E’ stato da poco pubblicato il libro dal titolo "Rosso dalla terra - Il Taurasi e l’Irpinia legati da un unico futuro". Si tratta della seconda fatica letteraria, dopo aver già pubblicato nel 2011 "l'Irpinia dell'accoglienza, tra desiderio e realta' ", di Nicola Di Iorio, già Presidente della Comunità Montana Terminio Cervialto dal 2000 al 2009. …... Il libro di Nicola Di Iorio è da leggere e colma una carenza. Infatti mentre il panorama librario è saturo di guide sulle cantine e sui vini, poco o nulla si era fatto sul terreno della ricostruzione storica e soprattutto sul terreno della ricerca di conferire all’Irpinia tratti caratteristici tali da renderla diversa e pertanto unica rispetto ai territori da considerarsi suoi competitor. Insomma è il libro di un appassionato ma anche il libro di un erudito che al settore ha dato molto.
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E’ stato da poco pubblicato il libro dal titolo "Rosso dalla terra- Il Taurasi e l’Irpinia legati da un unico futuro". Si tratta della seconda fatica letteraria, dopo aver già pubblicato nel 2011 "l'Irpinia dell'accoglienza, tra desiderio e realta' ", di Nicola Di Iorio, già presidente della Comunità Montana Terminio Cervialto dal 2000 al 2009. Il primo libro, nato in seguito alla sua esperienza di presidente della Comunità Montana Terminio Cervialto, era centrato su ciò che è stato il core dell’impegno amministrativo e politico rappresentato dalla volontà di creare nella Media e nell’Alta Valle del calore le condizioni per strutturare un sistema territoriale che consentisse uno sviluppo a rete. Quest’ultimo libro, invece, viaggia su un duplice binario. Da un lato racconta la storia, passata e recente della vitivinicoltura in provincia di Avellino con particolare riferimento alla storia dell’Aglianico e del Taurasi, dall’altro apre un ragionamento in ordine all’identità dell’Irpinia, cui far riferimento per renderla unica rispetto ad altri territori nazionali ed esteri e quindi renderla competitiva sul terreno della commercializzazione della sua immagine.
L’Irpinia è stata una terra quasi interamente coltivata a vite fin dall’antichità e su questo tipo di società contadina che si è sedimentata nel tempo la cultura dell’entroterra campano. Nicola Di Iorio fa trsparire di essere stato sempre consapevole che all’interno di questo magico mondo rurale fatto di pigne, torchi, cantine, tini, paesaggi fatati e personaggi c’è soprattutto la vita delle generazioni che non ci sono più e che hanno contribuito a creare le sacrali liturgie fatte di lune piene e di lune mancanti, ad effettuare ricerche sciamaniche per individuare i giorni dedicati a particolari santi in cui si sarebbe potuto o meno lavorare il vino e a canonizzare riti orientati alla ricerca della gradazione giusta e del miglior momento per imbottigliarlo. Insomma c’è la consapevolezza di essere catapultati in un mondo in bilico tra modernità ed arcaicità.
Amedeo Jannaccone, estensore nel 1934 di una relazione dal titolo “I vini dell’Avellinese” , scritta per dare esecuzione alla legge del Regno d’Italia dedicata alla tutela dei vini tipici del 10/07/1930, fece una dettagliata descrizione dell’intera produzione vinicola irpina con particolare riguardo al Taurasi, al Greco, al Fiano e al Partenio (Pannarano), un vino a bacca rossa di cui negli anni successivi si sono perdute le tracce. La tipicità di tali vini venne riconosciuta successivamente con il Decreto Ministeriale del 15/10/1941 che però non faceva menzione del vino Partenio. Di poi ai tre vini, due a bacca bianca, Greco di Tufo e Fiano di Avellino, e uno a bacca rossa, Taurasi, venne conferito il riconoscimento della Denominazione d’Origine Controllata (Doc) con Decreto del Presidente della Repubblica del 26.03.1970. E’ fuor di dubbio che è stato proprio a partire dagli anni ’70, cioè dall’applicazione della legislazione nazionale in materia di denominazioni di origine che la vitivinicoltura in Irpinia è tornata a riprendere il suo vigore espressivo sul piano soprattutto della qualità. Ci sono voluti poi però oltre venti anni perché l’intero comparto metabolizzasse le difficoltà di applicazione di norme che indirizzavano il settore alla espressione della massima qualità. In effetti il percorso per giungere al riconoscimento del più alto onore enologico è avvenuto per il “Taurasi” solo con il Decreto Ministeriale dell’11.03.1993, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n.72 del 27.03.1993.Tale riconoscimento per il Taurasi giungeva alla fine di un lungo percorso iniziato con il riconoscimento nelle classificazioni del Ministero del 1930 e 1941 di Vino Tipico, massimo onore enologico per l’epoca, mentre per il “Greco di Tufo” ed il “Fiano di Avellino” tale riconoscimento è giunto, per entrambi, con il Decreto Ministeriale del 18.07.2003, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 180 del 05.08.2003. La presenza di ben tre docg e di una doc provinciale, in un territorio tutto sommato ristretto come quello irpino, ha conferito alla provincia di Avellino il record di presenze in Italia di vini apicali, insieme a quelle di Cuneo e Siena. Il sistema vitivinicolo irpino a tutto il 2010, era riconducibile a poco più di 150 aziende imbottigliatrici, a fronte delle 51 del 2002 mentre, sempre nello stesso anno erano circa 6.000 gli ettari