Diritto alla Storia - Capitolo 5
La confusione politica che aveva caratterizzato l’età imperiale non poteva che ingenerare una profonda crisi economica, destinata a trasformarsi ben presto in crisi morale. Lo smarrimento dei valori tradizionali aveva precipitato la società civile, già nel corso del terzo secolo, in uno stato di generale decadenza. Il vescovo cartaginese Tascio Cecilio Cipriano, nel suo De Lapsis, aveva individuato le cause del declino nello scadimento della pietà a tutti i livelli, sia dirigenziali che delle masse, nella corruzione dei costumi, nella pratica della frode elevata a sistema, nello spergiuro, nella calunnia, nella profonda sperequazione fra la privilegiata minoranza di ricchi e la sconfinata folla di diseredati.
La ricerca di nuovi valori a cui fare riferimento aveva favorito la diffusione del cristianesimo che, agli inizi del secondo secolo, con l’imperatore Traiano, era radicato in Oriente e tollerato in Roma. Intorno al 250 però, sotto l’impero di Decio, aveva avuto inizio una spietata persecuzione che si era protratta quasi ininterrottamente fin sotto Diocleziano, ai principi del quarto secolo. In De mortibus persecutorum, così si era espresso Lucio Cecilio Firmiano Lattanzio, scrittore latino convertito al cristianesimo, morto intorno all’anno 320: Dopo molti anni, a tormento della Chiesa, fece la sua comparsa Decio, bestia esecrabile ... E come se appunto per questo fosse stato innalzato alla dignità imperiale, cominciò subito ad incrudelire contro Dio, affrettando la propria rovina.
Ma nulla avrebbe più potuto fermare l’espan-sione del cristianesimo che trovava facile attecchimento nello sconnesso tessuto sociale. Nel 285 la città di Benevento aveva avuto il suo protovescovo in Ianuarius, martorizzato il 19 settembre del 305 presso la solfatara di Pozzuoli insieme con il diacono Festo ed il lettore Desiderio, entrambi della Chiesa di quella città. Ad Abellinum già nella prima metà del III secolo si era diffuso il Cristianesimo con una immissione di coloni da Antiochia, importante centro cristiano d’Oriente. Figlio di un orientale di Antiochia era S. Ippolito martorizzato tra il 303 ed il 312 insieme con altri compagni e sepolto nello “Specus Martyrum”, una catacomba allora poco fuori dalla città e oggi tramutata nella cripta della chiesa di S. Ippolito, la chiesa madre di Atripalda1.
In Oriente, intorno al 250, i primi asceti avevano lasciato il mondo per ritirarsi in solitaria contemplazione lungo la valle del Nilo. Il più famoso fra essi era stato San Paolo di Tebe di cui San Girolamo ci ha lasciato una biografia. Erano stati questi i cosiddetti Padri del deserto sul cui esempio l’abate Antonio, poi santo, spogliatosi dei propri averi, si era fatto rinchiudere in un’antica tomba scavata nella montagna. Nel 305 poi, l’abate aveva raccolto intorno a sé i primi discepoli, dando inizio a quel movimento eremitico destinato a popolare di asceti l’Egitto, l’Asia Minore, la Siria e, alfine, l’Occidente.
Soltanto nel 313 Costantino, per l’impero di Occidente, e Licinio e Massimino II, per quello d’Oriente, avevano emanato, in Milano, un editto col quale veniva concessa libertà di culto per tutti i sudditi, compresi i cristiani. Più nulla si opponeva dunque alla penetrazione del cristianesimo sicché, nel corso del quarto secolo, formata alla scuola dell’abate Antonio, potette approdare dall’Egitto al Meridione d’Italia la figura ascetico mistica propria del monachesimo cristiano, tendente a risolvere l’ideale della perfezione non in una tavola astratta di valori, ma nell’exemplum di una vita santamente vissuta.
Sempre più numerosi ormai i giovani di buona famiglia lasciavano le proprie ricchezze e le città per ritirarsi in meditazione, per cercare nell’isolamento della preghiera le ragioni dell’esistenza. Essi, come gli eremiti della valle del Nilo, assumevano il nome di Pater. Le biografie dei maggiori vennero ad essere diffuse come esempi di vita: è tipica la Vita Apollinii che è la narrazione di una straordinaria ed intensa attività predicatoria, oracolare, taumaturgica e finanche magica.
