Diritto alla Storia - Capitolo 8
Alla morte di Ottone III cinse la corona dell’Impero d’Occidente Enrico II. Permanevano, forti, le tensioni fra Greci, Longobardi ed una classe emergente erudito-borghese che aspirava al riscatto sociale. I Saraceni non desistevano dalle loro scorrerie, contrastati dalle sole truppe di mercenari tedeschi al soldo del migliore offerente. I signori locali congiuravano gli uni in danno degli altri, mossi da sfrenate ambizioni. Pestilenze e carestie avevano assunto carattere endemico.
Nell’anno 1003 Adelferio II, conte di Avellino, riuscì a spodestare dal principato di Benevento Pandolfo II.
Restava immutato l’assetto del territorio di Paternopoli, tuttora ripartito fra le diverse comunità monastiche. Il De Jorio, appellandosi ad una improbabile fonte, asserisce: Nell’anno 1004 Paterno era soggetto all’abate di Montevergine, come si legge in un antico istrumento1.
L’errore è grossolano. La costruzione dell’ab-bazia non fu iniziata che nell’anno 1119 da San Guglielmo da Vercelli. In quell’anno 1004 Paterno, cioè la porzione di territorio che aveva costituito la pars dominica del signore longobardo, continuava a restare di proprietà del monastero di San Vincenzo al Volturno in quanto non era mai stata riscattata dagli eredi di Pietro Marepahis. Meraviglia che l’inesattezza sia stata accettata e confermata da innumerevoli studiosi fra cui Strafforello2, autore di una pur pregevole opera.
Nell’anno 1005 Pandolfo II rientrò in Benevento con la forza e, associato nel 1007 al nipote Pandolfo III salito al trono di Capua, si illuse di poter restaurare sui due troni la stirpe di Capo-di-Ferro.
Spontanei movimenti libertari fiorivano intanto in Puglia e, nell’anno 1009, Melo di Bari se ne pose a capo, ma la decisa reazione bizantina lo costrinse a riparare a Benevento.
Caldeggiata dal papa e sostenuta dall’imperatore, venne concretizzandosi una coalizione antibizantina. Purtroppo però Enrico II fu richiamato in Germania e con la morte di Pandolfo II, nel 1015, la coalizione automaticamente si dissolse.
In quell’anno, quell’aspirazione di libertà, di ascesa economica, sociale e politica che permeava l’Italia esplose in Benevento che si dette una prima rudimentale forma di comune, sotto la guida di nobiles e mediocres, cioè dell’aristocrazia e del popolo.
Nel 1016 il papa Benedetto VIII raccomandò ai Beneventanos Primates un gruppo di Normanni al comando di un certo Giselberto, perché lo assoldassero al fine di fornire sostegno a Melo di Bari nella lotta contro i Greci.
Non è che mercenari normanni facessero il loro primo ingresso nel sud d’Italia in quell’anno 1016. Questi valorosi soldati di ventura, originari delle regioni scandinave, diretti discendenti delle tribù vichinghe che nel 911, capeggiate da Rollone, avevano ottenuto da Carlo il Semplice di Francia la contea di Rouen dando alla regione il nome di Normandia, avevano già avuto modo di distinguersi in battaglia contro i Saraceni, pare nell’anno 1001, quando un gruppo di essi, di ritorno dalla Terra Santa, era approdato a Salerno assediata dagli infedeli.
Melo, che con l’aiuto dei principati longobardi vedeva alfine possibile la liberazione della Puglia dal giogo bizantino, stipulò accordi coi capi normanni, promettendo loro assegnazioni di terre liberate; e questi, incoraggiati, sollecitarono l’intervento di altri connazionali che accorsero numerosi, portandosi dietro finanche le mogli ed i figli. Ma i Longobardi, dilaniati da dissidi interni, non tardarono a ritirarsi dalla lega e Melo, lasciato solo, fu sconfitto e costretto alla fuga.
Morto Melo nel 1020, i Normanni preferirono sparpagliarsi sui Principati, senza riguardo a bandiera o idealità; essi erano un elemento fortissimo, ma facinoroso, torbido e manesco, e colle armi potevano crescere facilmente fra deboli e discordi: come difatti crebbero e con straordinaria rapidità1.
