Diritto alla Storia, Le Cappelle Laicali

Diritto alla Storia - Capitolo 17

L’ingresso del 1500 aveva trovato il borgo di Paterno in rapida espansione. Decaduto ed abbandonato il vecchio monastero francescano, la chiesa della Nunziatella che affacciava sulla piazza non aveva tardato a mostrare i propri limiti in rapporto alla popolazione in costante crescita. Pure la cripta cimiteriale ad essa sottostante, satura ormai delle sepolture di oltre tre secoli e con i posatoi ingombri di cataste di ossa ammuffite, si rivelava inadeguata.

Si era anche infittita la rete stradale interna. Una nuova strada, oggi vicolo cieco definito col nome improprio di via San Francesco, da via della Dogana, poco al disopra della porta di Castello, conduceva a tergo della chiesa per diramare a destra, verso la piazza, ed a sinistra, con sbocco sull’area del Seggio. Il terreno che si estendeva fuori delle mura digradando a sinistra della porta di Napoli, noto col nome di Giardino della Corte, era attraversato da un sentiero detto l’Inchianata dello Pescone2. Dall’area fortificata, da dove altera e minacciosa la torre aragonese vegliava sul borgo, costretto fra le siepi dell’orto del monastero francescano e l’allinearsi scomposto di miserabili bicocche, un viottolo, oggi via San Francesco, discendeva alla piazza oppressa dal disordinato sovrapporsi di usci, di archi, di fughe di scale, di bui meandri pregni del nauseabondo sentore di umido e di muffa.

Lo stesso castello ne era stato aggredito, smembrato, travolto nel generale degrado. Mancando di servizi igienici, soddisfacendo la gente i propri bisogni fisiologici all’aperto, fuori delle mura, o in recipienti che non sempre venivano svuotati in aperta campagna, dai vicoli esalava un fetore d’orina.

Le abitazioni erano in genere costituite da angusti monolocali seminterrati, o da soprani collegati alla strada per mezzo di ripide scalette. I tetti bassi, spioventi, incombevano sul susseguirsi di uscioli intervallati dall’unica finestra, minuscola allo scopo di impedire il passaggio ad eventuali malintenzionati, munita di grata di legno ed oscurata da un lurido cencio. L’impiantito dei seminterrati era in terra battuta o a selce, in legno quello dei piani soprelevati, più raramente pavimentato con piastrelle in terracotta. I camini, sprovvisti di canna fumaria, erano disposti presso l’unica finestra onde agevolare la dispersione del fumo.

Le suppellettili erano ridotte al minimo indispensabile: un tavolo di modeste dimensioni, detto boffetta; un paio di casse, di cui una per il necessario per il cucito e per la filatura della lana, oltre che per qualche coperta ed i pochi indumenti buoni per i giorni di festa, e l’altra per contenere legumi, farine, pagnotte e talvolta gli avanzi; segmenti di tronco d’albero utilizzati come sgabelli (piesciuli) e panche basse, per una o più persone, (scannitielli e scanni). In rari casi si disponeva di mensole di legno incassate nel muro su cui riporre ciotole, posate ed i grossi piatti d’uso collettivo (spase), altrimenti stipati nella cassa in cui si custodivano le scorte alimentari.

La parte più recondita della stanza era occupata da un saccone di tela, talvolta da due, imbottito di paglia e disteso sul pavimento, più raramente su tavolato appena sollevato da terra per mezzo di cavalletti di legno, che fungeva da letto per l’intera famiglia. Sospesa ad una parete era qualche pentola di rame annerita dalla fuliggine, ottenuta in dote o in eredità. L’illuminazione era fornita da una lucerna di terracotta che utilizzava olio di oliva come combustibile.

Le abitazioni sottoposte al piano stradale disponevano di un ulteriore ambiente, la fossa, o grotta, o trasonda, una sorta di ripostiglio scavato in profondità nel terreno argilloso (morgia) in cui si custodivano le poche provviste: olio, vino, frutta secca, unitamente a legna e fascine.

Dalle pertiche sospese orizzontalmente ai soffitti bassi pendevano serti di sorbe, nocciole e peperoni essiccati (‘nzerte), mazzi d’agli e di cipolle, grappoli d’uva (piennici), insieme con la vescica della sugna ed il pezzo di lardo di maiale, ingiallito e rancido, da cui staccare la fetta giornaliera per condirne i cibi. Nelle case meno povere facevano altresì mostra di sé salsicce, capicolli, soppressate e, talvolta, il prosciutto, esibito con orgoglio quale simbolo di benessere.

Sotto il soffitto o nel sottotetto, quasi ovunque, era ricavato uno spazio angusto delimitato da assi e collegato allesterno per mezzo di una pertica munita di pioli. Era questo il pollaio e, dall’alba al tramonto, uno stuolo di galline invadeva le strade, le case, chiocciando, sporcando, cibandosi di scarafaggi e di rifiuti.

Ove gli spazi lo consentivano trovava posto, a ridosso dell’abitazione, un precario ricovero, lo iusillo o porcile, dal quale si levavano grugniti e fetore.

Più ampie e confortevoli erano invece le case di recente costruzione, esterne alla cinta muraria e discoste dal borgo, anche se preponderanti restavano le baracche e le tane brulicanti di diseredati.

Ferdinando II, re d’Aragona, detto il Cattolico, aveva visitato Napoli nell’anno 1506 ricevendone una calorosa accoglienza e cospicui contributi in danaro. Sotto la guida di un viceré il regno si avviava ad un lento ma irreversibile processo di trasformazione che tendeva da una parte a concentrare la nobiltà nella città, allo scopo di conferirle quel prestigio che si addiceva al suo ruolo di capitale europea, e dall’altra mirava a rafforzare l’autonomia amministrativa delle province al fine di snellire il complesso meccanismo burocratico che ne frenava lo sviluppo.

Pure Luigi Gesualdo III, signore di Paterno, disponeva in Napoli di una propria dimora, anche se ormai preferiva la tranquilla vita di provincia e l’intimità del suo castello di Conza, lontano dai veleni della politica e dagli intrighi di corte. Aveva sposato Giovanna, figlia del principe di Salerno Antonello Sanseverino, e da questo matrimonio erano nati Fabrizio, destinato a succedergli nei beni feudali, Camillo che aveva intrapreso la carriera ecclesiastica ed aveva ottenuto la nomina di arcivescovo di Conza, Giovanni e Costanza1.

