di Antonino Salerno
Questa Provincia estesa per un milione, e trecentomila moggi ne presenta soli centomila di pianure imperfette. Il dippiù sono balze, e perenni slamature sulle quali con incredibile stento, e rischi si versano i sudori de' nostri campagmuoli .
In questi termini, nella prima metà del XIX secolo, veniva definito l'assetto territoriale di quello che fu il Principato Ulteriore.
La Provincia, comprendente 153 comuni, era suddivisa nei distretti di Avellino, Ariano e Sant'Angelo dei Lombardi. Su di una popolazione complessiva di 380.684 abitanti, le persone adulte ammontavano a 275.061 unità. Di queste, solo 78.924 costituivano la categoria dei possidenti: latifondisti e piccoli proprietari terrieri. I contadini, mezzadri e fittavoli, assommavano a 106.496. Erano 24.572 gli artigiani o addetti all'industria, 1.801 i preti, 499 i frati e 363 le suore. I poveri, cioè quelli privi di risorse, erano censiti in numero di 14.089, di cui 5.121 nel distretto di Sant'Angelo dei Lombardi. Inclusi nel novero di questi erano anche i trovatelli. In provincia se ne contavano, abbandonati in maniera anonima alla nascita mediante deposizione nella ruota ed allevati da nutrici fino all'età dei sei anni a spese dei rispettivi comuni, 996, di cui soltanto 110 nel Distretto di Sant'Angelo dei Lombardi, che si distingueva per la morigeratezza dei costumi . I restanti individui, in minor misura addetti al commercio, comprendevano pastori, guardiani, garzoni, giornalieri, manovalanza atipica, anziani inabili al lavoro a carico di familiari.
Nel 1830 era salito al trono delle Due Sicilie Ferdinando II di Borbone che, nell'intento di migliorare le condizioni di vita dei propri sudditi, da subito aveva introdotto riforme di carattere tecnico-amministrativo. Né era insensibile alla modernizzazione del Regno: inaugurato nel 1839, aveva fatto costruire il primo tronco ferroviario in Italia, che collegava Napoli a Portici.
Di gusti semplici, questo monarca non disdegnava la pastasciutta e il baccalà. Si esprimeva nel linguaggio del volgo, del quale condivideva le superstizioni, e, faceto, essendo il suo regno per tre lati bagnato dal mare e, per il quarto, confinante con lo Stato Pontificio, era solito affermare: "Nuje stammo sicuri: confinammo cu' l'acqua santa e cu' l'acqua salata."
Sensibile alle difficoltà in cui versava il popolo minuto, ne ascoltava le suppliche in pubbliche udienze e si prodigava per trovare adeguate soluzioni ai problemi a lui sottoposti.
Viceversa, aveva avversione per gli avvocati e il loro linguaggio forbito. A Pisanelli e Mancini, esponenti di un circolo politico, a cui aveva concesso udienza, chiese: "Né, paglié , vuie che bbulite?", al che Pisanelli aveva risposto: "Maestà, noi vogliamo il progresso." Ed il Re, di rimando: "Embé, pure io 'o voglio, ma ci dobbiamo spiegare: voi che intendete per progresso?" Pisanelli, a sua volta: "Sire, il progresso è un gladio che incalza popoli e re ..." A questo punto, Ferdinando II lo aveva interrotto con una smorfia delle labbra, tipica dei napoletani, commentando: "Stu progresso fete 'nu poco 'e curtiello" .
Era innegabile che il governo tendesse ad alleviare lo stato di estrema povertà in cui versavano gli strati sociali più deboli, ma, nonostante gli sforzi compiuti, permanevano ovunque fasce di profonda arretratezza. Si era adottato, nel 1810, un importante provvedimento a sostegno dell'agricoltura. Erano stati individuati, nel Principato Ultra, fertili ma incolti terreni demaniali pari a 44.018 moggi, corrispondenti a circa 14.525 ettari, che, suddivisi in 16.149 quote, erano stati assegnati ad altrettanti non possidenti, con l'obbligo di metterli a colture cerealicole, impiantadovi altresì almeno dieci alberi da frutto per ogni moggio di terreno .
