Dopo aver visitato Greci, ai confini estremi dell'Irpinia, abbiamo deciso di fare tappa a Paternopoli. Questo comune, poco distante dal capoluogo (all'incirca 30 km), è sito nel pieno dell'Agro Taurasino, regione ricca di vegetazione e dedita alla coltivazione della vite (Aglianico, per la precisione) essendo pienamente compreso nella zona di Denominazione di Origine Controllata e Garantita (per la produzione del Taurasi D.O.C.G.). Seguendo l'Ofantina Bis, prima di giungere a Patenopoli, si può godere di panorami collinari e montuosi, in inverno innevati piuttosto spesso, in estate carichi di lussureggiante vegetazione, che trasmettono un inteso senso di quiete.
Siamo giunti in paese una mattina piuttosto fredda d'inverno, ma abbiamo deciso, prima di recarci in visita al centro, di godere della natura che accarezza gli argini del fiume Calore: nei pressi dell'ormai abbandonata e malandata stazione ferroviaria, seguendo per un piccolo tratto i binari, ci siamo trovati sul vecchio ponte, costruito per superare la valle del fiume, ed abbiamo potuto ammirare una vecchia chiusa, o un salto, per meglio controllare un fiume un tempo impetuoso. Non lontano da lì, ma in tempi andati vi era anche un antichissimo mulino ad acqua (si presume risalisse all'epoca normanna, appartenuto, almeno stando ad atti notarili, all'Abbazia di Montevergine) che, però, per lavori di ristrutturazione ferroviaria e per la costruzione di una strada catramata fu abbattuto. Ci siamo spostati, seguendo sempre il corso del fiume, verso i confini del territorio paternese, fin dove toccano quelli del comune di Castelvetere sul Calore. Anche qui, nei pressi di un'altra stazione abbandonata alla polvere, ci siamo soffermati ad ascoltare la voce del fiume. L'acqua, fremente, scorreva tra pietre sempre più lisce. Qui, come narrano gli anziani, vi è la "Preta 're la Sementa", altrimenti conosciuta come " 'O Pescone 'ro Riavolo". La pietra, di dimensioni piuttosto considerevoli, si racconta, fu posta li dal Diavolo, l'unico capace di poterla sollevare, o per accadimenti poco piacevoli, in anni assai remoti, li accaduti. Ad oggi, però, con rammarico abbiamo constatato, nonostante la bellezza paesaggistica, come l'incuria e la poca sensibilità all'ambiente abbiamo ridotto a piccola discarica un angolo di natura davvero affascinante.
Abbandonato il Calore, abbiamo deciso di recarci in centro. Lungo la strada che conduce al paese vero e proprio, però, abbiamo fatto sosta a una delle fontane storiche del comune: la "Pescarella", posto, questo, in cui tempo addietro le donne si recavano a lavare i panni (ed ancora oggi, infatti, possiamo ammirare le antiche vasche per il contenimento dell'acqua). Inutile rimarcare come le diverse amministrazioni comunali abbiamo dimenticato, dal 1997, anno del restauro, di prendersi cura di queste fonti di storia. Non distante, attraversato un breve tratto della strada che conduce al quartiere chiamato "(Abbascio a') l'Angelo", abbiamo deviato per raggiungere altre due fontane: " l'Acquara di sopra" e " l'Acquara di sotto". Restaurate anch'esse nel lontano 1997, sono state poi, fino ad oggi, completamente abbandonate, tant'è che verde melma intasa i numerosi rubinetti e ricopre parte delle vasche di raccolta dell'acqua. Presso queste fontane, in tempi anche successivi al secondo conflitto mondiale, quando ancora non vi era in casa di tutti l'acqua corrente, le donne, dalla "Piazza" (il quartiere situato nei pressi della chiesa (e della Scala Santa), raccoglievano l'acqua, lavavano panni e si incontravano per chiacchierare. Oggi, invece, entrambe le fontane sono abbandonate a loro stesse, quasi dimenticate.