Di loro così scriveva, nell’anno 1125, il cronista normanno Guglielmo di Malmesbury: ... sono un popolo di guerrieri e dalle guerre difficilmente riescono a stare lontani. Audaci nell’avventurarsi contro il nemico, ma pronti ad usare ogni inganno quando la sola forza fisica non è sufficiente ... depredano i sudditi, quantunque li difendano dagli altri; pur essendo fedeli ai loro sovrani, si vendicano alla minima offesa. E nella sua storia della conquista della Sicilia ad opera del conte Ruggero d’Altavilla, così si esprimeva, intorno al 1100, Goffredo Malaterra: Questo popolo è dotato di una particolare ingegnosità. ... Si mostra nello stesso tempo generoso ed avido.
Nell’anno 1022 l’imperatore Enrico II, forte di un esercito di 60.000 uomini, discese nel meridione d’Italia per scacciarne definitivamente i Bizantini. Dal marzo all’aprile, nella definizione di un piano d’azione, insieme col Papa sostò in Benevento da dove alfine mosse e pose l’assedio alla città di Troia. Ma il clima torrido della Puglia lo costrinse a desistere dall’impresa, così dovette tornarsene in Germania, non senza però aver prima ricompensato i capi degli eserciti di ventura normanni che lo avevano affiancato nella spedizione con l’assegnazione di terre nei principati di Salerno e di Benevento.
Nell’anno 1026 fu Corrado II a cingere la corona imperiale ed a lui fecero atto di vassallaggio i capi normanni a cui fu demandato il compito di difendere i confini meridionali dell’Impero dalla minaccia bizantina.
Pandolfo IV, principe di Capua, nel novembre del 1027 assaltò ed espugnò Napoli. L’estromesso duca Sergio IV, tra la fine del 1029 ed i principi del 1030, assoldate schiere normanne capeggiate da Rainulfo Drengot, riconquistò la città ed assegnò quale compenso al capo normanno un territorio che venne a costituire la contea di Aversa.
Nel settembre del 1033 morì Landolfo V, principe di Benevento, e gli successe nel governo del principato il figlio Pandolfo III. Dal canto suo Pandolfo IV di Capua, forte di un’agguerrita schiera di Normanni al proprio soldo fra cui i fratelli d’Altavilla2, manifestava mire espansionistiche, sicché l’imperatore Corrado II, nel 1038, armò una spedizione con la quale discese in Italia ed il 13 maggio occupò Capua.
Dalla ridistribuzione delle terre che ne seguì si avvantaggiarono Rainulfo Drengot e numerosi altri capi normanni. Questi Normanni, che da un buon trentennio venivano sempre più numerosi nel Mezzogiorno, mostravano ormai di non voler più essere soltanto dei mercenari mobili, ma intendevano di fissarsi; e non solo quindi si annidavano qua e là, e si facevano dare investiture di questa e di quella terra, ma anche si mescevano con matrimoni agli indigeni3.
Nel 1039 morì l’imperatore Corrado II. Al fine di liberarsi della presenza saracena in Sicilia, caldeggiata dal Papa, si costituì una coalizione di Longobardi e Bizantini a cui aderirono i Normanni comandati dai fratelli d’Altavilla Guglielmo detto Braccio-di-Ferro, Drogone e Umfredo, figli di Tancredi e della di lui prima moglie, Muriella. Ma una rivolta antibizantina scoppiò nelle Puglie e a capo dei ribelli si pose Musando, subito affiancato da Argiro che era figlio di Melo. Quest’ultimo chiamò in proprio aiuto il normanno Rainulfo Drengot, così la spedizione organizzata per scacciare i Saraceni dalla Sicilia si rivolse contro i Greci di Puglia. Per tale impresa i diversi schieramenti normanni elessero come loro capo Atenolfo di Benevento, ma questi ne tradì la fiducia accordandosi con l’Imperatore d’Oriente.
Anche il figlio di Melo, Argiro, dal canto suo aspirava ad un compromesso con i Greci, così i Normanni, sia del Drengot che dei d’Altavilla, offrirono i propri servigi a Guaimaro IV, principe di Salerno e di Capua, il solo impegnato a continuare la guerra contro Bisanzio. Per questa loro scelta, Rainulfo Drengot e Guglielmo d’Altavilla, detto Braccio-di-Ferro, ottennero la promessa di spartizione delle terre che sarebbero state conquistate.