coltivati a vite, di cui un terzo ricadenti nelle aree di produzione delle Dop. Infatti le aziende iscritte negli albi dei vigneti erano, sempre nello stesso periodo, circa 3.200 per una superficie di circa 2.900 ettari. Nel 2014 le aziende imbottigliatrici sono tutto sommato le stesse con un leggero incremento tale da ascendere a 153 che hanno mostrato una capacità produttiva complessiva di vino, tra certificato e non, che dal 2009 al 2014 si è ridotta di oltre il 56,25%. Su un totale complessivo di circa 180mila ettolitri di vino prodotto in Irpinia nel 2014, la produzione di vino certificato per lo stesso anno, è stata di 71.114,20 hl. Insomma i dati, seppur sintetici in questa sede, restituiscono la sensazione che il gran numero di cantine sorte soprattutto dopo il duemila, grazie a coloro che intendevano diversificare le proprie attività principali andandosi ad affiancare alla categoria dei vecchi “conferitori” di uve trasformatisi in produttori, abbia fatto da cortina fumogena a qualche problema oggettivo di magazzino. La peculiare struttura imprenditoriale delle cantine, molte volte sottodimensionate e sottocapitalizzate, illuse da sporadici successi individuali, mediatici e commerciali, hanno probabilmente portato, a volte, a sovrastimare l’intero comparto che molte volte ha costruito, a sua volta, un’offerta prescindendo dalla domanda del mercato, come se il mercato stesse lì ad aspettare solo il Taurasi o l’Aglianico. Il dibattito rispetto all’alternativa tra produzioni a base di vitigni autoctoni o a base di vitigni internazionali, l’utilizzo della barrique, di tecniche di fermentazione moderne ed “enologicamente impegnative” è tutt’ora in corso. La scelta operata nel tempo dalla enologia italiana di puntare sull’enorme patrimonio ampelografico presente sul territorio nazionale e di conseguenza sui vini che da esso derivano ha determinato sicuramente un panorama complessivo di grande qualità ma ne ha anche limitato, attraverso i rigidi disciplinari di produzione, sviluppi quantitativi tali da creare una economia di scala in grado di rendere più flessibili le politiche aziendali sui prezzi finali al consumatore. Proprio questa scelta rende imperativo il percorso della qualità legata al territorio. Pertanto comunicare il territorio per rendere il vino “unico” è una strada obbligata per il comparto vitivinicolo italiano ed irpino, in particolare, almeno nei confronti dei mercati stranieri, sempre più importanti in ragione del crollo verticale dei consumi domestici. In tal senso, l’enorme varietà di vitigni e paesaggi del territorio italiano orienta e semplifica questa strada di sviluppo venendo il terroir a rappresentare per le imprese vitivinicole italiane una formidabile leva competitiva in risposta alla globalizzazione. La tipicità, infatti, è indissolubilmente legata al contesto pedoclimatico d’origine, congiuntamente alla dimensione storico-culturale del territorio. In tale prospettiva, il vino viene a essere espressione e interpretazione di un determinato luogo, caratterizzato da una precisa personalità. Da questo punto di vista, prevale la componente umana, vero motore della creazione di un prodotto distintivo, rispetto al sistema territorio. Sono i produttori di vino che, come poeti o musicisti, reinterpretano il passato e contribuiscono ad arricchire, a loro volta, la storia di un luogo. E’ noto che la zona mediana del fiume Calore è un luogo di elezione, fin dall’antichità, della vite e oggi è la zona epicentrale dell’Aglianico, nella sua declinazione e versione irpina. A testimoniare la nobiltà e l’antichità della presenza della vite e quindi della sua produzione di vino nell’area vasta intorno l’odierna Taurasi ci sono molti documenti che arrivano praticamente all’anno mille. L’esistenza della vite nella quasi totalità dell’Irpinia è infatti testimoniata da una notevole quantità di fonti da cui fa emerge un territorio vitato anche in luoghi in cui oggi facciamo fatica a credere che un tempo la vite la facesse da padrona. La classificazione dei vini irpini redatta nel rispetto della normativa del 1930, riportata come detto da Amedeo Jannaccone nella sua relazione sui vini dell’avellinese, individuava il “Taurasi” quale vino tipico, massima gerarchia enologica del tempo. Amedeo Jannaccone, nel precisare che l’agro taurasino era “la zona più riccamente vitata della Provincia, dove la vite maritata all’olmo costituisce la caratteristica starseta”, precisava anche che il suo areale faceva riferimento ai paesi di Taurasi, Gesualdo, Paternopoli, Fontanarosa, S.Angelo all’Esca, Mirabella e Lapio,in pratica quasi l’intera sponda destra del Calore, salvo Lapio naturalmente. In sostanza una distinzione tra la riva destra e quella sinistra del fiume Calore che è presente ancora oggi nella storia dell’areale del Taurasi. Queste riflessioni, unite anche a recenti posizioni del mondo scientifico ed imprenditoriale del mondo vitivinicolo, potrebbero condurre, prima a poi, anche a modifiche di sostanza del disciplinare di produzione del Taurasi docg, sulla base di una diversità pedoclimatica oggettivamente presente all’interno dello stesso areale, con altezze che partono dai trecento metri per arrivare a quote da primato intorno ai settecento e con il fiume Calore che fa da vero spartiacque tra la sua sponda destra e quella sinistra.