Quando abbiamo raggiunto il centro di Paternopoli, passeggiando per le sue strade abbiamo notato come di quello che un tempo doveva essere stato il centro storico, non sia rimasto nulla. Intorno alla chiesa di San Nicola di Bari, un tempo, vi erano antiche case (molte delle quali gravemente danneggiate dal sisma del 1980), di cui ancora resta, restaurata e ben curata, soltanto uno splendido esempio. Del vecchio rione Scala Santa, purtroppo, non resta più nulla. Le diverse amministrazioni comunali succedutesi, piuttosto che valorizzare il patrimonio storico, hanno preferito rendere il paese, un tempo antico, una perla di modernità asettica. Lastricati bianchi rendono priva di ogni carattere la piazzetta adiacente la chiesa. Non distante, sempre muovendosi per i vicoletti, si giunge al palazzo del Municipio: uno sfoggio di modernità, la, dove un tempo, vi era un castello. Prima del 1980 ancora si poteva ammirare il rudere della torre. Crollata con il sisma che più flagellò la provincia, vuoi per ignoranza, vuoi per una corsa alla ricostruzione e ai contributi stanziati dallo Stato, il tutto fu completamente raso al suolo dando spazio a un edificio privo di legami con le origini. Se di storico si cerca qualcosa, solo all'ingresso del piccolo museo cittadino si può ammirare un antico arco. Non distante, ci sentiamo di volerlo segnalare, vi è ancora una delle case signorili del paese, così come era un tempo: restaurata e oggi adibita a Cantina, conserva all'interno e all'esterno tutto il suo fascino originale. Spostandoci dal centro vero e proprio abbiamo raggiunto la zona chiamata "Acqua dei Franci", nome legato alla leggenda di un miracolo compiuto dalla Madonna in occasione dell'arrivo dei Francesi invasori. Ancora una volta il selvaggio restauro ha privato il borgo di ogni suo legame con il passato.
In lontananza, poi, abbiamo osservato il "Casino di San Nicola" svettare sull'omonima contrada. Casa antichissima, un tempo ricovero di caccia, oggi di proprietà privata, fa da custode alla "Fontana dell'Amore", che per via del terreno assai fangoso, non abbiamo potuto raggiungere, ma che, personalmente ricordo con emozione: nel mezzo della campagna questa fontana, con vasca retrostante, si racconta fosse portatrice di acqua magica, un elisir d'amore.
La chiesa madre, poi, oggi non sfoggia più le ricchezze che un tempo conteneva: in parte, con il terremoto, sono state trafugate, in parte, invece, sono andate distrutte. Oggi appare piuttosto semplice, con in mostra le statue di Sant'Antonio e della Madonna (che sono oggetto di culto durante le processioni ad essi dedicate, con omonime feste di paese).
Se della storia non resta più nulla, ce lo conferma l'ultima fontana che abbiamo visitato: la "Pescara". Anch'essa, come le altre, abbandonata al tempo.
A questo punto sorge quasi spontaneo domandarsi perché mai qualcuno dovrebbe visitare Paternopoli... e la domanda è più che lecita. Beh, una risposta, però, tenteremo di darvela. Seppure più nulla di storico e caratteristico lega al suo passato il comune, oggi, grazie anche all'impegno di alcuni volonterosi imprenditori, il comune sta affermandosi come meta del turismo enogastronomico. Eccellente è, infatti, la cucina scientifica di una ristoratrice del paese, meritevole di essere assaggiata, con la certezza di non restarne delusi, altrettanto importanti sono le aziende che producono ottimi vini. Quale migliore occasione, poi, di godere di piatti prelibati e vini gustosi se non il Carnevale, momento dell'anno in cui il piccolo comune si risveglia dal torpore invernale.
Sono proprio i giorni di Carnevale che riempiono di turisti le strade di Paternopoli. Camperisti, indigeni, visitatori dai paesi limitrofi e non solo raggiungo il comune per godere dell'atmosfera di festa che ogni anno riempie l'aria: carri allegorici, interamente lavorati in cartapesta da sapienti mani, musiche e balli riempiono le strade, deliziando lo sguardo, soprattutto, dei più piccini. Quindi, volendo dare una sintetica risposta alla domanda sul perchè visitare Paternopoli, sarebbe opportuno dire di farlo per godere, particolarmente a Carnevale, delle delizie del palato che il paese offre e per l'atmosfera giocosa che viene a crearsi, sempre diversa e mai ripetitiva, tutti gli anni. Paternopoli, quindi, più che paese di storia è paese di sensazioni, senza aspettarsi scenari incantevoli, ma godendo dell'aria limpida e dei sapori della terra.
APPROFONDIMENTO STORICO
Le origini
Paternopoli: città dei padri. Questo potrebbe essere il significato del nome, se tradotto letteralmente. Ma, per scoprire anche la radice etimologica del nome, cerchiamo indietro nella storia...