Nell’anno 1040, parimenti al soldo del principe Guaimaro IV, erano giunti in Italia altri due figli di Tancredi, Ruggero d’Altavilla, che era il minore, ed il fratello Roberto, detto il Guiscardo, cioè l’astuto, primogenito delle seconda moglie, Fressenda. Gli scrittori coevi, seguaci e sostenitori dei Normanni, guardano quasi ammaliati codesti due fratelli; e l’audacia, il coraggio ed il fulgore onde risplendono le imprese di essi, infondono nella loro prosa il colore ed il sapore di un’epica1.
Vinti i Bizantini, a Rainulfo Drengot fu assegnato Siponto e a Guglielmo d’Altavilla, detto Braccio-di-Ferro, nell’anno 1042 fu concesso il titolo di primo conte di Puglia.
Rainulfo Drengot morì nell’anno 1045. Guaimaro IV, forte del sostegno dei Normanni, aveva consolidato il suo potere su un vasto territorio che affacciava sull’Adriatico, sullo Ionio e sul Tirreno. Una sua figlia era andata in sposa a Drogone d’Altavilla che, nel 1046, subentrò al deceduto fratello Guglielmo, detto Braccio-di-Ferro, nel titolo di conte di Puglia.
Preoccupato di questa accresciuta potenza, e volendo riaffermare la propria autorità sulla Longobardia meridionale, l’imperatore Enrico III discese a Roma nel febbraio del 1047 e confermò i Normanni, della cui forza aveva da tenere debito conto, nei loro titoli e nei loro possedimenti. Ma un grave episodio venne a verificarsi: la suocera dell’Imperatore, Agnese d’Angiò, di ritorno da un pellegrinaggio al Gargano, passando per Benevento fu ingiuriata ed offesa nel corso di un tumulto popolare. Risentiti, l’Imperatore ed il papa Clemente II mossero contro la città e vi posero l’assedio, senza tuttavia poterla espugnare. Dovendone ripartire, Enrico III affidò al Papa il compito di portare Benevento alla capitolazione e assegnò parte del principato ai Normanni, legittimando, altresì, ogni loro futura conquista.
Avuta in questo modo via libera, i Normanni, incontrando scarse resistenze, si dettero ad occupare le terre del principato. Di Ariano si impossessò Gerardo di Buonalbergo, a Boiano si insediò Rodolfo e Telese fu presa da Ugo. Nel 1048, poi, occuparono Troia, aprendosi la strada verso la Calabria. Erano pochi e non avevano nulla, tranne che una dote, tanto più preziosa quanto più essa era ignota alla contrada: lo spirito d’unione che faceva di tanti mercenari un fascio di forze compatte e concordi al comando di alcuni capi, valorosi e spregiudicati insieme2.
Legittimati dal consenso imperiale, ormai non riconoscevano più alcuna autorità locale. L’eco delle loro facili conquiste non tardò a raggiungere i Paesi scandinavi da dove altre genti si mossero alla volta dell’Italia meridionale a dar man forte, ma soprattutto a depredare non solo i centri opulenti, ma anche chiese e monasteri sparsi nelle campagne.
La loro tracotanza e l’accresciuta potenza cominciavano a destare preoccupazioni anche nel Papa che vedeva minacciati i suoi stessi possedimenti. Difatti, Codesti avventurieri del secolo XI non sentirono scrupolo, durante le loro prime armi, di occupare, con le terre di questa o di quella chiesa locale, anche le terre di S. Pietro sparse, qua e là, nel paese, ove si facevano largo con impeto incontenibile1.
Esasperato, nella primavera del 1050 Leone IX corse in Germania da Enrico III, ottenendone mandato di pacificare Normanni e signorie meridionali. Con la mediazione del Papa i problemi parvero avviarsi a soluzione, anche perché in Benevento prevalse il partito pontificio; ma i Normanni, nonostante le promesse di deporre le armi, continuarono a compiere scorrerie e nefandezze di ogni genere.
