno 1764 fu agghiacciante: i morti di età superiore ai sei anni erano stati complessivamente 229, di cui 81 seppelliti nella chiesa maggiore, 101 in quella di Santa Maria a Canna, 22 in quella di San Francesco, 17 in quella di San Michele Arcangelo ed 8 in quella di San Sebastiano. Di questi ben 142 erano deceduti in condizioni di totale indigenza, tanto da non potersi assicurare neppure una sola messa in suffragio della propria anima1.

Sono andati smarriti, relativi al periodo in esame, i registri dei decessi dei bambini di età compresa fra lo zero ed i sei anni, compilati separatamente per non aver ancora avuto costoro impartiti i Sacramenti della Comunione e della Cresima. Tuttavia, alla luce degli elementi a disposizione, si può azzardare un calcolo che, pur se privo di concretezza matematica, può considerarsi statisticamente valido e con risultanze non molto discoste dalla realtà.

I più recenti dati completi disponibili circa l’andamento demografico riferito alla sola popolazione infantile riguardano il decennio 1735-1744. In esso, a fronte di 882 nascite, si erano verificati 197 decessi, con una mortalità media annua di 22,3 unità2.

Le nascite complessive registrate nel decennio 1754-1763 erano state 9833, il che lascia supporre che la mortalità infantile si fosse proporzionalmente elevata ad un valore medio annuale di 24,8 unità.

Prendendo a confronto l’andamento demografico riferito alla sola popolazione adulta, in quest’ultimo decennio, 1754-1763, la mortalità aveva complessivamente interessato 403 persone4, fissando mediamente i decessi a 40,3 unità annue. Essendo state 229 le morti avvenute in concomitanza col periodo di carestia, l’incremento della mortalità di persone adulte nell’anno 1764 era risultato pari a 5,6 volte la media annua.

A voler riportare questi parametri sulla popolazione infantile, la mortalità media di 24,8 individui annui riscontrata per il decennio 1754-1763 indicherebbe in 139 i decessi verificatisi nell’anno 1764.

Furono quindi 368 le morti complessive, corrispondenti a poco meno di un settimo del numero degli abitanti.

Sorprende come, seppure suddivise fra le varie chiese, fosse stato possibile effettuare le tumulazioni in spazi estremamente ristretti. Ciò si spiega col fatto che i corpi non venivano deposti in bare, ma sepolti semplicemente avvolti in un lenzuolo e quindi cosparsi di calce viva il che, facilitandone la rapida decomposizione ed il conseguente recupero delle ossa che venivano ordinatamente disposte sulle mensole alle pareti, ripristinava in tempi brevi la disponibilità ricettiva delle fosse al disotto dell’impiantito d’assi che faceva da pavimento.

Erano stati soltanto quattro i matrimoni contratti nel 1764, ma nell’anno successivo, quasi per una istintiva reazione, per un prepotente bisogno di riaffermare il diritto della vita sulla morte, furono quaranta le coppie che convolarono a nozze5. Lo stato di miseria in cui il paese era precipitato si evidenzia con chiarezza dalla irrilevanza delle assegnazioni dotali di cui ebbero a beneficiare le novelle spose. Le elargizioni, di regola, non andarono oltre la garanzia dell’eredità dei beni, sia mobili che immobili, da ripartirsi equamente, alla morte dei genitori, fra tutti i figli superstiti.

Per l’unione matrimoniale di Onesto Mastromarino con Giuseppina d’Orricolo, il 25 marzo 1765 i genitori di quest’ultima le riconobbero il diritto all’eredità nella ragione di un terzo di tutti i beni, avendo essi tre figli. Doni nuziali immediati furono invece offerti dalle due persone presenti in qualità di testimoni: Luciano, e Giuseppe di Blasi, zii carnali di detta Gesuppina, i quali, per affetto dicono alla medesima portare, li promettono, cioè detto Luciano li promette una giornata di buoi a seminare, e detto Giuseppe li promette un meccatojo (fazzolettone) d’orletto nuovo nel giorno della sposa1.

Fra le poche privilegiate è da annoverare Anna Maria Conte. Era costei nipote del sacerdote Don Angelo Conte il quale aveva contribuito, se non interamente provveduto, alla costituzione delle assegnazioni dotali. Così, per il suo matrimonio con Vincenzo Lapio, oltre all’eredità da dividere con altre cinque sorelle, il 3 maggio 1765 le furono promessi: cinque lenzola nuove di tela di casa; una veste di saccone (un rivestimento di materasso); quattro veste di coscina (rivestimenti di cuscini) due piene di lana, e due sopravesti (fodere per cuscini); una tovaglia di tela di sei carlini guarnita con pezzilli; una manta di lana usata; braccia cinque di salvietti, e mesale (tovaglia da tavola); una camisa a mezzo busto di donna; uno intornialetto2 di braccia quattro, e mezze di tela sottile nel giorno della sposa3.