L’attenzione riservata all’Aglianico in questi anni è stata crescente. Il trend è stato in qualche modo alimentato anche grazie a manifestazioni ed eventi organizzati proprio in Irpinia nel tentativo di accendere i riflettori sul mondo del vino irpino. Basti pensare soprattutto alla manifestazione che si teneva a metà degli anni duemila nel centro congressi di Atripalda denominata “Terra mia” e a quella che si è tenuta nello stesso periodo a Taurasi, prima in ambienti di fortuna e poi nel ristrutturato Castello appartenuto a Carlo Gesualdo da Venosa, denominata “Anteprima del Taurasi”. Certo non sono state le uniche, ma queste manifestazioni erano praticamente le sole che ragionavano, finalmente, sulla qualità del prodotto da coniugare con il tessuto territoriale circostante. La stampa nazionale ed internazionale di settore, anche a seguito delle numerose iniziative nel settore della Comunità Montana Terminio Cervialto, è stata attratta inevitabilmente dagli eventi ed ha cominciato ad inondare di pubblicazioni le testate giornalistiche nazionali ed estere. Oggi, salvo rare e lodevoli eccezioni, regna una grande confusione nel settore della organizzazione di eventi in grado di far emergere realmente la qualità esistente in Irpinia.
Se il vino del territorio è buono, ma sul territorio non vi è, a titolo puramente esemplificativo, un efficiente sistema di offerta enoturistica, non potrà che soffrirne la complessiva reputazione del territorio e con esso, in un circuito vizioso, anche la reputazione di un vino che se non riuscisse a raggiunge di suo vette di qualità produttive elevate avrebbe difficoltà ad essere consumato in grandi quantità. Il rapporto prodotto-territorio non è un plus statico, ma dinamico che se non viene ben gestito e valorizzato rischia di disperdersi. Quindi ragionare di sviluppo e crescita di un luogo partendo dalla sua risorsa principale, il territorio, significa considerarlo come il valore vero da integrare con il mondo delle produzioni di qualità per renderli, a loro volta, più competitivi. E’ ovvio che il territorio, assurgendo al rango di valore, va difeso e tutelato combattendo l’abusivismo e ogni realizzazione infrastrutturale che incida con violenza sull’ambiente e sul paesaggio come la dannazione delle estrazioni petrolifere.
Un notissimo storico francese della vite e del vino, Roger Dion, scriveva in uno dei suoi libri più conosciuti “Le paysage et la vigne”, che la qualità del vino è aiutata dal desiderio di bere bene e dall’eccellenza del territorio. Ricordava, inoltre, che i grandi vini francesi sono nati quasi tutti vicino ad una città, ad un castello, ad una via di comunicazione, fluviale o stradale. In sostanza, Roger Dion spiegava che il “sistema territorio”, interagendo con un grande e maturo sistema agroalimentare, è in grado di creare le condizioni per uno sviluppo locale stabile e duraturo. Pertanto non può che essere ribadito il concetto che la chiave di un tale sistema risiede soprattutto in un accorto e razionale utilizzo della risorsa primaria, il territorio. Le opportunità offerte dall’enoturismo, dal turismo rurale, dal turismo gastronomico, se unite al variegato mondo della filiera vitivinicola e a quella delle altre filiere agricole e culturali, sono potenzialmente capaci di per sé di far compiere al territorio il salto di qualità necessario per passare da una mera attività di marketing del vino, per parlare solo della filiera che qui maggiormente interessa, al marketing del territorio.
In un territorio dove la produzione di qualità vive una felice stagione in continua crescita, le aggressioni della civiltà economica della globalizzazione vanno assolutamente arginate ed impedite.