I Gesualdo non avevano possedimenti personali in Paterno, se non quelli pertinenti alla corte baronale. L’ultimo proprietario del castello e dei cospicui latifondi era stato Giacomo Caracciolo alla cui morte, in assenza di eredi diretti, tutti i beni, acquisiti al demanio, erano andati divisi e dispersi, non sempre con la dovuta chiarezza, fra la nascente borghesia che esprimeva il clero, i notai e la variegata schiera di amministratori locali. Di questa, la famiglia Litio era fra le più ricche e le più influenti. Annoverava fra i suoi membri notai, giudici, prelati e, nella persona di Antonio Litio, morto nell’anno 1455, poteva persino vantare di aver dato un vescovo alla curia di Nusco1.

I de Martino, famiglia altrettanto ricca ed influente, col vantaggio però di essere fra le più antiche del borgo menzionandosene un esponente già nel 1142, seppure ridotto in stato di servilismo, avevano case a tergo della chiesa, difronte alla cripta cimiteriale, lungo la strada che collegava il Seggio con via della Dogana. I Russo invece, il cui casato muterà in Rossi, pur essendo di recente acquisizione, si erano insediati in una parte del vecchio castello. Ad altri maggiorenti, quali i notai Nicola de Poro e Bartolomeo Avisato, andava il merito di aver contribuito allo sviluppo urbanistico dell’area compresa fra la porta di Castello e la torre.

Una classe intermedia, costituita da artigiani, commercianti e proprietari terrieri, si andava nel contempo affermando, suddividendosi in gruppi di quartiere bisognosi, per tradizione, di identificarsi in un proprio luogo di culto. Questo sentimento aveva prodotto in passato le numerose chiese rurali, frutto dell’impegno di ogni singolo casale, e, più di recente, aveva reso possibile l’ampliamento della chiesa di San Luca e la fondazione, in essa, della cappella dell’Annunziata ad amministrazione laica. Acuiva tale esigenza la considerazione che i monasteri esistenti sul territorio dipendevano tutti da lontane abbazie le quali, beneficiando di lasciti e donazioni, sottraevano al paese ricchezze che altrimenti potevano essere utilizzate per testimoniare più degnamente in loco la munificenza e la devozione di un popolo.

Questa aspirazione diffusa non tardò ad esprimere comitati rionali convergenti sull’ambizioso progetto di realizzare una chiesa madre che potesse contenere diverse cappelle, incoraggiati e sostenuti in tale iniziativa dal numeroso clero che ambiva alla titolarità di un altare. Né tuttavia mancarono i dissensi che dovettero essere vinti in animate discussioni di piazza. Si giunse alfine alle sedute assembleari in cui furono designati i questuanti, nominati i tesorieri, e si dette inizio alle sottoscrizioni in danaro, in prodotti ed in promesse di manodopera gratuita.

Nell’anno 1516 morì Ferdinando il Cattolico. Nel suo definitivo testamento aveva indicato quale suo successore Carlo V, appena sedicenne, e sebbene il passaggio della corona non avvenisse senza traumi, questi lontani eventi non furono neppure avvertiti a Paterno. Né ne frenò l’operosità la morte di Luigi Gesualdo III che avvenne in Conza il 14 novembre 1517. Gli succedeva nei beni feudali il figlio Fabrizio che, rivestendo la carica di Regio Consigliere, viveva stabilmente a Napoli. Costui, il 30 ottobre del 1518, pagò il prescritto relievo2, ed il 4 dicembre dello stesso anno ottenne dal viceré Raimondo de Cardona l’investitura del feudo di Conza, col titolo di conte, e quella delle terre di Frigento, Auletta, Caggiano, Cairano, Calitri, Caposele, Castelvetere, Castiglione, Fontanarosa, Gesualdo, Luogosano, Palo, Paterno, Selvitelle, Santa Menna, Sant’Andrea, Santangelolefratte, Taurasi, Teora, Buoniventre, Pietraboiara, Salvia, Santa Maria in Elice e Villamaina3.

Carlo V fu incoronato imperatore ad Aquisgrana nell’anno 1520 e ciò acuì il disappunto di Francesco I di Francia, al pari dei suoi predecessori interessato ai possedimenti spagnoli dell’Italia meridionale.

Il 10 aprile 1520 l’imperatore, con diploma emesso dalla città di San Giacomo di Campostella, confermava tutte le concessioni feudali fatte dal viceré a Fabrizio Gesualdo I. Il nuovo feudatario aveva sposato Sveva, figlia del principe di Melfi Troiano Caracciolo, e da lei aveva avuto tre figli: Luigi, quarto di tal nome, Troiano e Geronimo1.

Intanto l’università di Paterno era tutta mobilitata nella realizzazione della chiesa madre mediante l’ampliamento della preesistente struttura intitolata all’Annunziata. L’opera fu portata a compimento nell’anno 1522: un luogo di culto spazioso, a tre navate, con ingresso, oggi detto porta piccola, dalla piazza. Parimenti fu ampliata la cripta sotterranea, recuperando nuovi spazi per le sepolture, ed una imponente torre campanaria a due spioventi fu eretta a sovrastare il piazzale del Seggio.

Una delle grotte che aprivano sull’attuale piazzetta Vittorio Emanuele II, antiche cave di pietra, penetrava in profondità fin sotto il presbiterio. Era detta, questa, grotta sotto la chiesa. Qui, a sostegno dell’opera muraria soprastante, furono edificati due archi, il più interno al disotto dello stesso presbiterio e l’altro in verticale col nuovo muro perimetrale.

L’altare della navata centrale fu dedicato a San Nicola che fu assunto a patrono della terra. L’effigie del Santo fu fatta riprodurre su tela e, in quello stesso anno, fu disposta a sovrastarne l’altare2.