Ciò mirava a conferire, se non prosperità, almeno autosufficienza alle famiglie appartenenti alle classi più disagiate e, nel contempo, all'incremento della produzione agricola e alla salvaguardia della stabilità del suolo, fino ad allora soggetto ad erosioni e smottamenti dovuti al depauperamento abusivo della vegetazione d'alto fusto ed al conseguente defluire incontrollato delle acque piovane.
Purtroppo, dal 1810 in avanti molti predi (poderi) si riunirono nelle mani di pochi; moltissimi però furon suddivisi per successioni . Infatti, negli anni immediatamente successivi, sia per il deprezzamento dei cereali, sia per l'incapacità di una gestione accorta dei fondi nel rispetto delle rotazioni triennali, sia per i lunghi tempi di attesa perché gli alberi piantati giungessero a maturità per la fruttificazione, molti degli assegnatari di quote, non trovando remunerativa la produttività degli appezzamenti loro concessi, contravvenendo allo spirito della legge, li avevano venduti, a prezzi spesso irrisori, a facoltosi proprietari terrieri.
Altro ostacolo allo sviluppo agrario era imputabile alle limitazioni temporali imposte ai locatari di terreni ecclesiastici o appartenenti ad istituti pii. Le concessioni, di regola, non superavano i sei anni, il che non favoriva la messa a dimora di alberi da frutto o la preservazione della fertilità dei terreni, ed induceva gli affittuari ad uno sfruttamento irrazionale del suolo.
Che le locazioni di tali fondi non eccedessero la durata di sei anni, lo si riscontra negli atti all'epoca stipulati. Ne è un esempio la notifica numero 2753 dell'Intendenza del Principato Ultra, datata 27 giugno 1832: La mattina di jeri furono aperti gl'incanti in questa Intendenza sull'offerta prodotta da D. Angelo Maria Maffucci colla garentia di D. Michele Tozzoli di Calitri, per la rinnovazione dell'affitto della Difesa detta le Mattine, che lo stabilimento della Real Santa Casa degl'Incurabili di Napoli possiede in tenimento di Carbonara (Aquilonia), per l'annuo estaglio di ducati seicento trenta, e per la durata di anni sei .
È evidente come in tal modo si esponesse il fondo ad un dissennato disboscamento.
Inoltre, insidiavano l'efficienza della popolazione rurale le ricorrenti epidemie. Fra il 1816 ed il 1817, quella tifoidea, congiuntamente alla carestia, provocò in provincia circa centomila vittime e 811 (furono) rapiti dalla Cholera del 1837 . Parimenti, l'obbligo del servizio militare sottraeva al duro lavoro dei campi le energie migliori. Che la coscrizione obbligatoria penalizzasse esclusivamente gli appartenenti alle infime classi sociali compresi fra i 18 ed i 25 anni, lo si desume dalla norma che consentiva ai giovani estratti a sorte di esonerarsene, offrendo all'arruolamento un sostituto. Se ne avvalevano i figli dei possidenti che solitamente proponevano in loro vece altri, a volte compensati con denaro, più spesso costretti dalla sottomissione delle rispettive famiglie al proprietario terriero. Disertori e renitenti alla leva, con l'imposizione di una taglia per la loro cattura, erano perseguitati alla stregua di comuni criminali. La circolare numero 4473 del 15 marzo 1823, in esecuzione di ordine sovrano, stabiliva che il premio da corrispondersi per ciascun disertore arrestato, ancorché sieno una o più persone che lo arrestino, venga fissato a ducati sei, per gli agenti di polizia, guardie di sicurezza, impiegati civili e pagani qualunque, e ducati due per la classe de' militari .