L'Irpinia era una terra selvaggia. Siamo circa nel 369, un terremoto aveva appena colpito la provincia. La situazione socio economica non era delle migliori: le antiche vie romane erano in decadenza, sempre meno trafficate, il commercio sempre meno attivo, l'isolamento delle comunità sempre maggiore. Era, però, anche il periodo in cui il monachesimo iniziò a trovare terreno fertile.
Secondo alcuni storici in quello che oggi è il territorio del comune di Paternopoli, ben prima, e durante l'impero stesso, vi era la cittadina di Bovianum (da cui si pensa provengano i resti rinvenuti negli anni '70 in zona Bovane a Paternopoli). Ormai della città non si avevano già più tracce, crollato, infatti, l'impero erano decadute la maggior parte delle città. Fu proprio allora che, in cima ad una collina, in territori poco distanti dal Sannio e in posizione dominante il territorio dell'Ufita, che un monaco scelse di porre dimora. Questo monaco, la cui fama crebbe rapida nel tempo, veniva, come tanti altri, chiamato con l'appellativo "Pater". Si crede che, proprio in seguito al diffondersi della fama del monaco, il territorio in cui egli decise di dimorare incominciò a essere chiamato Paternum.
In quegli anni cupi era facile il diffondersi di leggende su doti taumaturgiche, così ben presto l'affluenza di contadini e "campagnoli" presso la domora del Pater crebbe. Così, ben presto, il monaco iniziò ad assumere il ruolo di mago, curatore, ambasciatore divino.
Anche dopo la morte del Pater, il nome dato a quel luogo sopravvisse...
Intanto, col trascorrere del tempo, in Italia iniziarono a calare popolazioni germaniche: i Visigoti. Non furono i soli, infatti, dall'Africa cominciarono ad arrivare orde di altri barbari: i Vandali. Furono queste popolazioni straniere a insediarsi nelle valli un tempo dimora delle stirpi sannitiche: gli Irpini. Frattanto i presidi Visigoti, installati nel Sannio, iniziarono a crollare sotto ai colpi degli Ostrogoti. Stava per iniziare un periodo di confusione, di paura, di "oscurità".
Al 450 circa arrivarono nuovi invasori: i bizantini, guidati da Belisario. Sempre più frequenti si fecero le scorrerie, la violenza e un clima di paura. Non vi era alcun presupposto alla proliferazione di civiltà erudite. Solo nel 529, grazie a Benedetto da Norcia, iniziò una nuova forma di monachesimo, stavolta portatore di progresso. Così, ai confini del territorio di Paternopoli, si insediò un altro monaco eremita (ancora oggi vi sono alcuni ruderi conosciuti come la "Cappella dell'Eremita"). Sulla sommità del colle, intanto, dove s'era insediato il Pater, la vita aveva ripreso a scorrere: si iniziò a lavorare la terra, cresceva il numero di fuochi e iniziava a formarsi una vera e propria comunità. Fu, poi, in questo stesso periodo che iniziarono a sorgere le prime chiesette votive alla Madonna Nera, alcune delle quali costruite con i residui di case e strutture dell'antica città romana.
Intanto nuovi invasori ancora invasero l'Irpinia: i Longobardi. Nel 570 fu conquistata Benevento (che diverrà poi una delle città principali e con maggiore influenza sull'Irpinia stessa). Durante le campagna di conquista fu annesso al territorio Longobardo anche il piccolo centro di Paternopoli. Vi dovevano essere circa un centinaio di persone, povere, stanche e indifese. Fu concesso, forse per maggior controllo sul territorio, a una famiglia locale di insediarsi sull'altura di Paternum. Da una piccola comunità nacque qualcosa simile ad un accampamento, poi, precauzionalmente fortificato. Gli equilibri politici, però, stavano per subire un nuovo cambiamento. Nuova figura all'orizzonte fu la Chiesa.
Accresciuto il potere politico, le comunità monastiche, favorite anche da elargizioni e da mancanza di vessazioni di carattere fiscale, iniziarono a catalizzare la ripresa economica. Il vecchio piccolo centro Longobardo mutò, si trasformò in "sala", ovvero residenza patronale, con gestione diretta del fondo all'unico signore proprietario. La crescita economica iniziò a dare i propri frutti, ma la vita era comunque piuttosto semplice: i nobili Longobardi vivevano ancora in abitazioni spartane, composte da un unico vano, con poche suppellettili e letti rudimentali, non vi erano ancora i palazzi che avrebbero, poi, in un futuro caratterizzato le dimore dei Signori.