All’interno della chiesa si insediarono le diverse cappelle. Quella dell’Annunziata conservò la sua originaria posizione alla destra dell’altare maggiore, le altre, di Santa Monica, di Santa Maria del Rosario, del Santissimo Corpo di Cristo, di Santa Maria di Monteserrato, ebbero i loro altari lungo le navate laterali. Erano tutte laicali e soggette ad ius patronatus, vale a dire con riserva da parte dei fondatori del diritto di nomina del clero per le funzioni religiose. Appartenevano tutte a fedeli organizzati in confraternite, ad eccezione di quella di Santa Maria di Monteserrato di cui era proprietaria un’unica famiglia, probabilmente quella dei de Donato.

Le varie cappelle si amministravano autonomamente e non avevano dipendenza alcuna dalla chiesa. In merito si era espressa con chiarezza la Sacra Rota: Confraternitas erecta in Ecclesia dicitur quid separatum ab Ecclesia ... Et sic aliud est Ecclesia, aliud Confraternitas. La confraternita istituita nella Chiesa è da considerare entità separata dalla Chiesa medesima ... E così una cosa è la Chiesa, altra la confraternita.

All’atto della costituzione ciascuna confraternita si dava un proprio statuto, comunque non dissimili fra loro, che veniva depositato presso la Curia Vescovile. La congregazione poi, in seduta plenaria, eleggeva il proprio Rettore nella persona di un sacerdote che restava in carica a vita. La Cappella del SS. Rosario similmente si governa da Procuratori, i quali si eleggono dal Rettore di detta Confraternità, e sono approvati, e confermati dalli Confratelli di detta Compagnia, e dopo per bussola si cavano due, e quelli restano per Procuratori di quell’anno, e tengono anche la detta autorità di esigere, e pagare3.

Dallo stralcio dello statuto della Congregazione del Santissimo Rosario emerge chiaro come, da una rosa di nomi proposta dal Rettore ed approvata dal Collegio dei Confratelli, si estraessero a sorte due Procuratori incaricati, per la durata di un anno, di riscuotere rendite ed elargizioni e di effettuare i pagamenti costituiti non solo dai compensi per i servizi religiosi, ma anche dal costo dei ceri, dalla ordinaria manutenzione, dal rinnovamento degli arredi sacri e dagli interventi intesi a migliorare le condizioni della cappella.

Il coinvolgimento popolare nella gestione di una chiesa patronale, sentita come patrimonio comune dall’intera università, contribuì a decretare la definitiva decadenza dei monasteri, che non poteva tuttavia essere immediata. Ancora ingenti erano i beni di cui essi disponevano, frutto della passata devozione. Ne è riprova il fatto che, il 2 febbraio 1527, con atto del notaio di Mercogliano Giovanni Tommaso de Morra, il vicario di Montevergine frate Francesco de Falco concesse per 20 anni, a Giovanni Petruccio, a Nicola de Angerio e ad altri cittadini di Paterno, un castagneto in località La Grassuta, presumibilmente la zona scoscesa sul versante del Fredane compresa fra Serra a monte e Canalicchio a valle, in cambio di 100 tomoli di grano all’anno1, corrispondenti a 45 quintali circa.

Cresceva intanto la tensione tra la Spagna ed il re di Francia che cercava giustificazioni che legittimassero l’invasione del regno di Napoli da lungo tempo meditata. La crisi esplose nell’anno 1527. Le truppe francesi, al comando del Maresciallo Odet de Foix, visconte di Lautrec, discesero in Italia, saccheggiarono Roma e quindi mossero verso Napoli a cui posero l’assedio.

Il visconte di Lautrec preferì evitare l’assalto alla città, giudicando che ciò avrebbe comportato ingenti perdite fra le sue file, e, per costringere i Napoletani alla resa, ricorse all’incauto espediente di far occludere gli acquedotti.

Ben presto però gli assedianti ebbero a patire le conseguenze dell’insano gesto. Le precarie condizioni igieniche causate dalla carenza d’acqua favorirono l’insorgere di una terribile pestilenza che prese a mietere vittime sia fra i belligeranti che fra la popolazione civile. Perdurando l’assedio, nell’anno 1528 perirono di peste lo stesso Odet de Foix ed il suo luogotenente Pietro Navarro.

Decimati, delusi, i Francesi dovettero ritirarsi ma, per desiderio di vendetta o in previsione di un nuovo progetto di invasione, cominciarono ad offrire protezione e sostegno alle azioni piratesche che i Turchi da tempo andavano compiendo nel mare Mediterraneo contro le coste pugliesi e la stessa capitale.

A Paterno non giungevano che i soli echi di questi lontani eventi. La sua posizione interna aveva, prima, preservato i cittadini dal contagio della letale epidemia e li teneva, ora, al sicuro dalle incursioni turche. La popolazione si manteneva pertanto su livelli elevati, tanto che, nel 1532, l’università fu tassata per 161 fuochi2. Prosperavano le cappelle per la generosità dei fedeli, né la devozione per la Madonna di Montevergine si era del tutto affievolita. Il 17 luglio 1532, con atto del notaio di Paterno Nicola de Poro ed alla presenza di Antonio Petruzello in veste di giudice annuale della stessa terra, i coniugi Pascuccio Sarro e Rebecca donarono all’abbazia di Montevergine la loro casa nel borgo, dotata di forno e fossa, con tutti i mobili in essa contenuti ed in più un asino, col patto di essere accolti come oblati in quel monastero per trascorrervi il resto dei loro giorni, di riceverne cibo e di esservi seppelliti alla loro morte3. Ed ancora: Antonella, rimasta vedova di Conforto Sara e non intendendo prendere marito per la seconda volta, con atto redatto dal notaio di Paterno Bartolomeo Avisato, assistito dal giudice annuale Nicola de Rogerio, il 17 luglio 1533 fece dono al monastero di Montevergine di tutti i suoi beni esistenti in Paterno, e cioè di una casa ubicata in Pendino della Fontana con un piccolo orto contiguo, di un orto nel luogo detto Sant’Angelo e di una vigna con campo in località Acquara, in cambio di cibo, vestiario, sepoltura nella chiesa di San Nicola di Paterno solennizzata dalla celebrazione di dieci messe e, per finire, quarantuno messe all’anno in suffragio della sua anima, da celebrarsi in Montevergine4.