La reputazione di un territorio è materia delicata e complessa e sicuramente riverbera i propri effetti su ogni aspetto della vita di un luogo. Per comprendere la particolare delicatezza del rapporto tra comunicazione/informazione e territorio è sufficiente far affiorare alla memoria la copertina di uno dei più diffusi rotocalchi tedeschi Der Spiegel che negli anni ‘90, dopo l’ennesima vittima per la strade della Campania, mise in copertina una pistola fumante vicino ad un succulento piatto di spaghetti o a come è stato trattato dal mondo dei media il fenomeno della “terra dei fuochi”.
Ma se l’identità vera dell’Irpinia si situa nel binomio inscindibile di vino e territorio allora, non può non concludersi che l’uno è destinato a sorreggere l’altro.
La definizione e la realizzazione di un sistema territorio con i suoi snodi, le sue ragnatele e le sue tracce sono un punto fondamentale e una barriera insostituibile per resistere in sede locale alle intemperie del mondo della globalizzazione.
L’Irpinia è la terra dei paese-presepio, ma è anche la terra dei castelli e delle fortificazioni, un tempo aventi funzioni di difesa e di amministrazione. Questa in sintesi è la terra dei borghi, abbarbicati e legati a filo doppio a una collina e da li, guardando lo scorrere di un fiume, speranzoso di rispettare il proprio “minimo deflusso vitale”, hanno garantito, per secoli, la vita e la sopravvivenza di una antica civiltà contadina fatta di gente dura e arcigna ma votata al sacrificio. E allora alla pressante domanda riguardante “chi è l’Irpinia” posso finalmente azzardare una prima risposta affermando che, innanzitutto, l’Irpinia è un borgo, un grande borgo diffuso e spalmato tra valli, colline e monti in un luogo baricentrico del Mezzogiorno d’Italia.
E del borgo, l’Irpinia tutta, ne ha i tratti e le caratteristiche fisiche e psicologiche a cominciare proprio dall'esaltazione della propria resilienza. Questa particolare tipologia di aggregazione delle comunità e di modello urbanistico affonda le radici nella storia più antica di questa terra, fino a risalire al popolo per eccellenza che abitava queste contrade, i Sanniti. Il sistema paganico-vicano (le odierne frazioni e casali) offriva al mondo dei Sanniti la possibilità di un capillare controllo del territorio garantendo, in questo modo, un alto livello di sicurezza dei suoi abitanti. Questo antico modello organizzativo a ben guardare ha ispirato nei secoli successivi il sistema organizzativo dei piccoli centri irpini. Insomma l’Irpinia, in questa chiave, può essere vista come un grande borgo reticolare, ove ogni punto del reticolo è rappresentato dalle singole comunità che assolvono il compito fondamentale di sopravvivenza e di crescita valido per sé e per gli altri.
Ma addirittura prima del “borgo” e prima ancora della stessa presenza dei Sanniti, conoscitori a loro volta della coltivazione della vite, l’ Irpinia era già una terra in cui la vite aveva trovato un suo habitat.
Infatti, la presenza della vite in Campania ed in Irpinia, addirittura in epoca primitiva, è un dato ormai acquisito nella moderna archeologia enologica.
Per ciò che qui maggiormente interessa, il territorio irpino, le abitudini, i comportamenti, le tradizioni e la vita quotidiana, in estrema sintesi, sono l’inevitabile lascito della presenza delle innumerevoli culture che si sono succedute nel tempo - Greci, Sanniti, Romani, Goti, Bizantini, Longobardi, Normanni, Angioini, Aragonesi, Spagnoli, Francesi e ancora Stato Pontificio, Regno delle Due Sicilie, Stato sabaudo – ma è anche il lascito di una forte tradizione viticola che ha sedimentato nel tempo modi di vivere ed economie legate alla vite che risalgono fino alla prima viticoltura consapevole dei Sanniti che grazie alla viticoltura praticata nelle fertili valli del Volturno, del Calore, dell’Isclero e dell’Ofanto, ha contribuito ad identificare e segnare la sua impronta ambientale e culturale anche per le generazioni a venire. La vite, anche per la sua capacità di evocare la presenza continua e costante dell’uomo sul territorio, è per l’Irpinia il segno e la traccia che consente di leggerne ed interpretare la sua identità culturale e sociale. Il mondo rurale irpino, nelle sue complesse articolazioni, è sopravvissuto anche grazie alla economia della vite e alle sue liturgie agresti.
E’ stato merito di questo tipo di società silvo-pastorale se i suoi valori ed i suoi geni hanno saputo scavalcare il tempo per giungere quasi intatti ai giorni nostri al suono di una tarantella montemaranese, vera colonna sonora di una Irpinia che grazie ad una operazione di sincretismo culturale aveva conservato nel mondo rurale ed agricolo dei piccoli borghi, musiche, riti sciamanici, costumi religiosi in cui il sacro si è mischiato spesso con il profano conservando la propria indole canzonatoria e ribelle.