Al 774 risale l'insediamento a Benevento di Arichis. Nel 787, prima di morire, Arichis si sottomise al re francese Carlo Magno. Intrighi di palazzo e congiure nobiliari distrussero la già fragile situazione politica. Il colle di Paternum (o Paterno), ove sorgeva l'ermo e la Pars Dominicia, entrò a far parte dei possedimenti della famiglia Marepai. Documenti storici, infatti, recitano che "le notizie storiche più sicure risalgono all'anno 817, quando il potente Pietro Marepai del fu Vasione donava Paterno agli abitanti di Montecassino e del Volturno "pro redemptione animae suae" (G. De Jorio), ed ancora "Il più antico documento nel quale è nominato questo comune è dell'anno 817; vi si legge che Pietro Marepai, figlio di Vasone, donò Paterno ai monaci di Montecassino, ed a quelli di S. Vincenzo al Volturno (...)" (Anonimo). Vi sono anche altri documenti che ne attestano la veridicità.
Per riscattare il territorio di Paterno dai monaci di S. Vincenzo sul Volturno, si ricava da antiche carte notarili, si sarebbe dovuto corrispondere ai monaci un giusto prezzo "per l'anima dello stesso Giovanni".
Sicone, principe di Benevento, nell'anno 819 fece formale atto di conferma, a favore dei monaci di S. Vincenzo sul Volturno, di attribuzione e di proprietà del territorio di Paterno.
Si era quasi all'anno mille.
Paternopoli diviene comune di confine del principato di Benevento (Arechi), adiacente al territorio del Principato Arechi di Salerno. L'arrivo dei saraceni portò nuovamente la paura tra le genti, e, inevitabilmente, la fuga dai centri abitati. La frammentazione sociale del già piccolo centro abitato portò a un decadimento del centro e sparati gruppi di popolani trovarono rifugio presso le piccole comunità ecclesiastiche. Tempo dopo, ristabilita la pace, vi fu un timido accenno di vita in comunità nel territorio di Paterno, anche grazie alle comunità ecclesiastiche di San Pietro, di San Quirico e di Santa Maria. Nacquero altre chiese e piccole dimore.
Casali, frantoi, mulini, un piccolo mercato erano, proprio intorno ai monasteri, sintomo di fermento e crescita delle comunità civili. Intorno al 910 Alliku, capo saraceno del Garigliano, attaccò l'Irpinia ed anche Paternopoli fu devastata. Nel 915, però, Bizantini e Longobardi riuscirono a ricacciare gli invasori orientali.
Nel 968 i Bizantini, scacciati in precedenza dall'esercito tedesco, risalirono l'Ofanto e attraversarono inevitabilmente il territorio di Paternopoli: di nuovo la crescita economico-sociale andò in crisi. Nel 990 un altro terremoto colpì l'Irpinia.
Si pensa poi, che nel 1002, secondo alcune antiche fonti storiche, Ottone III morì proprio nel territorio di Paterno. Altre interpretazioni storiche sono però scettiche che fosse davvero l'attuale territorio di Paternopoli quello ove il re barbaro morì. Di contro alcuni studiosi locali attribuiscono alle lettere P. O. (presenti sullo stemma del paese, accanto alla quercia) il significato di "Perit Octo".
Fino all'epoca Normanna le fonti storiche citano raramente Paterno e si presumo che il tempo scorresse nella semplicità. Furono proprio i Normanni a portare dei cambiamenti rilevanti: nel 1080 il territorio di Paterno divenne parte del dominio di Roberto d'Altavilla, detto il Guiscardo. In questo periodo, nei pressi dell'odierna chiesa e non lontano dalla Scala Santa, all'incirca dove sorge il moderno Municipio, fu eretto un castello. Il seminterrato del palazzo fortificato, nel 1980, dopo il sisma distruttore, fu completamente demolito insieme all'adiacente Palazzo Rossi.
Proprio con i Normanni fu ufficializzato il nome di Paterno, ed iniziò un periodo di crescita per il centro.