Né mancavano di risorse i pur numerosi luoghi di culto sparsi sul territorio. Nella zona oggi genericamente denominata Casale, oltre la chiesa annessa al monastero di San Pietro ve ne era una sotto il titolo di Santa Margherita Vergine e Martire; nel casale di Sant’Andrea sorgeva quella intitolata a Santa Maria del Monte Carmelo; fra Boane e Cerreto sopravviveva la vetusta chiesa di San Damiano ed altra, poco discosta, era stata eretta in onore di Santa Prassede; in contrada Nocelleto si venerava Santa Maria della Sanità; nei pressi del Fredane, fra Tuoro e Sferracavallo, sorgeva la chiesa di Santa Maria delle Grazie; la chiesa di San Felice era eretta nell’omonima contrada; quella dedicata al culto dell’Arcangelo Michele era stata trasferita dai pressi del vallone a monte della Pescarella a margine della fontana edificata dai Francesi; lungo il Pendino della Fontana era sorta quella sotto il titolo di San Sebastiano; San Quirico e Santa Maria dell’Assunta, detta comunemente a Canna, erano annesse ai rispettivi monasteri1.

Comunque non tutte potevano dirsi espressione di reali esigenze spirituali, soprattutto le cappelle presenti nel borgo, di recente fondazione, le cui confraternite costituivano dei veri e propri potentati gestiti di fatto dai clan familiari più in vista. Alle famiglie emergenti, che per ragioni di prestigio destinavano un proprio esponente alla carriera ecclesiastica, non restava alternativa oltre quella di promuovere l’aggregazione di nuove confraternite capaci di mobilitare risorse per la realizzazione di nuove cappelle su cui garantirsi lo ius patronatus.

Fu così che la chiesa di Santa Maria di Costantinopoli, oggi conosciuta sotto il titolo di San Giuseppe, fu edificata nell’anno 1534, come attesta la scritta ora illeggibile scolpita sull’architrave della porta di ingresso: HOC OPUS F.F ET A / FUNDAMENTIS EREX / UNIVERSITAS PATERNI / 15342;

Quest’opera realizzarono i confratelli e dalle fondamenta eresse l’università di Paterno nell’anno 1534;

ed altra seguì, a metà strada lungo il Pendino dell’Angelo, consacrata al culto di San Vito.

La disponibilità in tali occasioni manifestata dal popolo, se per un verso costituisce prova di profonda devozione, è per l’altro indicativa di un diffuso benessere. La popolazione non solo era cresciuta numericamente, ma aveva pure acquisito capacità e intraprendenza. Fiorivano l’agricoltura e l’artigianato ed i prodotti locali venivano commercializzati sui mercati più vantaggiosi, anche se lontani.

Non mancava neppure chi si dedicasse alla faticosa ma redditizia attività militare. La spedizione contro Tunisi, condotta nell’anno 1535 dall’imperatore Carlo V per porre fine alle scorrerie piratesche dei Turchi, impegnò con onore il capitano di ventura Martino Musacchio da Paterno che ne meritò il cingolo militare e fu insignito del Clavio di fortezza3.