Nel dicembre dell’anno 1050 papa Leone IX ottenne dall’imperatore Enrico III il dominio della città di Benevento, e ciò fu accolto con favore dai Beneventani che speravano fosse posto in tal modo un freno all’espansione normanna sulle terre del principato. Nel 1051 Leone IX dichiarò decaduta la dinastia longobarda in Benevento e pose al governo della città un proprio rappresentante col titolo di Rettore, imponendo nel contempo al longobardo Guaimaro IV, principe di Capua e di Salerno, ed a suo genere, il normanno Drogone d’Altavilla, conte di Puglia, il giuramento di sottomissione alla nuova signoria.
L’impegno estorto al conte di Puglia non fu tuttavia sufficiente a frenare le smanie normanne tanto che, nell’agosto del 1051, esasperati, i Longobardi ordirono in loro danno una congiura in cui perse la vita lo stesso Drogone d’Altavilla.
I Normanni, con l’appoggio di Guaimaro IV, elessero a loro capo Umfredo d’Altavilla che con la morte del fratello Drogone aveva assunto il titolo di conte di Puglia, e dilagarono, per vendetta, nelle terre del principato, giungendo a minacciare la stessa Benevento. Leone IX discese nel Sannio in un tentativo di pacificazione, ma le milizie pontificie furono assalite e disperse dai Normanni. Era l’anno 1052.
Il 3 giugno di quello stesso anno Guaimaro IV cadeva a Salerno vittima di una congiura che costituì nuovo pretesto di reazione per i turbolenti Normanni. Leone IX, deciso a farla finita con questi, richiese l’aiuto militare degli imperatori di Occidente e di Oriente, ed egli stesso assunse il comando dell’esercito nello scontro decisivo che ebbe luogo presso Civitate, nel Tavoliere delle Puglie, il 18 giugno 1053.
La coalizione antinormanna fu però sgominata ed il pontefice, alla cui presenza Roberto d’Altavilla detto il Guiscardo e gli altri duci normanni pur si inchinarono, fu fatto prigioniero e tradotto nella città di Benevento.
Morto Leone IX il 19 aprile dell’anno 1054, e quindi anche il suo successore Vittore II, salì al soglio pontificio Stefano IX, acerrimo nemico dei Normanni che, dal novembre del 1057 al marzo del 1058, si prodigò per raccogliere nuove forze da impiegare contro di essi; tuttavia la morte lo sorprese prima che avesse potuto portare a compimento i suoi progetti.
Gli successe Niccolò II che, con spirito pragmatico, riconoscendo ormai la consolidata potenza normanna, si risolse a trattare con essi alla ricerca di un definitivo e duraturo equilibrio. A Roberto il Guiscardo, che lo aveva sostenuto nella lotta contro l’antipapa Benedetto X, riconobbe, col concordato stipulato a Melfi nell’anno 1059, il diritto di possesso delle terre occupate, col titolo di conte di Puglia e Calabria; dal canto suo il Guiscardo riconobbe la supremazia feudale della Chiesa romana, impegnandosi alla restituzione delle chiese alla diretta dipendenza della sede pontificia, ma non degli antichi possedimenti ecclesiastici per i quali si fece ricorso all’ambigua espressione di regalia Sancti Petri che gli lasciava facoltà di disporne liberamente.
In virtù di questo accordo al papato rimase la città di Benevento con i territori ad essa circostanti compresi entro un raggio di dieci miglia, mentre la parte restante del principato venne a ricadere sotto l’influenza della casa d’Altavilla.
Le mire espansionistiche normanne si volsero quindi verso l’estremo lembo della penisola. Nel 1060 Ruggero e Roberto d’Altavilla avevano raggiunto Reggio Calabria ed il saraceno Ibn at-Tmnah, signore di Siracusa e di Noto, ne richiese l’aiuto per contrastare l’atteggiamento aggressivo del suo correligionario Ibn al-Hawwas; ma solo Ruggero intervenne incisivamente in Sicilia, permanendo nella penisola gli interessi di Roberto il Guiscardo1.
Fra il 1061 ed il 1070 non mancarono sterili tentativi di ostilità nei confronti dei Normanni che comunque non distolsero il Guiscardo dalla sua progressione nei territori di Puglia ai danni dei Greci. Accorso poi in aiuto del fratello Ruggero impegnato nella conquista dell’isola, l’8 gennaio del 1072 costrinse Palermo alla resa.
Le sue ambizioni però non potevano non impensierire il Papa e i principi longobardi che, a Montecassino, formarono una lega antinormanna e sobillarono i Pugliesi alla rivolta. Domati facilmente questi fermenti, Roberto d’Altavilla detto il Guiscardo volse le armi contro le residue roccaforti longobarde e bizantine.