Pure le situazioni patrimoniali di numerose famiglie erano radicalmente mutate nel corso di quell’anno ferale. Dall’anno 1764, che fù quell’annata sì penuriosa, molti territorij, che da particolari cittadini si tenevano a censo perpetuo dalle Cappelle di questa magnifica Università, si licenziarono a voce da coloni alli Procuratori di dette Cappelle di quel tempo, per l’impotenza di non poterli coltivare, come per non aver niun modo di poter pagare l’annuo canone4. Molti altri si erano visti costretti a privarsi di parte dei propri beni, spesso a prezzi inverosimilmente irrisori, pur di assicurarsi l’indispensabile per sopravvivere.

L’occasione era stata propizia ai signori Famiglietti, l’ingresso del cui palazzo apriva sull’angusta Ruga sotto al Campanaro. A 8 agosto 1764 D. Nicola di Rienzo e Ant.a di Vito Moglie di Franc.o Ant.o Troisi, Nicolina di Vito Moglie di Ciriaco Iannuzzo, Lucia di Vito vidua di Nicola Girezio vendono a D. Vinc.o Famiglietti due soprani e due sottani di Casa sotto la Chiesa Madre col rendito alla Grancia di S. Quirico di annui carlini due e di c. cinquanta, abbattuta per fare largo innanzi al Portone delli Signori Famiglietti5. Ne risultò ampliata l’area dell’antico Seggio, ora detta largo dello Campanile.

Ma dalla situazione di crisi più di tutti aveva tratto vantaggio il mugnaio Pasquale de Rienzo. La sua attività gli consentiva di immagazzinare cospicue quantità di frumento che, nella circostanza occultato ed immesso sul mercato clandestino, gli aveva fatto realizzare consistenti guadagni, immediatamente investiti nell’acquisto di case e di terreni. Il compenso per la macina veniva infatti corrisposto in natura, in ragione di una misura di grano per ogni nove che ne erano sfarinate. La misura e la mezza misura, recipienti in rame opportunamente tarati, erano fornite dai Governanti del paese.

La penuria di frumento verificatasi durante il periodo di carestia continuò per lungo tempo ancora a dar luogo a sospetti e ad illazioni. Le accuse maggiori ovviamente venivano mosse al governo centrale, ma non si risparmiavano critiche ai rappresentanti delle maggiori cappelle, ritenuti responsabili di aver venduto grano, frutto di censi, al difuori delle regole prefissate. Costoro, chiamati in causa sempre più apertamente, con dichiarazioni rese al pubblico notaio affermarono di aver sempre ed esclusivamente ceduto il frumento, a seguito di bandi pubblici, al maggior offerente, col sistema dell’accensione di candela. La stessa procedura dichiarò di aver sempre seguito il Procuratore della cappella del Santissimo Rosario per la concessione in fitto del frantoio per la molitura delle olive6.

Altra conseguenza della carestia era stato l’acuirsi del fenomeno dello strozzinaggio. I debiti non estinti in breve tempo comportavano una levitazione che ne accresceva a dismisura la gravosità. Ne furono vittime i coniugi Pietro Silvestro ed Orsola Pilosi che, ridotti alla disperazione, sporsero denunzia contro Donato Grasso, loro creditore. Nel processo che ne seguì, celebrato in Mirabella, risultò che Damiano Palermo, Pasquale Gammino e Pasquale Lizio avevano deposto contro l’usuraio. Sospeso per lungaggini burocratiche, il processo riprese solo nell’anno 1773, questa volta nella Corte di Paterno. In questa occasione Damiano Palermo e Pasquale Gammino negarono di essere mai stati a conoscenza della presunta illecita attività dell’imputato, mentre Pasquale Lizio addirittura sostenne di non essere stato neppure ascoltato nella precedente fase dibattimentale. Accusati di falsa testimonianza, i tre furono rinchiusi per quindici giorni nelle carceri di Paterno, ciò nonostante non modificarono le loro dichiarazioni, sicché Donato Grasso, sebbene ritenuto colpevole, per mancanza di prove dovette essere prosciolto dall’imputazione ascrittagli1.

Era pratica abbastanza diffusa quella dello strozzinaggio. Ne era rimasto vittima Pasquale Cuoco, poi soldato di Sua Maestà dal 1768, che, oberato di debiti a cui non era in grado di far fronte, finì col disertare nell’anno 1772, fuggendo da Paterno2.

Morì Ettore Carafa che, per la devozione che aveva nutrito per la Vergine della Consolazione, si era sempre mostrato benevolo verso questa terra. In ossequio alla disposizione testamentaria del principe di Chiusano Vincenzo Carafa, avrebbe dovuto succedergli il secondogenito Vincenzo il quale, però, previo regio assenso concesso in data 19 dicembre 1765, donò tutti i beni al fratello primogenito Riccardo che così ottenne l’intestazione del feudo di Paterno3.