Eppure il fisco falcidiava l’economia con esasperante meticolosità. Oltre la tassa focatica, comprensiva di quella sul sale, che colpiva indiscriminatamente ogni nucleo familiare, una serie articolata di imposte veniva a gravare sulle persone fisiche, sulle attività produttive e sulla molteplicità dei beni. Una tavola dell’apprezzo, di cui a scopo esemplificativo è opportuno stralciare qualche voce, fu disposta da Pietro Piccolo nel novembre 1541: ... - Item lo mastro calzolaro senza discepolo onze 2 - Item lo mastro scarparo zavattero onza 1 e 1\2 - Item lo mastro calzolaro che cuse con sole d’altri e non tiene capitania sua onza 1 e 1\2 - Item lo mastro forgiaro inviato con stigli e forgia onze 2 - Item lo mastro ferraro con discepolo onze 3 - Item lo ferraro che sta lavorante onza 1 e 1\2 - Item lo barbiero con discepolo onze 2 e tarì 5 - Item lo mastro fabbricatore onze 2 - Item lo mastro fabbricatore che repezza e non va a giornata onza 1 e 1\2 - Item lo potecaro con poteca lorda e con capitania onze 2 - Item lo mastro d’ascia seu carpentiere con discepolo onze 2 - Item lo bove e lo ienco di tre anni tarì 12 - Item lo ienco di un anno in due tarì 8 - Item la vacca stirpa domita tarì 10 - Item la vacca stirpa selvaggia tarì 6 - Item la vacca figliata selvaggia tarì 7 - Item la vacca figliata domita tarì 11 - Item la persona dell’uomo che stà a patrone purché sia maggiore onza 1 - Item le persone delli figliuoli gionti che saranno alli anni undici finiti li dieci si impongono un tarì per ogni anno insino all’anni dieceotto - Item la persona dell’uomo che sarà gionto alli anni dieceotto se stà con il patre se ponga onza 1 - Ma stando separata dal patre se ponga onza 1 e tarì 6 - Item lo centinaro di porci di otto misi a bascio si pongono doi per uno tarì 22 e grana 10 - Item lo centinaro delle pecore onza 1 e 1\2 - Item lo centinaro delle capre tarì 22 - Item la giomenta figliata tarì 11 - Item la giomenta stirpa tarì 10 - Item lo cavallo o mula di basto tarì 10 - Item l’asino di basto tarì 5 - Item lo trappito tarì 20 - Item la persona del molinaro che stà a patrone onza 1 - Item lo molinaro masto che concia molini onza 1 e 1\2 - Item la persona del mercante con loro danaro onza 3 - Item la persona del viaticaro con lo mulo onze 2 - Item la persona delli medici chirurgi onza 1 e 1\2 - Item li spetiali medicinali lavoranti onza 1 e 1\2 - Che li piedi d’olivi siano distinti l’uno dall’altro otto palmi, e che l’olivo possa fare mezzo tumolo d’olivo per uno per ogni anno e si pongano grana 5 lo piede - Item le vigne di zappa se pongano per ogni migliaro tarì 3 - Item le vigne poste in palo non ostante che non facciano frutto se pongano ut sopra - Item la persona della vidua tarì 10. ... Così il calzolaio privo di apprendista (è soggetto al pagamento di) once 2 - Così il ciabattino once 1 e mezza - Così il calzolaio che lavora cuoio fornito dal committente e non dispone di materiali propri once 1 e mezza - Così il fabbro forgiatore che si sposta con attrezzi e forgia once 2 - Così il fabbro con apprendista once 3 - Così il fabbro che lavora alle dipendenze di altro once 1 e mezza - Così il barbiere con apprendista once 2 e tarì 5 - Così il muratore once 2 - Così il muratore che rappezza e non è retribuito a giornate lavorative once 1 e mezza - Così il negoziante con bottega e mercanzia proprie once 2 - Così il falegname o carpentiere con apprendista once 2 - Così il bue ed il vitello di tre anni tarì 12 - Così il vitello di età superiore all’anno ma inferiore ai due tarì 8 - Così la mucca sterile avvezza al giogo tarì 10 - Così la mucca sterile non aggiogata tarì 6 - Così la mucca prolifica non aggiogata tarì 7 - Così la mucca prolifica aggiogata tarì 11 - Così l’uomo che presta lavoro dipendente, purché maggiorenne, oncia 1 - Così i figli che siano nell’undicesimo anno, avendo compiuto i dieci, siano soggetti al pagamento progressivo di un tarì per ogni anno di età, sino al compimento dei diciotto - Così l’uomo che avrà compiuto i diciotto anni, se vive presso il padre paghi oncia 1 - Ma se non vive in seno alla famiglia paghi oncia 1 e tarì 6 - Così per ogni centinaio di maiali di età inferiore agli otto mesi, considerandone due come se fossero uno, tarì 22 e grana 10 - Così per ogni centinaio di pecore once 1 e mezza - Così per ogni centinaio di capre tarì 22 - Così la giumenta prolifica tarì 11 - Così la giumenta sterile tarì 10 - Così il cavallo o la mula avvezzi al basto tarì 10 - Così l’asino avvezzo al basto tarì 5 - Così il frantoio tarì 20 - Così il mugnaio che svolge lavoro dipendente oncia 1 - Così l’artigiano che ripara i mulini once 1 e mezza - Così chi esercita l’attività di mercante con danaro proprio once 3 - Così la persona che effettua trasporti a dorso di mulo once 2 - Così i medici chirurgi once 1 e mezza - Così gli speziali abilitati alla preparazione di medicinali (gli odierni farmacisti) once 1 e mezza - Per le piante d’olivo, che siano disposte alla distanza di otto palmi l’una dall’altra in modo che ciascun olivo possa produrre mezzo tomolo di olive per anno, si paghino grana 5 per pianta - Così per le viti coltivate basse si paghino tarì 3 per ogni migliaio di piantine - Così le viti sorrette da pali, nonostante non producano frutto, si paghino come sopra (cioè tarì 3 per ciascun migliaio) - Così la vedova tarì 10. Nel 1545 Paterno fu tassata per 195 fuochi1. Nello stesso anno la regia Camera della Sommaria aveva impartito più dettagliate disposizioni per il rilevamento dei fuochi e sancito che chiunque avesse sottratto con sotterfugio il proprio focolare al censimento sarebbe stato punito con la confisca dei beni e sottoposto a giudizio. Nel dettato erano contemplati anche i casi per i quali era prevista l’esenzione fiscale. Non erano soggetti a tassa focatica: Vidua sola aut cum filiabus femminis seminatum cum paucis aut nullis bonis - Vedove con tre o quattro figlie, et haverà una casa et tanto territorio, del quale ne farà una botte di vino, quando più et quanto meno - Vedove che possedono poche robbe estimate in catasto per doe onze o poco più - Vidua cum puberibus sine bonis - Senex solus pauper et sexageniarius vel infirmus - Sexagenario che have solum un figlio preite o vero diacono de evangelio unito con patre - Vagabundus non possidens - Barones habitantes in terris eorum domini. La vedova sola o con figlie femmine, dotata di terreno seminativo scarsamente o niente affatto produttivo - Le vedove con tre o quattro figlie, pur se provviste di casa e di terreno dal quale però si ricavi più o meno una sola botte di vino - Le vedove che posseggono pochi beni del valore catastale di due once o poco più - La vedova con figli piccoli e sprovvista di beni - L’anziano solo, povero e sessantenne o infermo - Il sessantenne che abbia un unico figlio, prete o diacono, vivente presso di lui - Il vagabondo privo di risorse - I baroni abitanti nelle terre soggette al loro dominio. Erano altresì esenti da tassa le suore e i preti. Per questi ultimi però si imponeva la verifica delle bolle di consacrazione e, in mancanza, si faceva obbligo agli addetti alla rilevazione di accertarsi che celebrassero messa. Quanto alle donne amiche de preiti, che hanno figliuoli grandi, o che possedono, le quali fate dubbio se devono da trattarsi per meretrici, o non, dicimo, che non se devono trattare per meretrici, ma vedete iusta le regole, che tenete, se devono restare per fuoco. Quanto alle donne conviventi coi preti, le quali abbiano figli adulti o posseggano beni propri, per le quali si sia in dubbio se debbano o meno essere considerate prostitute, si ritengano per donne qualsiasi e si applichino nei loro confronti i normali parametri al fine di stabilire se debbano o meno corrispondere la tassa focatica.

Non erano, alfine, soggetti a tassazione coloro che avessero non meno di dodici figli, nonché i soldati e gli uomini d’armi.

I 195 fuochi censiti nell’università di Paterno sottintendevano un elevato livello di benessere dai benefici del quale però, per l’opera infaticabile e non disinteressata delle confraternite e del clero diocesano, restavano ormai esclusi gli antichi monasteri. Quello di San Francesco era stato del tutto abbandonato e solo qualche anziano religioso permaneva in San Quirico con funzioni di guardiano, tanto da consigliare all’abbazia di Montevergine la dismissione dei cospicui possedimenti nella obiettiva difficoltà di curarne la gestione con qualche profitto. Così, in mancanza di un valido referente sul posto, il 15 maggio 1546 padre Gregorio da Mercogliano fu nominato procuratore in ordine alla vendita di un terreno in Paterno, di circa 30 moggi1, donato all’Ospedale del-l’Annunziata di Napoli dal defunto Felice di Paterno2.