Quindi ora la risposta alla domanda circa il chi è l’Irpinia? potrebbe e dovrebbe risultare più chiara.
La vite e il borgo, qui preferito per rimandare al concetto di comunità e di civiltà contadina, sono la chiave, certo forse non l’unica, per comprendere l’identità attuale dell’Irpinia.
Tra la metà dell’ottocento ed il primo decennio del novecento le campagne dell’Italia meridionale sono coinvolte in profondi ed importanti processi di cambiamento colturale con un incremento dei vigneti e della produzione vinicola.
Tale crescita si spiega, non certo per un aumento della domanda interna, ma soprattutto per corrispondere all’esigenza urgente della Francia, alla quale l’Italia si era legata con un trattato commerciale fin dal 1863, di importare notevoli quantità di produzione vinicola a causa del diffondersi della fillossera. Ma l’utilizzo e lo sfruttamento dei terreni per coltivare una vite capace solo di rispondere alle esigenze dei grandi interessi francesi e del nord Italia ed incapace, invece, di difendersi dalla fillossera, ha creato le premesse per la successiva crisi produttiva quantitativa e qualitativa del sud.
Mentre il nord, una volta convertiti i propri vigneti, usciva dal flagello fillosserico e si presentava in forze sui mercati internazionali, il sud al contrario entrava mani e piedi nella crisi della fillossera, annientando non solo i vigneti ma anche e soprattutto le speranze per diverse generazioni a venire di una moderna agricoltura. La crescita dei vigneti e della produzione vinicola, per le ragioni su esposte, divenne esponenziale nel Mezzogiorno d’Italia, tant’è che, tra il 1890 ed 1894, le estensioni dei vigneti aumentarono del 60% a fronte di una riduzione di quelli del nord del 7%.
Alla vigilia dell’Unità d’Italia nel 1861, il quadro generale del Principato Ultra era quello che caratterizzava una provincia alla ricerca di una strada di sviluppo, tra parziale modernizzazione e retaggi persistenti di vita rurale ancora di stampo semifeudale. L’alba dell’Unità produce in Irpinia un costante ma progressivo inaridimento del proprio reddito legato alla rete manifatturiera e commerciale, accentuando, in questo modo, il proprio carattere prevalentemente agricolo, già presente nel periodo borbonico.
Il periodo borbonico, almeno nell’area ricadente intorno all’odierno comune di Taurasi, si caratterizzava per una discreta produzione di vino che rappresentava “la forma di reddito massimale del paese”, come si evince dal contenuto del “Processo Verbale per la divisione del territorio del Comune di Taurasi” ad opera del controllore dei catasti del 09/03/1816.
Ad avvalorare questa tesi sovviene un documento di un certo interesse del 10/12/1827, a firma del dottor Luigi Uberti, incaricato dalla Società Economia di relazionare sulle condizioni dell’agricoltura in Taurasi, dal quale emerge che “… resterebbe a parlare del vino, unico e prezioso frutto…” successivamente, in una relazione successiva del 1832 lo stesso dott. Uberti afferma di trovare pregevole la qualità del vino prodotto.
Ma a confermare l’importanza e la presenza abbondante di viti nella Provincia del Principato Ulteriore intervengono a sostegno nel 1834 anche le “Memorie economico-politiche sul Principato Ulteriore” a firma dell’avvocato Niccola Montuori il quale fece una descrizione generale della provincia definendola come un territorio caratterizzato prevalentemente da “apriche collinette piantate a vigneti dan vino vario e delicato” e da vigneti che “ornan gli aprici e poco elevati colli e fin le basse convalli”
In effetti, fino allo spirare degli anni ’70 del XIX secolo, l’agricoltura irpina conobbe un periodo espansivo trainato dai favorevoli andamenti dei mercati legati al vino, alle nocciole e alle castagne in una provincia dalla superficie di 3037 chilometri quadrati e, secondo il censimento ufficiale del 1881, con una popolazione di 397.773 abitanti mentre per il 31 dicembre 1891 la popolazione è di 415.810 abitanti.
“Guardando i fertili poggi e le colline dai dolci e verdeggianti pendii …, guardando i ridenti vigneti, di cui codesti colli sono rallegrati, studiando la giacitura, l’altitudine, l’indole del terreno ed il clima, ci sentiamo spinti ad affermare :qui Bacco può avere il suo regno!”. Cosi si esprimeva Raffaele Malagara, segretario della Deputazione Provinciale nel 1879.