Nonostante tutto, la fase negativa apertasi con la carestia sembrava superata. Le condizioni di vita della popolazione andavano rapidamente migliorando e, nell’anno 1766, sotto il sindacato di Luca Beneventano, l’appalto dei fiscali fu assunto da Pietro d’Amato4. Si abbassava la soglia della povertà: in quell’anno, su 21 morti, 7 soltanto risultarono indigenti e, nel successivo 1767, delle 18 persone decedute solamente 5 furono riconosciute in stato di bisogno5.

Nel 1768 re Ferdinando IV di Borbone sposò Maria Carolina d’Austria e lasciò a lei, ed al suo favorito il ministro Giovanni Acton, le cure del governo. Era donna frivola la regina e scarsamente sensibile ai troppi problemi che affliggevano i sudditi, per cui non godeva della simpatia del popolo. Particolarmente invisa era alla gente di Paterno per cui, nel 1772, in occasione della annuale festa a lei dedicata, si avvertì la necessità di emanare bandi coi quali si invitava la cittadinanza a non arrecare disturbo alla rappresentazione teatrale programmata in suo onore. Nonostante ciò non mancarono rumoreggiamenti ed espressioni irriverenti nei confronti della sovrana il cui ritratto, unitamente a quello del re, campeggiava in bella mostra in alto sul proscenio. Di tali atteggiamenti irriguardosi si risentì il Capoeletto Pasquale Vovola che, il giorno successivo, 2 novembre 1772, rivolse formale richiesta al Governatore perché si prodigasse per individuare i responsabili a cui infliggere una punizione esemplare6.

Il sarcasmo della folla e l’intransigenza manifestata dagli amministratori erano forse i segni inequivocabili di una recuperata normalità. Comunque, paradossalmente non fu priva di risvolti positivi la crisi del 1764. Le maggiori ricchezze affluite a particolari categorie di cittadini consentirono l’avvio di quel processo di rinnovamento edilizio che si rivelerà trainante per l’economia dell’intera comunità, e dispiegherà i suoi effetti per un lungo periodo di tempo che si estenderà dalla fine del XVIII a larga parte del XIX secolo. Testimonia l’inizio di tale attività la data del 1770 scolpita sullo stemma, in pietra, adottato due secoli prima dalla famiglia de Braccio.


2 Archivio di Stato di Avellino - Protocolli notarili, Distretto di Sant’Angelo dei Lombardi: Notai di Paternopoli - Fasc. 1908.

1 Archivio della Parrocchia di San Nicola di Paternopoli - Registri dei morti.

2 Archivio della Parrocchia di San Nicola di Paternopoli - Registri dei morti.

1 Archivio della Parrocchia di San Nicola di Paternopoli - Registri dei morti.

2 Archivio della Parrocchia di San Nicola di Paternopoli - Registri dei Battezzati e Registri degli infanti morti.

3 Archivio della Parrocchia di San Nicola di Paternopoli - Registri dei battezzati.

4 Archivio della Parrocchia di San Nicola di Paternopoli - Registri dei morti.

5 Archivio della Parrocchia di San Nicola di Paternopoli - Registri dei matrimoni.

1 Archivio di Stato di Avellino - Protocolli notarili, Distretto di Sant’Angelo dei Lombardi: Notai di Paternopoli - Fasc. 1907.

2 Drappeggio da disporre intorno al letto al fine di mascherarne il tavolato su cui erano disposti i materassi ed i cavalletti che ad esso facevano da sostegno.

3 Archivio di Stato di Avellino - Protocolli notarili, Distretto di Sant’Angelo dei Lombardi: Notai di Paternopoli - Fasc. 1907.

4 Archivio di Stato di Avellino - Protocolli notarili, Distretto di Sant’Angelo dei Lombardi: Notai di Paternopoli - Fasc. 1903.

5 Archivio privato del dott. Nicola Famiglietti di Paternopoli - Libro di Memorie della Famiglia Delli Signori Famiglietti Da Paterno - Anno Domini MDCCCXVIII.

6 Archivio di Stato di Avellino - Protocolli notarili, Distretto di Sant’Angelo dei Lombardi: Notai di Paternopoli - Fasc. 1920.

1 Archivio di Stato di Avellino - Protocolli notarili, Distretto di Sant’Angelo dei Lombardi: Notai di Paternopoli - Fasc. 1920.

2 Archivio di Stato di Avellino - Ibidem.

3 Erasmo Ricca: Istoria de’ feudi delle Due Sicilie, Vol. III - Napoli 1865.

4 Archivio di Stato di Avellino - Protocolli notarili, Distretto di Sant’Angelo dei Lombardi: Notai di Paternopoli - Fasc. 1908.

5 Archivio della Parrocchia di San Nicola di Paternopoli - Registri dei morti.

6 Archivio di Stato di Avellino - Protocolli notarili, Distretto di Sant’Angelo dei Lombardi: Notai di Paternopoli - Fasc. 1920.

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