Gregorio VI, salito al soglio pontificio, nel 1073 tentò di raggiungere un impossibile compromesso col Guiscardo che in quello stesso anno prese Amalfi.
Seguirono quattro anni di scaramucce e di ribellioni soffocate nel sangue finché, caduta Salerno nel 1077, il 19 dicembre, dopo averne saccheggiati i dintorni, l’astuto Normanno pose l’assedio a Benevento.
La pace fu conclusa col trattato di Ceprano il 29 giugno del 1080. Il principato di Benevento passò definitivamente in mano normanna e la sola città rimase alla Chiesa. Tramontava così, dopo cinque secoli, il dominio longobardo sull’Italia meridionale e vi si affermava quello normanno sotto la guida dello scaltro Roberto d’Altavilla.
Era l’inizio di una nuova era. Questi fieri e bellicosi uomini del Nord, qui sibi omnia diripientes, castella ex villis edificare ceperunt2 (i quali depredando ogni cosa, cominciarono ad edificare castelli là dove erano case di campagna), trasmettendosene quindi il possesso hereditario quasi iure, se avevano sino ad allora diffusamente praticato il brigantaggio, come presero coscienza della loro mutata condizione sociale, si impegnarono, con la stessa determinazione che avevano posto nell’uso delle armi, nel rilancio economico delle terre conquistate.
Nell’anno 1080, dunque, l’intero agro di Paternopoli era entrato a far parte dei possedimenti del normanno Roberto d’Altavilla detto il Guiscardo. La popolazione si presentava frammentata in miserabili villaggi, o celle, gravitanti nelle orbite della corte di Paterno e delle condome di San Quirico, di San Pietro e di Santa Maria. Vi si praticava, con metodi arcaici, una primitiva agricoltura intesa ad assicurare l’indispensabile alla sola sopravvivenza; comunque la miseria, più che economica, era morale. Dell’antico splendore della romana Bovianum non restava traccia che nei cumuli di pietre scolpite disseminate nelle quasi incolte contrade di San Pietro, Casale, Nocellete e Sant’Andrea.
Fra la fine dell’XI e gli inizi del XII secolo, sull’altura già sede della corte arimanna un tempo posseduta dal longobardo Giovanni Marepahis e dal di lui fratello Pietro donata al monastero di San Vincenzo al Volturno, a destra dell’attuale torre campanaria ed a margine della piazzetta detta Scala Santa, fu costruito il castello. Si indicava con tal nome un complesso urbanistico, chiuso ed autonomo, compreso entro massicce mura perimetrali sprovviste di aperture verso l’esterno, ad eccezione di elevate e strette fessure verticali realizzate in funzione difensiva ad uso esclusivo degli arcieri.
Si apriva al centro della struttura un cortile di ridotte dimensioni, probabilmente selciato, con cisterna abilitata alla raccolta delle acque piovane. L’accesso, unico, volgeva a sud ed era protetto da un pesante portone di quercia la cui tenuta era assicurata da una robusta trave che, disposta all’interno orizzontalmente con le estremità inserite in apposite cavità ricavate nella muratura degli stipiti, ne fermava i battenti in posizione di chiusura.
Gli ambienti all’estremità del cortile opposta all’ingresso costituivano la dimora padronale. Questa disponeva di grotte e di vasti locali interrati in cui custodire vino, olio e frumento, ma che in caso di necessità potevano trasformarsi in sicuri rifugi per le persone inidonee alle armi. Occupavano il piano terra la sala d’armi, la cucina e la scuderia. Una scala esterna, in legno, consentiva l’accesso al piano superiore dove erano la sala delle udienze e gli appartamenti privati. Delimitavano lateralmente il cortile gli alloggi della servitù, il frantoio e le botteghe artigiane del fabbro, del falegname, del sellaio.
Le pietre necessarie alla realizzazione dell’opera muraria furono prevalentemente ricavate dallo sventramento del fianco sud dello stesso colle che, spianato, avrebbe originato le odierne via Vittorio Emanuele ed omonima piazzetta, nonché da una serie di cave sotterranee oggi inglobate nel complesso di edifici che su quella piazzetta affaccia.