Recitavano i bandi di ricerca:
Li trascrivo qui appresso i nomi ed i connotati di quattro individui , i quali hanno abbandonate le bandiere. (Omissis) Virgilio Petito, figlio di Domenico e Carmela Viola – Di anni 25 – Statura 5 – Fronte giusta – Occhi cerulei . Naso giusto – Capelli e ciglia castagne – Mento ovale – Del comune di Cervinara .
Signori, Si compiaceranno procurare l'arresto di Angelo Funiello, del comune di Montefusco, disertato dal Reggimento Re cavalleria, a quale oggetto descrivo i suoi connotati: Figlio di Stefano, ed Angela Mancaniello – Nato a' 12 gennajo 1801 – Stato celibe – Statura p.5 3. L. 6. – Viso ovale – Occhi cervoni – Bocca labbruta – Naso grosso – Capelli e ciglia castagno chiari.
Signori, Giuseppe Freda, del comune di Monteverde, è disertato dal Reggimento R fanteria. Descrivo qui appresso i suoi connotati, perché si compiacciano procurare l'arresto, penetrando nel perimetro delle rispettive loro giurisdizioni. Figlio di Nicola, e Caterina Pagnotta – Nato nel 1800 – Professione guardiano di campagna - Stato celibe – Statura P.5 p.2 – Fronte giusta Occhi castagni - Naso schiacciato – Capelli, e ciglia castagni – Mento tondo – Carnagione bruna – Contrassegno: Tarlato dal vajolo .
Nonostante le difficoltà in cui versava, l'agricoltura faceva registrare sensibili progressi rispetto al secolo appena trascorso, anche grazie all'introduzione di colture più redditizie. Espiantati gli antichi vigneti, si era nel contempo proceduto alla messa a dimora del vitigno ellenico, o aglianico, elevando in tal modo sia la produttività che la qualità dei vini, al punto di esportarne, soddisfatto il fabbisogno interno, grande quantità in Capitanata ed in Campania.
Si diffondeva la coltura del gelso, promossa sin dal 1815 da Giovanni Izzo, finalizzata all'allevamento dei bachi da seta. Lo stesso Izzo, nel 1826, aveva impiantato una filanda in Cautano, nel beneventano, dove confluivano i bozzoli ottenuti nel Principato che, nell'aprile del 1836, furono venduti al prezzo di ben 20 carlini l'oncia .
Prodotti in considerevole misura in Avellino, San Mango, Mercogliano, Montella, Atripalda, Montefalcione, Lapio, Torella, Ariano, Bonito, Mirabella, trovavano sbocco sui mercati del napoletano nocciole, castagne, mele e pere, frutti non deperibili e quindi adatti ad un trasporto lungo e disagevole. Gli ortaggi coltivati in Gesualdo e Paterno, oltre che destinati al consumo interno, erano commercializzati nei paesi limitrofi, soprattutto quelli pedemontani, raggiungibili nottetempo a dorso di mulo.
Restava insufficiente a soddisfare il fabbisogno del Principato la produzione olearia, per cui si aveva necessità di importarne dalle Puglie e dal Principato Citra. Gli oliveti più consistenti erano presenti in Ariano, Flumeri, San Mango e Carife dove, alla molitura nei frantoi, che inevitabilmente comportava lo schiacciamento dei nòccioli, si preferiva il sistema empirico di inserire in sacchi di lana le olive e, sottoposte a getti di acqua bollente, farle schiacciare coi piedi da uomini nerboruti. Se ne ricavava un olio limpido e dal gusto gradevole .
Per effetti della legge del 1826, che aveva interdetto la coltivazione di terreni con pendenza superiore ai 45 gradi affinché fossero adibiti a pascolo, nel decennio successivo crebbe considerevolmente sia il numero delle pecore che quello dei bovini che, in Terra di Lavoro, avevano trovato un mercato ricettivo. Solo nelle cinque fiere che annualmente si tenevano a Gesualdo, nel 1836 si registrarono le vendite di 7.780 capi bovini .