A fronte però di tale bucolica bellezza, lo stesso Malagara osservava come le condizioni della vitivinicoltura, nel principato Ulteriore, non fossero ancora orientate all’elevazione della qualità attesa la completa assenza di vigneti specializzati a fronte di una persistenza di vigne a coltura mista con piante erbacee ed arboree e soprattutto con cereali, tuberi e leguminose. Questa condizione nasceva dalla evidente convinzione degli agricoltori di poter trarre un reddito maggiore. La descrizione che lo stesso Valagara restituisce è quella di una viticoltura estremamente diffusa in provincia, in particolar modo nei comuni di Taurasi, Tufo, Grottolella, Castelfranci, Lapio, Montefredane che sarebbero da considerarsi di “prima importanza per la bontà dei vini che producono” . Dal lato invece della quantità relativa alla produzione delle sole uve, vanno ricordati i comuni di Avellino, Montoro, S.Martino Valle Caudina, Salza Irpina, Mirabella Eclano, Fontanarosa, Altavilla Irpina e Prata, riconoscendo anche la presenza di una vasta base ampelografica.
Infatti, nel 1874 le principali varietà di vitigni presenti nel territorio erano ben cinquantaquattro tra cui, quello maggiormente coltivato, è l’Aglianico di Taurasi che a Calitri, secondo Valagara, viene chiamato Trignarulo. Gli altri vitigni, solo per citarne alcuni, sono l’Aglianico mascolino e femminile (aglianichello) rispettivamente ad Altavilla Irpino e ad Avellino, l’Aglianicone a Santo Stefano del Sole, il Mangiaguerra a Bagnoli Irpino e San Martino Valle Caudina, la Sanginosa ad Avellino, Salza Irpina e Santo Stefano del Sole, il Piede di Palumbo a Montella, Salza Irpina, Avellino, Mercogliano, Solofra, Prata e Santo Stefano del Sole, la Palummina a Serino, l’Olivella di Palma ad Avellino, Lauro e Nusco, la Coda di Volpe nera a Castelfranci, Mercogliano e Solofra e ancora il ruoppolo, il montuonico, il greco, il fiano, il moscatello, il pizzutello. A fronte di questa enorme varietà vegetale, secondo i dati ufficiali del Ministero dell’Agricoltura, la coltivazione della vite, promiscua e specializzata, ammonterebbe a 19.707 ettari, cioè il 5,40 per cento con una produzione totale di vino di 335.019 ettolitri. Ma secondo stime più realistiche, la superficie vitata dovrebbe essere di almeno 30mila ettari con una produzione di vino di non meno di 600mila ettolitri. Ma anche a voler considerare unicamente le statistiche del ministero, già nel 1874 il territorio provinciale era da considerare uno dei centri enologici più importanti del Regno d’Italia. Infatti mentre nel Regno la superficie vitata ammontava a 1.870.109 ettari con una produzione di vino di 27.136.534 di ettolitri con un rapporto medio quindi di 14,51 ettolitri per ettaro, in provincia tale rapporto è di 17 ettolitri per ettaro. Il grande sviluppo dell’economia vinicola irpina, sostenuta anche dalla nascita di un moderno sistema di collegamento ferroviario rappresentato dalla ferrovia Avellino-Rocchetta S.A. alla quale il Taurasi deve il nomen grazie al ruolo epicentrale ( tre binari di cui uno dedicato al carico e allo scarico delle merci) ricoperto dalla stazione denominata Taurasi, si è avuto con l’avvio delle grandi esportazione dei vini irpini verso la Francia, come già ricordato, tanto da far diventare le uve ed il vino irpino molto ricercate determinando, di conseguenza, prezzi medi di sicuro interesse. E’ ovvio che la capacità del settore di generare una ricchezza mai conosciuta prima fece della vite la principale fonte di ricchezza e di reddito della provincia ma, nel contempo, la stessa cosa non si poteva dire in ordine ad un corrispondente progresso dell’industria enologica che, pur avendo fatto notevoli passi in avanti, non ha raggiunto i livelli necessari per supportare la lavorazione della materia prima. Alla fine degli anni venti il quadro dell’agricoltura provinciale era riassumibile mediante cifre di tutto rispetto. Su una superficie agraria di oltre 302mila ettari la superficie vitata era di oltre 54mila ettari, di cui 5mila ettari specializzata con una produzione media, tra il 1922 ed il 1928, di 1milione di quintali di uve, capace di generare una produzione di vino di 700mila quintali.
Il sistema vitivinicolo era talmente importante da far sostenere ad Amedeo Jannaccone che “… l’industria vinicola rappresenta in Irpinia una attività agraria grandissima, cui corrispondono altrettanto considerevoli capitali circolanti che concorrono ogni anno ad arrecare benessere a tante famiglie rurali. La floridezza economica di numerosi paesi della provincia di Avellino è dovuta soprattutto alla produzione e al commercio vinicolo, floridezza che porta innegabili progressi in tutte le branche dell’attività agraria e nella vita stessa delle popolazioni rurali” . In effetti nel 1928 la provincia di Avellino raggiunge il suo apice produttivo tanto da diventare uno dei distretti enologici più importanti in Italia.
