di Antonino Salerno
Prima che il tempo ne cancelli irrimediabilmente la memoria, avverto il bisogno di esprimere personale riconoscenza ad un signore d'altri tempi, un uomo giusto, amico degli umili, che esercitava a Paternopoli la professione di medico non a scopo di lucro, ma per sola generosità. Mi riferisco a don Marcello Famiglietti, esponente di una vetusta famiglia, a cui spettava il "don", più che per diritto di nascita, per nobiltà d'animo.
Era l'alba del 9 settembre 1943, quando il X corpo britannico ed il VI americano, della V armata al comando del generale Clark, sbarcarono, rispettivamente, sulle spiagge di Battipaglia e di Paestum. A supporto delle truppe provenienti dal mare, alle due circa di quella stessa notte, furono paracadutati nell'entroterra salernitano soldati e munizioni. Per un grossolano errore dell'aviazione, un numero consistente di militari fu rilasciato sul territorio di Paternopoli, ove era attivo un ospedale militare tedesco e vi era di stanza, oltre al personale medico e paramedico, una compagnia motorizzata agli ordini di un capitano che parlava correntemente l'italiano.
In contrada Cupitiello, ove fu concentrato l'errato lancio, aveva la masseria, circondata da un esteso podere in lieve pendio, mio nonno materno, Luigi D'Amato. Poiché la campagna era ritenuta più sicura del centro abitato, nella sua casa, con pagliericci sistemati ovunque alla men peggio, si era accampato il grosso dei suoi familiari, fra figli, generi, nuore e nipoti.
Antonio Blasi ne aveva sposato la prima figlia, Consolata. Costui, quella notte, preso da un impellente bisogno fisiologico, non disponendo l'abitazione di servizi igienici, uscì per portarsi a ridosso della siepe deputata allo scopo. Aveva fatto solo qualche passo, quando si bloccò, colto da un'improvvisa vaga percezione, dal fastidioso sentore di una presenza indefinita. Rimase fermo per un lungo istante, tendendo l'orecchio, trattenendo il respiro. Il silenzio non lo tranquillizzò: permaneva l'oscura sensazione che lo aveva indotto a fermarsi. Con voce esitante, chiese se ci fosse qualcuno. Attese col fiato sospeso. Nulla. Replicò la richiesta. Una incerta figura si materializzò nell'oscurità. Altre ombre, indistinte, si agitarono alle sue spalle. Antonio rimase a fissarle, inebetito, incapace di profferire parola, paralizzato più dallo stupore che dalla paura.
L'uomo che si fece avanti, in tuta mimetica ed armato di un corto mitra, non si mostrava minaccioso. "Americani", gli disse in un bisbiglio, con accento marcatamente straniero. Antonio tacque. Il militare gli si accostò ancora di più. "Salerno?", chiese. Antonio tardò un istante a realizzare il senso della parola, quindi scosse il capo negativamente: "Là", disse, levando il braccio incerto e tremante ad indicare oltre la sagoma scura del monte Terminio immerso nella tenebra. Poi si guardò intorno e, in tono dimesso, sillabò: "Pa-ter-no-po-li".
Il soldato, un graduato forse, estrasse una mappa e la consultò alla luce di una torcia. Si volse, quindi, verso i compagni e parlò brevemente in una lingua incomprensibile. Oltre, a distanza, gli fece eco un brusio di voci, dopo di che, in tanti, in gruppi distanziati fra loro, emersero dall'ombra per allontanarsi attraverso i campi nella direzione indicata.
Antonio rimase immobile, frastornato, a seguirli con lo sguardo finché, confusi con la vegetazione, non furono inghiottiti dalla notte. Alfine si scosse. Muovendosi come un automa, dimentico dell'impellenza che lo aveva indotto a levarsi dal letto in quell'ora insolita, tornò sui suoi passi. "Americani ... Americani ...", articolava ad alta voce, quasi a voler penetrare il senso di quel termine, o ansioso forse di sottrarsi ad un sogno confuso. "Americani ...". Quella parola, ripetuta, ossessiva, risuonò nel silenzio della casa. Qualcuno fu strappato al sonno, accorse, interrogò, si dette a bussare freneticamente alle porte. In breve l'intera casa fu in subbuglio. Tutti tempestavano di domande Antonio il quale, sopraffatto dalla preoccupata curiosità dei congiunti, si rigirava or verso l'uno, or verso l'altro, incapace di dare risposte sensate.
Via via l'eccitazione scemò e la smania di sapere spinse tutti fuori dell'uscio. La campagna era scura, impenetrabile, interrotta dal solo nero profilo degli alberi. Nessun suono si avvertiva nell'aria.
Alquanto delusi, rientrarono in casa per intrattenersi, al lume della lucerna ad olio, nell'ampia cucina lastricata di pietre squadrate, per commentare l'accaduto, per avanzare supposizioni, per esprimere preoccupazione e pietà per quei giovani caduti dal cielo su un suolo sconosciuto e pieno di insidie.