La lotta per la sopravvivenza acuiva l'ingegno. Sulla sommità di molte case di campagna si cominciò ad erigere torrette, in legno o in muratura, munite tutt'intorno di aperture per indurvi a nidificare i colombi, dei cui piccoli i contadini si cibavano, utilizzandone altresì, per la concimazione, il copioso guano rilasciato. Inoltre, nottetempo, ovunque era praticata la caccia agli uccelli di piccola taglia con la visca. Era questa una pedana di vimini intrecciati, cosparsa di vischio macerato e bollito sino ad ottenerne un impasto appiccicoso, a tergo della quale si disponeva un lume acceso. I volatili, disturbati nel riposo notturno dal cacciatore che, con un bastone, scuoteva i cespugli, accorrevano verso la fonte luminosa, restando imprigionati con le zampe nello strato colloso. La cattura dei pesci si avvaleva di calce versata nei fiumi, con notevole danno per la fauna ittica. Meno nociva era la torcitora, vale a dire la deviazione dei corsi d'acqua che lasciava a secco le prede
Né si trascurava di preservare l'integrità dei terreni irrigui a ridosso dei fiumi, piantando pioppi lungo gli argini.
Nonostante i passi compiuti nel miglioramento della produttività agricola, permaneva lo stato di estrema indigenza degli addetti ai lavori campestri, in prevalenza braccianti, fittavoli e mezzadri. Non possedevano, costoro, altro vestito all'infuori di quello da lavoro, né disponevano di calzature, oltre l'unico paio di rozzi scarponi ad uso invernale. Parimenti, le donne avevano piedi scalzi, salvo nella stagione fredda in cui calzavano zoccoli di legno su calze di lana grezza da loro stesse confezionate. Notava l'economista Cassitto: Il nostro popolo si veste con pannine, e tele volgari sì, ma consistenti, filate e tessute dalle loro famiglie .
Di scarso contenuto calorico era l'alimentazione. Il grano prodotto nel Principato Ultra veniva in massima parte esportato nella provincia di Napoli e in Terra di Lavoro, riservando al consumo interno quasi esclusivamente il granone. I campagnuoli ordinariamente si cibano molto di agli, e cipolle con pane di granone ben cotto, o di focacce simili, e con minestre sien verdi, sien di legumi condite di olio, o grasso porcino, sale, agli, e peperoni secchi. Mangiano carne, e bevono vino o nelle feste, o quando lavorano per conto altrui
Non da tutti era allevato il maiale. I polli, castrati per essere ridotti a capponi, costituivano in maggior misura il periodico omaggio dovuto al padrone del podere, mentre i restanti venivano sacrificati alla tavola soltanto in occasione di feste. Si preservavano le galline, lasciate a razzolare nei campi, per poter fruire delle uova che depositavano nei pagliai.
Ai contadini non era concesso riposo. È notabile che i nostri campagnuoli ne' giorni negati al lavoro de' campi raddobbano da loro stessi le scarpe e gli abiti, e radonsi l'un l'altro la barba .
Nonostante la durezza della vita, non mancava al volgo sensibilità d'animo. Apprezzata era la musica. Animavano feste religiose e civili dieci bande musicali, istruite da maestri compositori, e col canto gli agricoltori addolciscono gli stenti della giornata, le madri invitano al sonno i figli bambini, gli innamorati invocano la cortesia delle loro belle. Le donne dedite al lavoro con graziosi concertini a due, o più voci che chiamano a durare rompono gradatamente il silenzio delle campagne .
La passione per la musica induceva alla danza. Ballano le classi inferiori pur sulle pubbliche strade dell'abitato ne' giorni di allegria, e spesso nelle Domeniche nelle case rurali al suono di sampogne, e di tamburini a mano .
Tutte le danze simulavano le fasi del corteggiamento. Nella tarantella, la giovane si negava all'innamorato per cedere alfine in gioiose, sfrenate giravolte; la spallata indulgeva a lievi contatti fisici; il laccio d'amore, in cui si ballava in cerchio, tenendo ciascuno in pugno un laccio pendente da un lungo bastone posto centralmente, prevedeva che, a turno, i ballerini lasciassero la presa per invitare alla danza la donna prescelta che si concedeva, non senza essersi mostrata dapprima ritrosa.