Ma il libro scorre in maniera accattivante ed affascinante al tempo stesso, anche su un altro versante che qui sintetizzo utilizzando a piene mani alcuni brani. “…Capita spesso di parlare di un luogo, della sua bellezza, delle sue problematicità e delle sue risorse facendo ricorso a concetti come identità e territorio. Quante volte, parlando di Irpinia e delle sue produzioni enologiche, ci siamo imbattuti, per varie ragioni, in tali temi sfociando anche in torrenti concettuali ed intellettuali più insidiosi e pericolosi, quale ad esempio quello della tipicità e dell’unicità. Per quanto riguarda l’Irpinia, ho voluto dare un contribuito nel chiarire come il connubio, soprattutto nel settore vitivinicolo, tra prodotto e territorio sia inscindibile e fondamentale, più forte che in altri settori, sia a cagione di una storia che spesso ha calpestato questi luoghi sia a causa di scelte e decisioni di politiche di sviluppo molto spesso miopi e prive di orizzonti strategici. Il binomio vino e territorio, inteso come compresenza di una vasta gamma di fattori quale il clima, i terreni, l'aspetto paesaggistico, le tecniche di vinificazione, le tradizioni culturali e storiche, rafforzate dalla presenza di un quadro normativo che ne riconosce e protegge tali caratteristiche a livello europeo, sono quindi il cardine su cui far ruotare speranze, prospettive e politiche. Se uno dei due cardini entrasse in crisi inevitabilmente anche l’altro sarebbe destinato a risentirne.Di conseguenza il sistema territorio è divenuto, nell’epoca della competizione globalizzata, un fattore identificativo e distintivo delle produzioni vinicole di ogni Paese e soprattutto di quelle terre, come l’Irpinia, che sono un pezzo importante della cultura del vino italiano. Lo stesso vino, progressivamente arricchito di riferimenti storici e culturali dei diversi luoghi, in aggiunta alle specifiche ed univoche caratteristiche del terreno, del clima, delle uve, di questo se ne avvantaggia. In questo senso il terroir diventa una leva competitiva e potenzialmente un brand di un peculiare sistema di offerta in grado anche di sostenere una competizione commerciale con mondi dalla cultura vitivinicola decontestualizzata che vedono il prodotto vino unicamente come un prodotto industriale. Il binomio vino e sistema territorio è in grado a questo punto di condurre alla individuazione di un altro importante fattore che è rappresentato dalla tipicità. E’ chiaro che un prodotto è tanto più identificabile nella sua tipicità, fino all’unicità, quanto più esso sia radicato nell’evocazione del territorio in cui è allocato e, contemporaneamente, quanto più un’area venisse identificata per le sue individue caratteristiche tanto più richiamerebbe la tipicità dei suoi prodotti. In Italia, considerata la grande valenza delle peculiarità territoriali e delle produzioni autoctone, diviene fondamentale per le imprese patrimonializzare, anche nel senso dell’accumulazione nel tempo, quegli elementi che caratterizzano il legame con il territorio di origine, al fine di renderli coerenti, credibili, ma soprattutto distintivi agli occhi di un consumatore attento e raffinato. Un vecchio studio di Unioncamere di qualche anno indicava l’Irpinia come una terra in cerca di vocazione, come se essa non fosse in grado di individuare un proprio porto di approdo o di assegnare a se stessa un compito preciso da svolgere. Non è da dubitare che aver trasformato intere generazioni di contadini ed artigiani in operai metalmeccanici è stata un’operazione che, se a prima vista sembrava giusta, alla lunga ha determinato la creazione di un ibrido, un vero ermafrodita sociale. E’ ovvio che è risultato più semplice limitarsi a pompare nel territorio risorse ingenti, prima con la legislazione del post sisma ’80 e poi con gli interventi di finanza europea mediante i Programmi Operativi Regionali nel tentativo di imporre al territorio scelte calate dall’alto invece di impegnare tali risorse sulla versante del miglioramento e dell’ammodernamento del l’apparato produttivo tradizionale innervando i giusti collegamenti anche con il mondo della cultura e del turismo. L’occasione di guidare una crescita, forse meno lucrativa sul piano del consenso politico immediato, più lenta ma più costante e stabile che affondasse le proprie radici nella matrice contadina degli irpini, è stata probabilmente irrimediabilmente perduta, generando un ibrido sociale. Pertanto, quando questa terra oggi azzarda una sua presentazione anche di natura prettamente commerciale, non sapendo riconoscersi, non riesce a dare una presentazione reale della sua vera identità, limitandosi a dare risposte generiche e prive di contenuto sul chi essa effettivamente e realmente sia. L’Irpinia spesso non riesce ad evidenziare le proprie vere qualità e le proprie vere caratteristiche, disperdendo se stessa purtroppo in un indistinto magma culturale. In questi ultimi decenni è stato spesso ripetuto il motivetto che lo sviluppo del Mezzogiorno è condizione essenziale per il miglioramento delle condizioni complessive della Nazione. Ma, seppur condivisibile, questa affermazione non sempre riesce ad essere metabolizzata e a generare uno scatto di interesse e di motivazione nell’opinione pubblica, né di coerenza e di impegno delle classi dirigenti. Infatti senza un legame con la storia e la reale vocazione del territorio da ricercare nella vita dei borghi irpini, con il loro carico di storia, tradizioni e capacità di relazioni, nonchè nella presenza dell’uomo, nella sua veste di custode e coltivatore passionale, costante, premuroso ed attento del territorio e della vite innanzitutto, ogni tentativo di crescita rischia di essere posizionato solo sul crinale del desiderio e delle aspirazioni …”.