Il periodo feudale
Le vicende politiche che caratterizzarono l'epoca feudale furono così varie e complesse che tenerne accurata traccia risulta piuttosto complesso. Prendendo come punto di partenza l'anno 1120, ci imbattiamo in un paese danneggiato da numerose e forti piogge, infatti "tre dì innanzi alla festa di S. Eustachio, fu un grande straripamento del fiume Calore, del quale niuno di quanti ci viveano ricordava il simigliante" (Falcone Beneventano: Cronica), e Paterno risultò fortemente danneggiato, soprattutto l'antico mulino ad acqua nei pressi del fiume. Frattanto era salito al potere Guglielmo di Gesualdo. Nel 1126, intanto, venne anche ultimala l'antica Abbazia di Montevergine. Numerosi furono i conflitti per il predominio sul territorio, tant'è che nel 1139 gli fu definitivamente confermato il possesso sul feudo di Paterno, come si trova conferma in antichi documenti custoditi presso l'Abbazie di Montevergine.
Quando Guglielmo di Gesualdo morì, lasciò tre figli: Elia, che venne confermato da Re Ruggero regnate del feudo di Paterno, Aristolfo, divenuto militare, e Guglielmo di cui non si hanno più informazioni attraverso i documenti storici. I feudi in Irpinia erano diventati ricchi e prosperi. Essendo i traffici con la Puglia sempre più frequenti, Paterno fu sempre più interessato ai traffici: predicatori, commercianti e questuanti portavano nelle contrade Paternesi sempre nuove idee. La popolazione cresceva, e anche il benessere. Promotrici di sviluppo furono, ben spesso, proprio le comunità monastiche. Il feudo di Elia divenne, nel tempo, sempre più forte anche dal punto di vista militare: vi erano circa 142 unità militari armate pesantemente e 414 inservienti.
Il centro abitato cresceva tutto intorno al castello, e tra le nuove case sorse una piccola chiesetta dedicata a San Luca (oggi usata come sacrestia). Fu anche costruita una piccola cinta muraria a prima difesa del centro abitato, nelle quali fu costruita la porta cittadina detta "Porta Napoli", che seguendo il Pendino, portava fino alla via Napoletana sul fiume Calore. Fu aperta anche una porta secondaria, rivolta verso la Puglia. Elia, però, legato alla corte della Corona, ben raramente dimorava tra i suoi feudi e la gestione di questi fu affidata al figlio Ruggero, che più d'una volta non mancò di assicurarsi un posto in paradiso donando, in cambio della salvezza dell'anima sua e del padre, territori del feudo alla chiesa di San Quirico.
Giunto in Italia Federico II Barbarossa, i figli di Elia di Gesualdo, tempestivamente fecero atto di sottomissione, così da poter conservare gran parte dei possedimenti.
Quando anche Costanza morì, il Regno di Sicilia cadde in un periodo cupo e inquieto. Nuove lotte intestine, nuove congiure e nuovi scontri erano all'orizzonte. I nobili di Gesualdo, influenti nel feudo di Paterno, intanto, stavano perdendo potere ed influenza, sì che erano stati ridotti a meri amministratori del territorio agli ordini della Corona. il 21 giugno del 1208, morto Filippo di Svevia, gli successe Ottone IV, intanto assumeva pieno titolo sulla corono anche il giovane erede del sovrano: Filippo Ruggero, appena quattordicenne. Una guerra tra i due contendenti il trono era all'inizio.
Tornando all'Irpinia, il nobile Roberto Gesualdo perdette il dominio sul feudo di Paterno e dovette ritirarsi in esilio. Paterno divenne semplice periferia all'amministrazione della Corona. Fu il momento del massimo splendore per i monasteri. Intorno al 1220 Paterno risulta essere territorio di proprietà demaniale: nel 1221 parte del territorio del feudo fu donata direttamente dalla Corona (Federico II) all'abbazia di Cava de' Tirreni. Frattanto nel feudo di cui narriamo era sorta una piccola comunità monastica poco fuori alle antiche mura: i frati minori devoti a San Francesco.
Intanto il priorato di San Quirico, grazie alle donazioni dei fedeli, accresceva il proprio patrimonio. Nuovamente le cose dovevano cambiare.
Le attività artigianali si erano sviluppate notevolmente, era aumentata la popolazione anche grazie all'immigrazione da posti lontani di numerose genti (nei documenti, infatti, si ritrovano i nomi di Giovanni de Airola, Giacomo de Palermo, Riccardo de Napoletano, ecc.). Il giogo feudale, mancato durante il periodo in cui Paterno divenne regio demanio, si era riaffermato: l'oppressione di un signorotto a governare il territorio si faceva sempre più forte. Balzelli e tasse ingenti avevano ripreso a soffocare l'economia. A mettere ulteriormente in crisi l'economia furono le mire espansionistiche della famiglia Angiò. Furono proprio gli Angioino a proporre una nuova tassa: la "focatica", tassa per ciascun fuoco in tutto il regno. La popolazione di Paterno cercò di far risultare minore il numero di abitazioni: ben 38 vennero completamente svuotate di ogni cosa, sì da risultare disabitate e quindi, ovviamente, escluse dalla tassa!