Le “Vitae Patrum” furono, e rimangono, oltre che la documentazione complessa e possente del movimento e dell’esperienza monastica, la figura sacralmente concreta dello stesso monachesimo cristiano nelle sue origini e nel suo pieno sviluppo2.
Alla fine del quarto secolo l’Irpinia, devastata dal sisma del 369, impoverita per il ristagno economico, isolata per l’abbandono e la decadenza delle antiche grandi vie di transito, spopolata dalle carestie e dalle epidemie divenute endemiche, inselvatichita nei suoi terreni una volta fertili, si candidò come la terra ideale in cui i Patres potessero trovare rifugio dalle tentazioni del mondo e quiete in cui immergersi in meditazione.
All’inizio del quinto secolo la Bovianum romana era pressoché ridotta ad un cumulo di macerie. Nei vici semideserti si praticava una stentata agricoltura, mentre la pastorizia era del tutto scomparsa in quanto gli animali da pascolo costituivano facile preda per le bande di soldati che il collasso dell’impero aveva lasciate prive di qualsiasi controllo.
Compresa nel suo territorio, in posizione centrale, una naturale collinetta si elevava a dominare le valli e le terre circostanti, e consentiva allo sguardo di spaziare da sud-est ad ovest sul superbo scenario della dorsale appenninica, di spingersi a nord fino alle brulle regioni sannitiche, di adagiarsi sui colli che ad est sovrastano l’Ufita. I pendii non agevoli che ne isolavano la sommità si presentavano come una pietraia aggredita dai rovi su cui stentava una rada vegetazione. E’ probabile che il luogo non fosse mai stato stabilmente abitato.
Sembrava il posto ideale per stabilire un contatto con Dio, ed un Pater lo elesse a propria dimora. Che avesse rinunciato ai beni del mondo, che avesse spontaneamente scelto una vita di solitudine e di sacrificio, dovette apparire inesplicabile, se non addirittura prodigioso, alla gente semplice, da sempre avvezza a difendere con l’astuzia o con la forza i propri miseri averi dall’avidità e dall’arroganza altrui. Il crollo dei valori che aveva comportato il disfacimento della società, lo sgretolamento del potere centrale, unico garante di stabilità, l’avevano lasciata senza certezze e, nel disorientamento in cui annaspava smarrita, il Pater venne a porsi come punto di riferimento, come realtà a cui aggrapparsi per non essere travolta dalla confusione della decadenza morale, della rassegnazione, del fatalismo. Ancora pagana nei costumi, nelle credenze, nelle superstizioni, nella mentalità, questa gente vide nel Pater un rinnovato strumento attraverso il quale portare avanti le proprie istanze, il rappresentante di una divinità che, per tradizione e per cultura, non poteva sentire sostanzialmente diversa da quelle fino ad allora temute ed implorate.
La fama del Pater non dovette tardare a varcare i confini della vetusta Bovianum, e Paternum fu chiamato il colle su cui esso viveva ed operava.
In tanti dovettero accorrere a Paternum dai lontani villaggi disseminati lungo le valli del Fredane e del Calore, e per farsi curare piaghe e malattie, e per intercedere per un defunto, e per supplicare il ritorno di un familiare lontano, o più semplicemente per sollecitare i buoni auspici per un raccolto. Tutti identificavano nel Pater il mago e il taumaturgo, ne ascoltavano il linguaggio erudito, ne subivano il carisma, senza tuttavia saperne cogliere il messaggio di speranza che andava oltre i bisogni immediati.
Sopravvisse il nome Paternum alla scomparsa del Pater, ad indicare il solo eremitaggio però, il colle consacrato a luogo di culto. L’intero territorio, che nel devastato pago di San Pietro-Sant’Andrea identificava il proprio centro amministrativo ed economico, continuò a serbare l’antico nome di Bovianum.
Tempi ancora più bui si apprestavano intanto per le già martoriate terre d’Irpinia: popolazioni barbare, di origine germanica e scandinava, sospinte da ondate migratorie di orde tartaro-mongole e attratte dalle ricchezze dell’impero, avevano varcato i confini fino a giungere a Roma che, nel 410, per tre giorni era stata messa al sacco dai Visigoti di Alarico.