L'arte pittorica era diffusa fra le classi più agiate. Molti giovani ben nati disegnano più che sopportabilmente a pastello, anche d'invenzione. Trà pittori di figure, de' quali ve ne hanno a sufficienza, si distinque, come ebbe luogo tra' primi in Napoli, il Sig. Famiglietti di Paterno, che di origini gentili, agiato, esercita con nobiltà, senza rimunerazione, e sempre con lode quella professione nella sudetta sua patria .
Se l'agricoltura faceva registrare sacche di povertà, le attività industriali apparivano proiettate verso uno sviluppo inarrestabile. Impianti manifatturieri, sorti ovunque in Provincia, erano impegnati nella produzione di stoffe grezze ma resistenti, particolarmente adatte a soddisfare le esigenze di una popolazione prevalentemente addetta all'agricoltura e alla pastorizia.
Si era affermata in Bagnoli Irpino l'industria tessile. Lino, canapa, cotone venivano lavorati a telaio soprattutto a Bonito, Mirabella, Pietradefusi, Santa Paolina e Montefusco. La lana era tessuta a Casalbore, Bisaccia, Montella, Trevico, Flumeri e Castelbaronia, centro, quest'ultimo, ove si praticava anche la lavorazione dell'osso da cui si ottenevano pettini di rinomata fattura.
Oltre al vasellame in argilla, lavorato anche in Ariano, Calitri, Paterno, Montesarchio e Bonito, a Pianodardine si fabbricavano mattonelle decorate per pavimenti.
Migliorava costantemente la qualità dei prodotti delle concerie di Solofra, una cartiera era attiva in Atripalda e ci si dedicava alla lavorazione di paste alimentari in Pratola, Bonito, Grottaminarda, Ariano ed Avellino.
Dal monte Avanella, in Volturara, si estraeva minerale ferroso, da cui si ricavava ferro di ottima qualità negli impianti siderurgici funzionanti in Serino, Montella ed Atripalda. In Sant'Angelo dei Lombardi si fondeva il bronzo per campane, ed armi bianche si producevano in Avellino, Montella, Sturno e Frigento.
Nuovo impulso alla lavorazione della pietra, sia in Gesualdo che a Torre le Nocelle, derivò dall'autorizzazione, concessa con decreto reale nell'agosto del 1837, all'estrazione dell'alabastro cotognino di Gesualdo e del mandelstein di Atripalda, le cui cave erano state chiuse nel 1756 per ordine del governo.
Venne un sostegno all'agricoltura dall'estrazione, previa autorizzazione reale, dalle miniere di Andretta, Torella, Sant'Angelo dei Lombardi e Pagliara, del carbon fossile da impiegare per il funzionamento delle macchine a vapore per la trebbiatura del grano, che cominciavano ad essere importate in provincia.
La dinamicità dei commerci era subordinata alla transitabilità delle strade. Il fitto reticolo di sentieri, viottoli, mulattiere, antichi tracciati da percorrere a piedi, a dorso di mulo o, tuttalpiù, adatti al transito di carri a due ruote, di ridotte dimensioni, non si prestava al trasporto di merci in quantità redditizie. Né garantiva gli spostamenti la precarietà dei ponti. Quello sull'Ufita, che immetteva alla vecchia Melito, crollò nel 1822 per effetto della pressione esercitata da un'ondata di piena. Nei sedici anni di isolamento del paese che ne conseguirono, il melitese Carmine Ferriero, di costituzione robusta, nei periodi di intense piogge in cui ingrossavano le acque, si trasferiva in una capanna da lui eretta presso la sponda del fiume, traghettando sulle spalle i viandanti .
Stante l'impraticabilità delle strade, non si tenevano mercati settimanali nei comuni del distretto di Sant'Angelo dei Lombardi .