Gli strumenti a disposizione soprattutto della filiera vitivinicola, di cui mi sono occupato nel libro, sono stati tutti appostati, via via nel tempo (Scuola Enologica, Università, Centri di Ricerca,Consorzio Vitivinicolo, Aziende multifunzionali ed Enoteca Regionale), ora però, per tracciare un futuro di adeguata crescita è venuto il momento di prendere coscienza di ciò che questa terra è in realtà, evitando spiegazioni interessate ed inquinanti. Insomma il campo di gioco è pronto, le linee sono state disegnate, lo stadio è stato ristrutturato, ora tocca ai giocatori scendere in campo e costruire nuove storie, forti della consapevolezza di giocare la partita per l’Irpinia tutta e non solo per le singole individualità. Perciò in Irpinia, la vite ed i borghi, il territorio e le sue sudate viti, da cui sgorgano copiosi grandi e salutari vini, saranno uniti per sempre da un identico destino o, ancora meglio, da un unico futuro. E’ proprio nei borghi e nella presenza dell’uomo, nella sua veste di custode e coltivatore passionale, costante, premuroso ed attento del territorio e della vite, che si situa l’ espressione simbolica più alta di una voglia di farcela nella “Terra di Mezzo”, partendo dall’ammonimento di Carlo Petrini che, in occasione della sua presenza in Irpinia nel 2004, sosteneva che “E’ impossibile parlare di prodotti tipici, valorizzarli, farne una bandiera di promozione turistica, combattere la globalizzazione senza proteggere e tutelare l’agricoltura e chi lavora la terra”. In sintesi il mio ultimo libro è il racconto di un’Irpinia poggiata sui propri antichi pilastri culturali, rappresentati da una grande civiltà contadina e da un tessuto sociale e psicologico che essa stessa ha saputo creare nel tempo. Il racconto di un nuovo Sud, declinato in salsa irpina, continuerà a spalmarsi sulle generazioni a venire a condizione che questa terra sappia riconoscersi e tutelare se stessa rispettando le radici culturali fondative della propria esistenza. Solo in questo modo i piccoli centri irpini, le sue comunità rurali e la sua economia, capace di rispettare tradizione, qualità e innovazione al tempo stesso, troveranno nuova cittadinanza, nuovo diritto di presenza in questo spicchio di Sud per tracciare un futuro fatto di crescita e sviluppo. Un futuro che potrebbe portare l’Irpinia ed il suo Taurasi ad essere tenuti insieme, oltre che dalle loro caratteristiche fisiche anche, e forse soprattutto, dalla loro bellezza, caratteristica principale delle cose che si presentano, seguendo il pensiero filosofico di Massimo Donà,“come specchio della più perfetta incondizionatezza e libertà e valevoli in quanto tale, come vere e proprie cose in sé. Ossia come cose che si offrono nella forma della pura santità”. Altrimenti, l’antica vita dei borghi e l’economia rurale che essa è in grado di generare avranno un destino segnato, spazzati via per sempre dal vento impetuoso della globalizzazione massificante in un unicum indistinto e chiudendo per sempre le pagine del suo racconto. E’ chiaro, quindi, che la vite ed i borghi in Irpinia si salveranno o periranno insieme, all’unisono. Insomma il libro di Nicola Di Iorio è da leggere e colma una carenza. Infatti mentre il panorama librario è saturo di guide sulle cantine e sui vini, poco o nulla si era fatto sul terreno della ricostruzione storica e soprattutto sul terreno della ricerca di conferire all’Irpinia tratti caratteristici tali da renderla diversa e pertanto unica rispetto ai territori da considerarsi suoi competitor. Insomma è il libro di un appassionato ma anche il libro di un erudito che al settore ha dato molto.
Mario Sandoli