Anche in altri paesi della provincia si attuò simile astuzia, ma in seguito vennero effettuati altri controlli che smascherarono l'imbroglio. Nel 1268, poi, temporali e piogge violente, portarono alla distruzione di enormi parti di raccolto. L'anno successivo si ebbe una carestia che gravò, non poco, anche sulla possibilità di esigere, da parte del fisco, le tasse. Nel 1272 fu nominato, poi, Mastrogiurato di Paterno il signor Giovanni de Airola, competente sia in materia di giustizia che di amministrazione.
Gli Angiò continuarono ad affliggere l'odierna provincia irpina con gravose tasse per il sostentamento del seguito reale e per finanziare le numerose guerre che la famiglia reale intraprese. Le sole chiese di San Quirico e Santa Maria, essendo proprietà di Montevergine, restarono esenti al contributo fiscale richiesto dalla Corona.
Per corrispondere le tasse, sempre più esose, i contadini,incapaci di pagare, si ridussero volontariamente in situazioni di schiavitù finendo per creare una nuova classe sociale: abnoxiati. Molti cittadini, ormai affamati, abbandonavano il territorio, finendo per aggravare la già precaria situazione in cui Paterno vessava. Durante le guerre che frattanto si stavano combattendo in tutto il mezzogiorno, si presume che il feudatario di Paterno si fosse particolarmente distinto per eroicità poiché gli fu concesso, nel 1290, la Capitaneria Generale di Napoli, la Reggenza della Vicaria, e fu nominato Giustiziere di Basilicata. Mentre il feudatario diveniva sempre più noto al di fuori dei confini del suo territorio, l'Irpinia continuava a sprofondare nella povertà.
Alla fine del XIII secolo morì il feudatario Nicola Gesualdo, senza lasciare eredi. Alle figlie Margherita e al marito, il visconte di Leutrico, e a Roberta, sposa di Giacomo di Capua, toccò, tra i vari possedimenti, il territorio di Paterno. A divenire guida per la gente che ancor risiedeva nel feudo, sempre più povera e stremata, furono le comunità clericali che, come si deduce da antichi documenti, tra il 1308 e il 1310, versarono alla Santa Sede le decime annualmente dovute: circa 10 tarì.
Le guerre per il possesso dei territorio irpini continuarono a martoriare la quiete politica che, volendo, si sarebbe potuto avere. Nel 1372, con la morte di Filippo Filangieri, divenne erede della Baronia di Gesualdo e del feudo di Paterno, il figlio Giacomo Antonio Cobello Filangieri.
Il potere ecclesiastico
Carestie, peste, brigantaggio, guerre avevano dilaniato l'Irpinia e il feudo paternese. Ad avere sempre maggior potere, tra le genti, fu la Chiesa. La chiesa maggiore di San Nicola, infatti, aveva acquisito giurisdizione su numerose cappelle del territorio. Anche nel 1700 erano numerose le chiese che dominavano il territorio paternese. Oltre alla chiesa maggiore vi erano Santa Maria di Costantinopoli, Santa Maria delle Grazie, San Francesco, San Sebastiano (ancora oggi visibile ma chiusa perchè inagibile), San Michele Arcangelo, San Giacomo, Santa Maria a Canna, San Damiano, San Felice, Sant'Andrea, San Pietro, San Quirico e San Vito.
L'artigianato s'era decisamente sviluppato, così che si deliberò nel 1717 l'apertura di una fiera annuale per smerciare i prodotti. La ricchezza non tardò a essere investita nei luoghi di culto: la chiesa di San Nicola fu impreziosita del "Gesù Morto" e di una tela raffigurante l'Assunzione. Gli inventari notarili redatti per monitorare i possedimenti delle varie chiese mostrano come i terreni posseduti dalle curie non fossero solo siti nel feudo, ma molto spesso anche in quelli confinanti e più lontani.