Poche e mal tenute erano le strade carrabili che costituivano la rete viaria del Principato. Quella che conduceva a Melfi, lungo la quale si innestavano la traversa per Chiusano, prima, e quella per Montella, poi, toccava Atripalda, San Potito, Volturara, Montemarano e Sant'Angelo dei Lombardi.
Arteria di vitale importanza era costituita dal Cammino Reale di Puglia a cui, al 57° miglio, faceva capo una strada non selciata per Zungoli, percorribile con carri solo in estate e in autunno. Da quello, inoltre, nei pressi del ponte sul fiume Calore, diramava una traversa che raggiungeva Taurasi, paese a cui progettava di collegarsi Mirabella. Poco oltre apriva, per congiungersi alla strada per Melfi, la rotabile per Frigento e Guardia dei Lombardi, dalla quale si dipartivano la carraia in terra battuta che attraversava Fontanarosa per inoltrarsi fino a Sant'Angelo all'Esca e, più avanti, quella selciata per Gesualdo.
Da quest'ultima carrabile, che garantiva la mobilità di persone e merci nel corso di un intero anno, derivava la vocazione commerciale di Gesualdo. Vi si tenevano cinque fiere annuali, in cui risultava facilitato il commercio dei bovini dall'esiguità dei dazi ivi imposti. Vi operavano 15 possessori di carri, attivamente impegnati nell'esportazione in altre parti del Regno dei frumenti acquistati nel Principato, e non meno di venti rigattieri percorrevano la provincia, acquistando stracci da rivendere ai fabbricanti di carta .
Operava in questo contesto, a sostegno delle attività produttive, la Real Società Economica Provinciale che annoverava rappresentanti, tutti di nomina Reale, di quasi ogni comune, fra cui: Euplio Andrea Scola di Trevico, poeta, matematico, filosofo, teologo; Federigo Cassitto di Bonito, economista di fama internazionale; il reverendo Don Giambattista Barbieri di Paterno, poeta, oratore, matematico, filosofo, a cui, deceduto nel 1836, subentrò l'avvocato Carmine Modestino, anch'esso di Paterno, autore di saggi a sfondo politico, eletto alla carica di deputato nel 1848; Nicola Maria Montuori di Avellino; Gabriele Vitale di Ariano; Gaetano de Martinis di Candida; Ciriaco Carbone di Lapio; Pasquale Corona di Teora.
La Società si proponeva, quali proprie finalità: a) di studiare la natura dei terreni e fornire indicazioni circa l'incremento delle colture e le concimazioni; b) di promuovere la concessione di fondi in mezzadria, in mancanza di possibilità di coltivazione diretta; c) di indurre ad arginare con piantagioni di pioppi e salici i corsi d'acqua, onde evitarne l'erosione degli argini e la tracimazione; d) di distribuire, a titolo gratuito, semi di granaglie e di piante da foraggio non autoctoni, selezionati per resa e qualità; e) di favorire la diffusione della pastorizia; f) di migliorare le razze del bestiame mediante incroci; g) di promuovere la costituzione di associazioni fra pastori per la produzione di formaggi in quantità consistenti e di migliore qualità; h) di costituire un fondo di solidarietà per soccorrere gli allevatori in caso di perdita di bestiame; i) di segnalare alle autorità competenti quali strade e ponti costruire per la facilitazione degli scambi commerciali .
L'attività della Società era seguita con attenzione dal Re Ferdinando II che, entro i limiti imposti dal non florido bilancio statale, ne favoriva le iniziative. Procedeva il Principato Ulteriore, a passi seppur lenti, sul cammino del progresso, ma già incombeva l'annessione del Regno delle Due Sicilie al resto d'Italia che, con l'imposizione di esosi balzelli per ripianare le spese di guerra, con l'adozione di metodi repressivi per il soffocamento dello scontento popolare, avrebbe provocato la recrudescenza del fenomeno del brigantaggio ed avrebbe irrorato di sangue le misere terre di queste contrade.