Il vasto ambiente seminterrato del castello normanno di Paterno, pur ristrutturato nei successivi adattamenti, ha sostanzialmente conservato l’originaria conformazione fino alla demolizione, susseguente al sisma del 1980, di palazzo Rossi che del castrum fu il naturale erede. Nel corso della stessa demolizione si sono appalesati, lungo il lato ovest della fortezza, un camminamento parzialmente occluso, dall’alta volta e di larghezza di poco inferiore al metro, ampi tratti della robusta muraglia in cui avevano trovato impiego enormi massi non lavorati, i resti consistenti di un contrafforte. Sul lato opposto si è evidenziata invece la cavità della cisterna a sezione quadrata.
Nei momenti di pericolo la popolazione rurale dei dintorni trovava sicuro rifugio in questi “castella”; veniva poi organizzata militarmente sotto il controllo del signore, che in breve tempo aumentò in modo considerevole il proprio potere e la propria influenza ... Vescovi e signori laici, cercando di assumere quanti più possibili “fideles et milites” (vassi), vi inclusero anche i “servi” e servi della gleba, anche se imperatori e papi proibivano l’addestramento dei servi alla guerra1.
Come già presso i Bizantini, i Normanni affidarono ciascun borgo o castello ad uno straticò2, sorta di magistrato che era investito del potere di rappresentanza del signore feudatario, ne curava gli interessi, agiva in nome e per conto di lui, amministrava la giustizia. La sua sede era il castello e del suo operato rispondeva direttamente ed esclusivamente al signore.
In Paterno lo straticò estese il proprio potere sull’intero territorio, incurante dei diritti delle chiese acquisiti in una secolare presenza, ripristinando l’integrità territoriale dell’antica Bovianum e ad essa conferendo il nome della località in cui era stato eretto il castello, cioè Paterno.
Qui, con la recuperata stabilità politica, nella certezza di una salda autorità centrale garante di duratura prosperità, un fermento di operosità involse la popolazione indigena strappandola al fatalismo in cui la conflittualità longobarda, le scorrerie saracene, il vandalico brigantaggio esercitato da gruppi o fazioni, le pestilenze introdotte da bande mercenarie la aveva precipitata. Furono ripristinate le vecchie fabbriche di mattoni, riaperte le cave di pietra, riattivate le fornaci per la produzione della calce, ripresi a sfruttare i depositi di sabbia e pozzolana.
Con la risistemazione del tracciato viario poi, ebbero nuovo impulso i commerci che, introducendo attrezzi più idonei, favorirono il rilancio dell’agricoltura, e per le greggi non più minacciate dal pericolo di razzie si iniziò il recupero dei pascoli da tempo abbandonati perché insicuri.
A riprova del repentino risveglio economico si registra, ai nostri giorni, un cospicuo ritrovamento sul territorio di monete databili all’XI e XII secolo.
1 Giuseppe De Jorio: Cenni statistici, geografici e storici intorno al comune di Paternopoli - Milano 1869.
2 Gustavo Strafforello: La Patria - Geografia dell’Italia - Torino 1896.
1 G. Pochettino: I Langobardi nell’Italia meridionale - Caserta 1930.
2 In origine De Hauteville. Famiglia normanna stanziatasi con Tancredi, nel X secolo, nella penisola del Cotentin in Francia, dove era assegnataria di piccoli feudi.
3 G. Pochettino: I Langobardi nell’Italia meridionale - Caserta 1930.
1 Ernesto Pontieri: Tra i Normanni nell’Italia meridionale - Napoli 1948.
2 Ernesto Pontieri: Tra i Normanni nell’Italia meridionale - Napoli 1948.
1 Ernesto Pontieri: Tra i Normanni nell’Italia meridionale - Napoli 1948.
1 Illuminato Peri: I Normanni nell’Italia meridionale, in Nuove questioni di storia medioevale - Milano 1964.
2 Chronicon Volturnense, a cura di Ludovico Antonio Muratori, in Rerum Italicorum Scriptores, Vol. II - Milano 1715.
1 Karl Bosl: L’Europa meridionale, in Storia universale dei popoli e delle civiltà - Torino 1983.
2 Detto anche stradicò, straticoto o stradicoto. Indicato nei documenti come stratigotus , non di rado è tradotto dagli studiosi col termine di stratigota.