di Antonino Salerno
Il 28 maggio 2005, nel 250° anniversario della sua morte, le poste italiane hanno commemorato San Gerardo Maiella con l'emissione di un francobollo che ne propone in primo piano l'effigie.
Gerardo Maiella nacque a Muro Lucano il 6 aprile del 1726. Ventiseienne, dopo tre anni di noviziato presso il convento di Deliceto, nel 1752, prese i voti da frate redentorista. Due anni dopo, nel 1754, trovandosi a Napoli, gli fu ordinato di portarsi presso il convento di Materdomini, per cui si mise in cammino attraverso la pianura Campana verso il Principato Ulteriore.
Si sviluppavano i commerci fra la pianura Campana e le Puglie lungo due arterie principali che attraversavano la provincia di Principato Ultra. L'una, toccando Benevento, ricalcava il tratto della via Appia sino ad Eclano, dove deviava verso Ariano; l'altra invece, anch'essa un tracciato romano, col nome di via Napoletana seguiva un percorso vallivo, costeggiando la riva destra del Calore per proseguire lungo il corso del Fredane e, attraverso la valle dell'Ansanto, immettersi sulla via Appia, in territorio di Frigento. Quest'ultima, diramando sulla destra, oltre il Fredane, poco al disopra della sua confluenza nel Calore, originava la cosiddetta via interna dell'Irpinia, anch'essa tracciata dai Romani al tempo della colonizzazione, che attraverso Paterno, Girifalco, Torella, sfiorando l'abbazia del Goleto, raggiungeva Lioni, per proseguire verso le Puglie lungo il corso dell'Ofanto. Era questa una strada impervia, spesso interrotta da frane e smottamenti, quasi impraticabile durante la stagione invernale, percorribile a piedi o a dorso di mulo, ma comunque unica via di collegamento con l'entroterra lucano.
Alla metà del XVIII secolo la terra d'Irpinia aveva un aspetto desolante. Le campagne, pur se coltivate e fiorenti, erano rimaste spopolate per l'inasprirsi del fenomeno del brigantaggio, in seguito alla peste bubbonica del 1656, ed i borghi si presentavano arroccati sulle cime dei colli, stretti intorno alle antiche fortezze e castelli di origine normanna. Erano grigi, intristiti, questi borghi, e mostravano tuttora le ferite profonde loro inferte dal sisma del 29 novembre 1732, che tanti lutti aveva causato.
Affinché il frate potesse raggiungere la destinazione impostagli, il castello di Paterno costituiva passaggio obbligato. Era questo borgo, da sempre, un punto cruciale per i traffici commerciali fra la pianura campana e la Basilicata e la Puglia, tanto che, nella guerra fra Ferdinando I d'Aragona e il duca Giovanni d'Angiò, le truppe dello Sforza, accorse in aiuto del re napoletano, vi avevano posto l'assedio con risultati soddisfacenti in quanto, nel rapporto intitolato Contra Paternum, spedito il 26 novembre 1461 al duca di Milano dall'ambasciatore Trezzo, si era potuto affermare che Orso Orsini, signore di Nola alleato all'angioino, si era visto costretto ad allontanare circa seicento persone, perché non c'è victualia. E ancora, il 5 dicembre 1461, Alessandro Sforza aveva annunciato con soddisfazione al duca di Milano la capitolazione di Paterno, considerata la importantia del loco, che è terra de passo, quanto al dare e al devetare le victuaglie a Nola .
Dunque, guadato il Fredane, in territorio di Paterno frate Gerardo iniziò l'ascesa del colle lungo il versante detto Cierro Ferrazzo, alla volta dei Serroni. Non era raro imbattersi in una vatica, cioè in una carovana di muli carichi di frumento, ed i richiami dei conducenti, o vaticali, risuonavano per gli anfratti boscosi in un incrociarsi di saluti dai motivi cantilenanti. A tratti il silenzio dei boschi era pure interrotto dai suoni gutturali delle voci dei soldati di campagna che avevano il compito di vigilare sulla sicurezza dei traffici.
Dalla sommità dei Serroni, lo sguardo spaziava ad abbracciare le vette appenniniche e la verdeggiante vallata solcata dal Calore. La strada si faceva pianeggiante e, di lì a poco, appariva Paterno, sovrastata dalla massiccia mole della torre aragonese.
Un paio di miglia più avanti era d'obbligo sostare a rinfrescarsi alla fonte dell'Acquara. Si era ormai in prossimità del sobborgo chiamato Taverne, dove le locande brulicavano di forestieri e l'aria era pregna dell'odore di stallatico. Qui era una chiesetta, scarsamente frequentata, eretta sotto il titolo di San Giacomo.
Si accedeva al borgo per la via chiamata Pendino della Fontana, oggi via Salvatore De Renzi. Lungh'essa un borghetto s'era costituito a ridosso della chiesa di San Sebastiano, nella quale erano pochi ormai i fedeli che sostavano in preghiera. Tutta la devozione era volta alla cappella di Maria Santissima della Consolazione, all'interno della Maggiore Chiesa intitolata a San Nicola. Tale predilezione si giustificava col fatto che, il 16 aprile del 1751, la Vergine aveva concesso la grazia della parola al giovane Giovanbattista di Amato della città di Benevento, muto per aver patito un colpo apoplettico. Altre prodigiose guarigioni erano poi seguite a suscitare sì vasta eco da richiamare d'ogni dove folle di sofferenti e di credenti.
Nessun viandante che fosse pervaso da fede cristiana poteva esimersi dal sostare in preghiera ai piedi della Sacra Immagine dipinta su tela, né dall'ungersi dell'olio della lampada che perennemente ardeva al Suo cospetto. Qui il frate si fermò per rendere omaggio alla Vergine. Un profumo d'incenso misto al fumo acre dei lumi stagnava nella penombra in cui era immersa la chiesa. A tratti il canto accorato di una litania interrompeva il silenzio appena scalfito dal sommesso bisbiglìo delle preghiere.
Fuori, la piazza antistante l'ingresso, oggi denominata piazzetta Scala Santa, si presentava ingombra di mendicanti e di chiassosi venditori di ceri. Appena oltre, quieti e vetusti vicoli conducevano oltre la Porta di Sopra o di Castello. Ripreso il cammino, ben presto il frate si lasciò alle spalle il borgo, la grigia e minacciosa sagoma della torre aragonese e la chiesa di Santa Maria di Costantinopoli di poco discosta, per discendere verso il sobborgo dell'Acqua dei Franci.
La strada riprendeva in salita, fiancheggiando per un breve tratto le cave di argilla e le fornaci per la cottura dei laterizi, e già emergeva fra il verde dei vigneti, ombreggiata da querce secolari, la chiesa di San Quirico, unica costruzione superstite dell'esteso complesso che ne aveva costituito la grangia.
Al termine della salita si rifaceva vasto l'orizzonte. Un ultimo sguardo a Paterno e di nuovo la strada, polverosa e sconnessa, si allontanava fra i campi su cui aleggiavano frammenti di anonime voci di contadini al lavoro, subito disperse dal vento.