Le chiese avevano anche operato a vantaggio della popolazione: erano stati redistribuiti parti di territorio e l'agricoltura era risorta. Anche la natalità era aumentata. La vita sociale iniziava a svilupparsi, sempre, però, intorno alla Chiesa. Furono intrapresi lavori per collegare meglio le cittadine di Paterno e Fontanarosa (costruito un ponte), con Poppano (un ponte) e, poi, un ponte per attraversare il fiume Fredane in contrada Scorzagalline. Il benessere si tradusse anche nel maggior uso di laterizi per riparare le fatiscenti case del borgo. Iniziò, insieme alle opere buone per lo sviluppo sociale, a diffondersi il vizio del gioco, tanto che molti, per redimersi del peccato compiuto versavano alle chiese somme per acquistare il perdono dei peccati.
Le comunità religiose locali, ben presto, entrarono in conflitto tra di loro e numerosi furono gli scandali che emersero, a volte veri, a volte volontariamente inventati, per discreditare ora l'una ora l'altra parrocchia. Siccome, poi, il paese cresceva e si abbelliva, per non essere da meno, la chiesa maggiore commissionò, in anno 1737, a Gennaro D'Amore un busto ligneo raffigurante San Vincenzo Ferreri. Le altre chiese, con spirito competitivo, fecero erigere altari poichè ne erano ancora prive. Furono chiamati, a soprintendere i lavori, artisti da Napoli ed Avellino.
Fu questo periodo di particolare prosperità del potere ecclesiastico, periodo di miracoli.
A Paterno, nella metà del XVIII secolo, si contavano oltre 2.400 anime. La vita si era focalizzata al centro cittadino: la Piazza. Era ivi sorta la Corte di Giustizia, sorse una scuola, fondata e diretta da Antonio Pelosi, che presto divenne rinomata tanto da attirare studenti dai paesi limitrofi, e nel 1757, divenuta importante oltre il circondariato, venne ad iscrivervi il figlio Filippo Altieri da Benevento, e iniziarono a diffondersi i mestieri. Numerosissimi furono i contratti di apprendistato.
Iniziarono a diffondersi anche storie su miracolose grazie concesse alla gente dalla Madonna, e ben presto Paterno divenne meta di pellegrinaggio: iniziarono a diffondersi venditori ambulanti e questuanti. Sempre maggiori furono le grazie concesse e l'eco superò i confini anche dei comuni limitrofi: la Vergine Santissima della Consolazione divenne oggetto di culto. Il fervore religioso crebbe. Si ebbe, quindi, la necessità di rendere la Chiesa Madre adatta ad ospitare i pellegrini, così iniziarono nel 1756 i primi lavori di ristrutturazione dell'edificio sacro. Le soffitte e le pareti furono affrescate. Fino al 1762 si erano susseguiti lavori migliorativi.
Si iniziò a registrare dinanzi ai notai e a testimoni la testimonianza riportata da vari miracolati: improvvisa capacità di maneggiare l'ascia, dono della parola ai muti, guarigioni da deformazioni, guarigione degli invasati, esorcismi ecc.
Per accogliere i fedeli, sempre maggiori per numero, si procedette a lavori di miglioria del centro abitato: ampliamento delle strade e miglioria degli alloggi, fino alla demolizione di edifici fatiscenti nei pressi della Chiesa. Nel 1774 da Roma giunse, infine, l'autorizzazione di incoronazione della Vergine, ed il giorno della Pentecoste fu scelto come giorno un cui festeggiare l'accadimento.
l'Ottocento e il Regno unitario
Nel 1848 scoppiò, in Sicilia, e nel Cilento, la rivoluzione. Ferdinando II dovette cedere alle richieste di una costituzione. In provincia di Avellino fu concesso un solo seggio: presso la chiesa di San Francesco Saverio. L'affluenza alle urne fu davvero bassissima, e, nelle elezioni del 1848 risultarono eletti per il distretto di Sant'Angelo dei Lombardi, i paternesi Filippo De Jorio e Carmine Modestino. La mancanza di igiene, di cure mediche e l'alimentazione inadeguata della popolazione comportarono un numero enorme di decessi nel comune di Paterno. Ancora una volta, rivolgendosi con ammirazione e speranza alla Madonna, in suo onore fu fatta scolpire una statua da un artigiano napoletano. Nonostante nel resto del regno gli spiriti rivoluzionari pro-repubblica si facessero evidenti e Ferdinando II iniziasse le azioni repressive, in Paterno ciò non accadde: la crisi economica che da tempo affliggeva il centro era di ben maggiore importanza, quindi tutte le energie vennero convogliate a una possibile soluzione. Mancava spazio ove tumulare i morti, bisognava ristrutturare la Chiesa Madre, numerose erano le infiltrazioni d'acqua, durante l'inverno, nella torre campanaria, necessarie erano nuove strade. Solo nel 1852 si potè respirare aria nuova, il cambio di politici, aveva incentivato lo sviluppo di traffici economici. Non essendo però migliorata la condizione igienica numerose furono le morti di infanti, mancava poi una storia primaria femminile, fino a quando nel 1854 si potè designare quale maestra la signora Maddalena Vovola, che però si rifiutò, per motivi di salute, di raggiungere Paterno. Il morbo asiatico, ormai diffuso in tutto il territorio di Paterno, scoraggiò anche l'intervento di ingegneri per la costruzione dell'orfanotrofio. Le acque, e le fontane da cui attingerle, erano in condizioni pessime.