Intanto, il 14 giugno 1545, era deceduto Fabrizio Gesualdo I ed il figlio Luigi IV, in data 30 settembre 1546, ottenne dal viceré don Pietro di Toledo l’investitura della contea di Conza e degli altri feudi fra cui Paterno, nonché delle terre di Villamaina e di Sant’Angelo all’Esca che suo padre aveva acquistato da Giovanni Antonio Capece3.

L’incremento demografico di Paterno dilatava il perimetro del borgo, ma soprattutto favoriva la crescita e lo sviluppo dei nuclei periferici quali via Pescone, via Croce, via Acqua dei Franci. Alla prima abitazione costruita dal proprietario di un appezzamento di terreno a fronte della strada, altre se ne aggiungevano a tergo che questi destinava ai propri figli. Ne risultavano alfine dei vicoli che assumevano la denominazione del capostipite, se vivente, o in caso contrario del di lui casato. Così si ricorda che Giulio Cesare Mansione, che il 24 giugno 1564 sposò Isabella de Bellucis di Grottaminarda, possedeva parte di una casa in Paterno, in rua dei Sandoli4, che era appena fuori della porta di Napoli; così nel borgo, alle spalle della chiesa di San Nicola, là dove funzionava il forno pubblico, una via era detta di Angelo Grasso5.

Nella zona in cui oggi ha principio la via per l’Acquara, interessata al passaggio dei mercanti che trafficavano fra la pianura Campana e la Puglia, alle locande si erano venute ad affiancare numerose abitazioni civili. Qualche precario ricoverò già insidiava pure il Giardino della Corte, lungo l’Inchianata dello Pescone, ed altri se ne addossavano alle spalle del castello, nell’area detta Dietro Corte, oltre la quale si apriva la campagna denominata Fosse1.

Il monastero di San Francesco ne possedeva i terreni a monte (l’area a tergo dell’omonima chiesa, comprensiva della strada, del monumento ai Caduti e di parte di piazzale Kennedy), più in basso si estendevano le proprietà della famiglia de Mattia2 (la zona sottostante lungo la quale oggi scorre il tratto di via Nazario Sauro compreso fra piazza XXIV Maggio e via Fiorentino Troisi).

La cinta muraria dell’antico borgo aveva praticamente esaurito la sua funzione difensiva. Sistematicamente saccheggiata delle pietre da impiegare in nuove costruzioni, consentiva il varco in più punti. L’abbondanza di materiale facilitava l’ampliamento delle vecchie abitazioni. Se ne avvantaggiò largamente l’agglomerato sorto presso la torre, dirimpetto alle prigioni, per la realizzazione di una imponente struttura di sostegno costituita da tre arcate che, fra l’altro, salvaguardavano i sottostanti abituri ricavati nel terreno argilloso3.

Ciò nonostante, ufficialmente l’accesso al borgo restava limitato alle sole due antiche porte. Quella di Castello veniva ancora familiarmente detta porta di sopra, mentre l’altra invece conservava il nome originario, come si rileva dal contratto di vendita, stipulato il 29 marzo 1627 dal notaio Tullio Zoina a favore di Andrea de Latrico, di una quoda hortum cap. insimine unius metriede incirca cum uno pede ficus intus situm et positum in distrittu ditte t.re ubi dr. la porta de napoli justa a capite viam publicam justa ad uno lte.m viam vicinalem justa a pede et ab alio later.m bona ipsius andree et als fines ...4

parte di un orto di capacità seminativa di circa un metro, con dentro una pianta di fichi, sito nel distretto di detta terra dove si dice la porta di Napoli, prospiciente la strada pubblica lungo la parte superiore, limitata da un lato dalla via vicinale e confinante in basso e dall’altro lato con i beni dello stesso Andrea, nonché con altre proprietà ...

La cisterna del castello non bastava più a soddisfare i bisogni dell’accresciuta comunità. Invero raramente se ne erano servite le donne che da sempre preferivano attingere l’acqua in capaci orci (mescetore) da portare in bilico sul capo, alla fontana dei Francesi, all’Acquara o, più di sovente, alla Pescarella, detta fontana delli guatuni, ove si aveva la possibilità di concedersi un breve riposo dalle fatiche della giornata nella chiesa di Santa Maria a Canna.

Era sempre aperta questa chiesa e ad ogni ora vi recitavano le orazioni le suore del monastero, tutte di buona famiglia, spesso sacrificate ad indossare l’abito monacale per evitare l’eccessiva frantumazione dei patrimoni. Nell’ora vespertina, poi, vi si poteva assistere alla messa officiata da don Francesco Aceto, un prete napoletano a cui, in data 8 luglio 1555, era stato conferito il beneficio seu cappella di Santa Maria a Canna della Terra di Paterno, nella Diocesi Frequentina, vacato per la morte di Filippo Floreto di Acerno, quale Grancia di S. Guglielmo del Gulito annesso a Montevergine5.

Dall’alba al tramonto ogni rione, ogni sobborgo brulicava di bambini sudici, cenciosi, intimiditi dalle occhiate severe degli anziani seduti fuori degli usci. Solo un’esigua minoranza fruiva dei primi erudimenti di scrittura e di calcolo impartiti dal clero con metodi coercitivi.

Pubblico notaio era Bartolomeo Avisato. Alla sua attenzione venivano sottoposti i fatti che i cittadini ritenevano opportuno documentare perché conservassero efficacia nel tempo. Così egli era tenuto a prendere nota nei suoi registri delle disposizioni testamentarie, delle donazioni, dei lasciti, dei contratti di vendita, dei patti matrimoniali, dei nominativi degli amministratori eletti e persino di testimonianze da far valere in controversie giudiziarie.

Non vi era un funzionario addetto all’anagrafe. Le nascite e le morti erano indirettamente documentate dal parroco in distinti registri per le annotazioni dei battesimi e delle cerimonie funebri.