Poco a poco l'orizzonte schiarì oltre i vetri della finestra chiusa. Alcuni si affacciarono all'uscio per scrutare la campagna. Appariva deserta e sfumata nella bruma schiarita dal chiarore antelucano, sopita in una immobilità innaturale. Eppure una macchia scura, animata dalla brezza mattutina, palpitava lieve fra le stoppie. Ci si avvicinò, prudenti: impigliato fra steli rinsecchiti, un paracadute maculato. La scoperta richiamò tutti all'esterno, incuriositi, eccitati. Le donne di casa palparono, avide, il tessuto: ottima stoffa, morbida, leggera, resistente. D'istinto fu avviluppato e portato in casa.
Gli uomini si inoltrarono nei campi, in ordine sparso, allettati, speranzosi di altri ritrovamenti. Gradatamente, sottratti alla caligine che diradava, apparvero decine di paracadute. Le corse si fecero precipitose, smaniose di fare incetta di quella dovizia. Uno oppose resistenza alla presa. Se ne cercò la causa. Assicurata ai suoi lacci, si scoprì una cassa metallica. Più oltre, un'altra. Qualcuno, un ragazzo forse, suggerì che contenessero derrate alimentari. Gli americani dovevano pur mangiare! Lo disilluse la saggezza di un anziano: munizioni! Le casse dovevano essere immediatamente occultate. Ci sarebbero state gravi conseguenze se fossero state rinvenute nel loro terreno. L'eccitazione cedette all'apprensione. I compromettenti reperti furono celati sotto una catasta di fascine.
Scemata l'euforia, in casa gravava un silenzio innaturale, pervaso di malcelata preoccupazione. Per sottrarsi al clima cupo che vi regnava, qualcuno uscì all'aperto. Il sole si levava sulla campagna che cominciava a tingersi dei colori autunnali e nulla, nella quiete del mattino, lasciava presagire l'imminente catastrofe.
Non ci si avvide subito delle divise tedesche che, con le armi spianate, frugando fra i cespugli, risalivano il colle. Le casse di munizioni furono rinvenute. Il silenzio fu rotto da concitati ordini gutturali.
Quindici furono gli uomini prelevati dalla casa di mio nonno, fra cui un frate, padre Amedeo, figlio di suo fratello. Altri sei contadini di passaggio furono rastrellati nei dintorni. Tutti, terrorizzati, tremanti, furono ammassati in una cava di pietre di proprietà di don Marcello Famiglietti, a circa cinquanta metri dalla masseria.
Il sole, ormai alto, strappava sinistri riflessi alle armi brunite. Il capitano interrogava. Quelli, gli occhi sbarrati, ipnotizzati dalle nere bocche dei fucili, ne percepivano le parole come suoni confusi, privi di senso. Erano madidi di sudore eppure scossi da brividi di freddo che ne investivano le membra in un tremore convulso. La paura serrava le gole, inaridiva le bocche, paralizzava i pensieri.
La notizia del dramma che si stava consumando nella cava di pietre si diffuse in paese. Il podestà, don Marcello Famiglietti, con l'impulsiva generosità che lo caratterizzava, non esitò ad accorrere sul posto. Irruppe nella cava e si interpose fra gli ostaggi ed il plotone schierato. Si stava commettendo un irreparabile errore, disse al capitano. Quella era gente semplice, pacifica, avvezza al duro lavoro dei campi, che alla patria aveva consacrato i propri figli migliori. Per nessuna ragione avrebbero prestato aiuto all'odiato nemico che, con indiscriminati bombardamenti, stava provocando lutti e distruzione all'Italia.
Parlò a lungo, con veemenza, don Marcello Famiglietti, e seppe essere così convincente che, a un certo punto, con un cenno, il capitano ingiunse ai propri uomini di riporre le armi.
Frastornati, le membra indolenzite dalla tensione che ne rendevano incerti i passi, gli ostaggi, seguiti dal podestà e dai militari, risalirono la breve scarpata e furono sull'aia prospiciente la masseria. Li raggiunsero le donne di casa, l'ansia impressa sui volti sconvolti dall'attesa lacerante. Sguardi rassicuranti dissolsero in mute lacrime l'angoscia che le opprimeva e, subito, una frenesia euforica le travolse, le affrettò a servire soppressate, pane casereccio e boccali del vino di cui la cantina era abbondantemente fornita.
Gradualmente si dissipò ogni residua diffidenza e non tardò ad innescarsi fra i militari d'oltralpe e la gente del posto un tentativo di dialogo fatto di gesti, di parole scandite, di azioni mimate. Poi, dalle tasche delle giubbe emersero foto gualcite di ragazze sorridenti, di bambini paffuti, di case dai tetti spioventi, ed un umore nostalgico inumidì gli sguardi cerulei perduti in una terra lontana.
Nei giorni seguenti fu rafforzata la presenza militare nella zona ed una cucina da campo fu istallata nello spazioso fienile di assi, poco discosto dalla masseria.
La convivenza fra soldati e civili durò pacifica, improntata al reciproco rispetto, finché i tedeschi, non senza la promessa di rivedersi un giorno, smobilitarono per raggiungere il grosso delle forze dirette a Nord.
Di loro non si seppe più nulla, e alla famiglia di mio nonno non ne rimase che un sempre più vago ricordo, non scevro di malinconia, unitamente alla riconoscenza verso don Marcello Famiglietti per il suo provvidenziale intervento.