Il 5 maggio 1860, Garibaldi sbarcò in Sicilia, e anche in Irpinia non tardarono a movimentarsi i liberali. Nel 1860 fu impiantato in Ariano il governo provvisorio della provincia, ma la popolazione insorse nuovamente, stavolta inneggiando a Federico II. Poco tempo dopo Garibaldi entrò a Napoli e Federico II fu costretto alla fuga. Il 21 ottobre Napoli fu affidata all'Italia. Il sentimento filoborbonico però non si era ovunque estinto.
Con l'unità d'Italia si pensò che Paterno potesse godere di un momento di rinascita. Si iniziarono, col fervore del cambiamento, i primi lavori di costruzione. Anche l'andamento demografico migliorò. Le cose non migliorarono di molto, di fatti gli stessi uomini che si proponevano, precendentemente, come borbonici, stavolta apparvero in veste di nuove menti. Il trasformismo, piaga dell'Italia, aveva iniziato a diffondersi.
Nel giorno del 13 dicembre del 1863, con Regio Decreto si autorizzò Paterno ad assumere il nome di Paternopoli, ed il giorno 30 successivo il consiglio comunale ne confermò la validità. Fu aperto, grazie alla Congregazione della Carità, l'orfanotrofio tanto atteso. Si potè poi nominare Maddalena Leone maestra.
Seppure il regno si evolveva, Paternopoli restava legato al passato. Si contavano, nell'intero territorio paternese, 104 strade municipali.
Alle soglie del XX secolo
Il 7 giugno del 1910, alle tre del mattino, un terremoto scosse l'Irpinia. Notevolissimi furono i danni riportati. A quel periodo risale l'intenzione dell'amministrazione comunale di elettrificare, finalmente, il paese. Solo nel 4 giugno 1911, però, si concretizzò il progetto. Nel 1915 il paese contava 2.546 anime, e nello stesso anno fu impiantato un orologio luminoso e con rintocco automatico delle campane, nella torre campanaria. Intanto scoppiò la guerra. Numerose furono le vittime paternesi, alcune disperse, altre spirate. Il dopoguerra portò altra miseria e altra povertà.
L'avvento del Fascismo non cambiò molto la situazione nel piccolo comune. Solo nel 1932, ad agosto, si fece qualche passo per la soluzione del problema idrico che da numerosissimi anni affliggeva la popolazione. Si era redatto un progetto per la realizzazione di un acquedotto.
Nel 1932/1933 fu costruito l'edificio scolastico, con un costo preventivato di lire 386.687.
Nonostante il forte fenomeno migratorio, la popolazione del paese era cresciuta, fino a toccare la cifra di 3.116 anime. La Seconda Guerra Mondiale esigette altre giovani vite da Paternopoli. Molti giovani partirono per il fronte. Durante al fuga dei tedeschi, anche a Paternopoli fu impiantato un campo medico, e 17 furono i germanici a trovar la loro fine qui. Il 19 agosto del 1943, poi, una squadriglia di bombardieri americani fu intercettata e, abbattuto uno dei velivoli, quattro paracudisti furono catturati. Uno di essi, però, non riuscendo a far aprire il telo che gli avrebbe salvato la vita, si sfracellò al suolo. Quando gli americani liberarono anche Paternopoli, d'improvviso, scomparvero gli abiti neri del littorio.
A far sopravvivere il piccolo comune vi furono, dopo la guerra, le cospicue rimesse degli emigranti. Nel 1948 si ricostruì la torre campanaria, e nel 1950 fu recuperata la chiesa parrocchiale, fu costruita la rete fognaria che non esisteva fino a quel tempo, furono ristrutturate le strade.
Affacciandosi l'epoca moderna e la ricchezza, e il benessere, l'antico spirito, il legame col passato, andò perdendosi.