Non mancava invece nel borgo il negozio dello speziale a cui era demandato il compito di preparare gli intrugli medicamentosi secondo le indicazioni del medico. Tuttavia la maggioranza della popolazione affidava la cura della propria salute alle pratiche magiche che, pur se condannate dalla Chiesa, sopravvivevano e si esprimevano con una molteplicità di guaritrici che godevano fama di stregoneria.

Per combattere appunto tali forme di eresia Carlo V aveva provato ad introdurre nel regno i tribunali dell’Inquisizione, a somiglianza di quelli tristemente attivi in Spagna, incontrando però tenaci resistenze. L’ultimo tentativo in tal senso, condotto nell’anno 1547, aveva addirittura suscitato a Napoli una sommossa popolare, di cui si era fatto promotore Tommaso Aniello Sorrentino, che aveva avuto come conseguenza la costituzione di una milizia civica di circa 14.000 unità da contrapporre ai soldati spagnoli incaricati di far rispettare le disposizioni. Numerose erano state le vittime degli scontri e Carlo V, in cambio della deposizione delle armi, era stato costretto a ritirare il decreto. Successivamente, nell’anno 1554, non essendo riuscito a recuperare popolarità fra la gente, aveva dovuto rinunciare alla corona di Napoli a favore del figlio Filippo II.

Nell’anno 1561 Paterno fu tassata per 263 fuochi1. Il suo signore, Luigi Gesualdo IV, il 30 maggio ottenne l’investitura di Principe di Venosa e l’università, come consuetudine, dovette autotassarsi per l’omaggio rituale che al feudatario era dovuto in occasione di ogni evento straordinario.

Il 31 luglio di quell’anno, poi, l’Irpinia fu interessata da un nuovo terremoto ricordato in questi termini dallo storico Scipione Bellabona: All’ultimo di luglio 1561 di giovedì alle 22 hore (cioè a due ore dal tramonto) si mosse in Avellino una crudelissima tempesta de’ venti ... Appresso a questo, dopo un’hora, prima, che per la sopravenente notte s’ottenebrasse l’aria, all’improvviso sopravvenne così terribile Terremoto, che senza interrompimento di tempo durò un pezzo, e tal fu lo scotimento, e tremore, che l’una casa su l’altra poggiando, lasciò quasi in tutte lesioni, e fissure, e fra l’altre, nelle Torri del Castello, e nel Vescovado.

L’epicentro si era localizzato nella valle del Sele, abbastanza lontano perché Paterno subisse gravi danni, tuttavia il fenomeno venne avvertito come segno della collera divina. Pesava su tutti la colpa di aver permesso il decadimento del monastero di San Francesco. Ne fu restaurata la chiesa, ma ciò non si ritenne sufficiente, e alfine, nell’anno 1565, fu iniziata la costruzione di un nuovo convento2.

Ciò fu possibile grazie al notaio Nicolangelo Petruzzo che donò alla Religione di San Francesco la Scarpa un territorio di tomola 10 con una vigna, dove si dice S. Cesinale, ed una casa per edificare un monistero dell’istessa Religione col nome di Santa Maria della Pace, con le condizioni che vi avessero dovuto permanere quattro frati dell’istessa Religione de’ quali uno fosse stato predicatore: e che questi frati non avessero dovuto mai partire, né abbandonare detto monistero per qualunque causa, e nel caso partissero la suddetta donazione restasse irrita e cassa, ed i suddetti beni donati ritornassero, anche senza sentenza del giudice, nel primo dominio del donante Nicolangelo Petruzzo, de’ suoi eredi e successori3.

Parimenti si arricchiva la terra di Paterno di solidi e spaziosi edifici in muratura che testimoniavano le floride condizioni economiche in cui ora versava l’università. Fra altre, ai piedi del Pendino della Fontana, sulla via per Napoli, sorse la nuova casa dei Debracio, il cui casato muterà negli anni successivi in Debrazzo e quindi in De Brazzo. Per l’occasione fecero scolpire lo stemma di famiglia da esibire alla sommità dell’ingresso: uno scudo su cui campeggiava un braccio sinistro, vestito d’armatura, ricurvo ad angolo retto a contenere la scritta DEBRA \ CIOAD \ 15701 (Debracio - Anno del Signore 1570), a simboleggiare una condizione sociale di preminenza acquisita con la forza delle armi ed il coraggio posti al servizio del re.

Abitava in Rua delle Rose la famiglia Litio. Questa esercitava la propria influenza sulla cappella di Santa Maria del Rosario e, nell’anno 1583, erano dei Litio sia il Rettore che uno dei due procuratori, come si evidenzia dalla presentazione del cunto et bilanzo di me Vincenzo Litio de Paterno e mastro Lonardo Casali Mastri della Cappella di S. Maria del SS. Rosario de Paterno, electi per lo Rev. jo: Baptista Litio Rettore o Cappellano de dicta Cappella del SS. Rosario tanto per le intrate, quanto per le elemosine, quali so nell’anno 1583 e 1584 intrante, et anco quello exitato per loro amministrazione2.

conto consuntivo e bilancio di previsione (disposti) da me, Vincenzo Litio di Paterno, e da mastro Leonardo Casali, Procuratori della Cappella di Santa Maria del SS. Rosario di Paterno, eletti (su proposta avanzata) dal Reverendo Giovanni Battista Litio, Rettore e Cappellano di detta Cappella del SS. Rosario, (relativi) sia alle rendite che alle elargizioni, quali risultano (incassate) nell’anno 1583 e (da incassare) nell’entrante 1584, sia anche a quanto speso durante la loro amministrazione.

Il 17 maggio 1584 morì Luigi Gesualdo IV. Aveva sposato Isabella Ferrello ed il loro primogenito, Fabrizio II, ne ereditò i feudi3. Dal 1577, anno in cui avevano pagato alla Regia Corte i relativi diritti, esercitavano i Gesualdo lo ius patronatus su molte cappelle delle loro terre, quali la chiesa di Santa Maria del Castello in Gesualdo; la chiesa di San Nicola con gli arcipresbiteriati di Sant’Angelo, di Santa Maria a Corte, di San Bartolomeo e di Santa Marta in Nemore, tutti in Fontanarosa; la chiesa di San Pietro nel castello di Taurasi; le chiese di Sant’Angelo e di Santa Maria, in Sant’Angelo all’Esca4.

Nessun diritto vantavano invece su alcuno dei numerosi luoghi di culto di Paterno, tutti amministrati da locali associazioni laiche, dalle quali però restavano escluse molte delle famiglie protagoniste di una più recente ascesa sociale. Ai De Bracio, ai Russo, agli Zoina, cui suonava discriminatoria ed umiliante tale preclusione, non rimase che costituire una nuova confraternita che votarono alla devozione di Maria Santissima della Consolazione.

Sollecitarono costoro, ed ottennero, ospitalità nella chiesa maggiore. Incaricarono quindi un valente artista del tempo, il pittore fiorentino Francesco Vestrumo, di raffigurare la Santissima Madre e, nell’anno 1588, la sacra immagine della Vergine assisa in trono, dipinta su tavola, fu esposta alla venerazione del popolo nella navata sinistra della chiesa di San Nicola.


2 Letteralmente “la salita del masso”, oggi via Pescone. La denominazione le derivava dalla presenza di una enorme pietra, successivamente rimossa.

1 Erasmo Ricca: Istoria de’ feudi delle Due Sicilie, Vol. II - Napoli 1865.

1 Biblioteca Provinciale di Avellino - Carlo Aristide Rossi: Provincia di Avellino - Monografia de’ 128 comuni della Provincia - Manoscritto ricopiato nell’anno 1946.

2 Erasmo Ricca: Istoria de’ feudi delle Due Sicilie, Vol. II - Napoli 1865.

3 Erasmo Ricca: Istoria de’ feudi delle Due Sicilie, Vol. I - Napoli 1865.

1 Erasmo Ricca: Istoria de’ feudi delle Due Sicilie, Vol. II - Napoli 1865.

2 Un Irpino: Uno scandalo in Irpinia nell’epoca borbonica in Paternopoli (Av).

3 Michelangelo Cianciulli: Per la Congregazione del SS. Rosario di Paterno contro l’Università della medesima Terra - Napoli 1760.

1 Giovanni Mongelli: Abbazia di Montevergine - Regesto delle pergamene, Vol. V - Roma 1956.

2 Lorenzo Giustiniani: Dizionario geografico ragionato del Regno di Napoli, Tomo VII - Napoli 1804.

3 Giovanni Mongelli: Abbazia di Montevergine - Regesto delle pergamene, Vol. V - Roma 1956.

4 Giovanni Mongelli: Ibidem.

1 Giuseppe De Rienzo: Notizie storiche sulla Miracolosa Effigie di Maria SS. della Consolazione, precedute da un saggio istorico sulla terra di Paterno - Napoli 1821.

2 Un Irpino: Uno scandalo in Irpinia in epoca borbonica in Paternopoli (Av).

3 Salvatore De Renzi: Uomini illustri nati a Paternopoli, appendice a Notizie storiche sulla Miracolosa Effigie di Maria SS. della Consolazione - Napoli 1967.

1 Lorenzo Giustiniani: Dizionario geografico ragionato del Regno di Napoli, Tomo VII - Napoli 1804.

1 Nel Napoletano il moggio aveva valore di unità di superficie, corrispondente a 100 canne quadrate, pari ad are 6,999. Se ne desume che il terreno in parola avesse la superficie di circa 21.000 mq.

2 Giovanni Mongelli: Abbazia di Montevergine - Regesto delle pergamene, Vol. I - Roma 1956.

3 Erasmo Ricca: Istoria de’ feudi delle Due Sicilie, Vol. I - Napoli 1865.

4 Antonio Palomba ed Elio Romano: Storia di Grottaminarda, il paese di San Tommaso - Grottaminarda 1989.

5 Archivio di Stato di Avellino - Protocolli notarili, Distretto di Sant’Angelo dei Lombardi: Notai di Paternopoli - Fasc. 1875.

1 Archivio di Stato di Avellino - Protocolli notarili, Distretto di Sant’Angelo dei Lombardi: Notai di Paternopoli - Fasc. 1875.

2 Archivio di Stato di Avellino - Ibidem.

3 Foto n. 4, Tav. XXXVI, della pubblicazione. Scuola Media Statale “F. de Jorio”: Paternopoli, linguaggio e testimonianze di un’antica cultura - Edizione a cura della Cassa Rurale ed Artigiana di Paternopoli - Anno 1991.

4 Archivio di Stato di Avellino - Protocolli notarili, Distretto di Sant’Angelo dei Lombardi: Notai di Paternopoli - Fasc. 1875.

5 Stralcio di documento dell’Archivio della SS. Annunziata di Napoli, Vol. XI, n. 420, riportato quale nota in: Giovanni Mongelli: Abbazia di Montevergine - Regesto delle pergamene, Vol. V - Roma 1956.

1 Lorenzo Giustiniani: Dizionario geografico ragionato del Regno di Napoli, Tomo VII - Napoli 1804.

2 Foto a pag. 457 della pubblicazione: Scuola Media Statale “F. de Jorio”: Paternopoli, linguaggio e testimonianze di un’antica cultura - Edizione a cura della Cassa Rurale ed Artigiana di Paternopoli - Anno 1991.

3 Giuseppe De Rienzo: Notizie storiche sulla Miracolosa Effigie di Maria SS. della Consolazione, precedute da un saggio istorico sulla terra di Paterno - Napoli 1821.

1 Foto n. 1 della Tav. LVII della pubblicazione: Scuola Media Statale “F. de Jorio”: Paternopoli, linguaggio e testimonianze di un’antica cultura - Edizione a cura della Cassa Rurale ed Artigiana di Paternopoli - Anno 1991.

2 Cianciulli Michelangelo: Per la Congregazione del SS. Rosario di Paterno contro l’università della medesima Terra - Napoli 1760.

3 Erasmo Ricca: Istoria de’ feudi delle Due Sicilie, Vol. I - Napoli 1865.

4 Libro dei Rilevj di Principato Ultra e Capitanata.

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