Fu a causa di un neo?
Uxoricidio a Paternopoli nell'anno 1837
di Antonino Salerno
Il 30 gennaio del 1812, in una gelida serata invernale, alle ore 23, nacque in Paterno, nel Principato Ulteriore, Felice Luigi Nicola de Antonellis, figlio del Barone Giovannantonio, di professione medico, e di Donna Giuseppa Titomanlio, di agiata famiglia di possidenti.
Felice crebbe circondato dalle cure di fantesche e dall'affetto oppressivo della famiglia, nella deprimente monotonia del piccolo centro agricolo natio, sicché, allorquando nel 1830 fu menato dal padre alla bella capitale ad apparare le scienze e le lettere e gli si dischiuse dinanzi un mondo inaspettato, rutilante, fremente di piaceri e carico di lusinghe, si trovò impreparato a gestire l'improvvisa libertà. A Napoli fissò la propria dimora in una casa di proprietà della sua famiglia, in via San Biagio dei Librai, ove rimase per oltre un quinquennio, più dedito a' divertimenti che agli studi, continuando a risiedere in patria il suo vecchio e rispettabile genitore Barone Giovannantonio de Antonellis .
In questo periodo, dunque, il soggiorno napoletano di Felice de Antonellis fu improntato a sfrenata dissolutezza. Bazzicava locali di dubbia fama, spesso accompagnandosi con donne dedite alla prostituzione, finché, in un giorno della primavera dell'anno 1836, nel suo quotidiano bighellonare, non si trovò a percorrere via Materdei. Qui fu folgorato dalla visione di una giovane donna affacciata ad una delle finestre di un palazzo, e quell'immagine gli si impresse nel cuore e nella mente con intensità ossessiva. Prese, quindi, a frequentare con assiduità quella via, interessandosi alla giovane che rispondeva al nome di Angiolina, la cui famiglia, riputata da tutti virtuosa, onesta, religiosa, componevasi allora della vedova D. Marianna Zarrillo, di tre di lei figlie chiamate D. Angiolina, D. Concetta, e D. Teresa de Rosa, e di un figlio maschio chiamato D. Michele de Rosa .
Mosso dall'impulsività irrazionale che gli era congenita, Felice de Antonellis non tardò a prendere in fitto un appartamento in un palazzo quasi dirimpetto alla casa di lei, trasferendovisi dall'abitazione di proprietà in via San Biagio dei Librai.
Dalla finestra di una sua stanza, talvolta intrattenendosi a chiacchierare con un giovane affacciato sul balcone dell'appartamento adiacente al suo, Felice de Antonellis adocchiava la donna, ogni giorno di più sedotto dalla grazia e dalla modestia di lei. Ben presto ad Angiolina fu palese l'interesse di lui e ne mostrò il gradimento, per cui il giovane si risolse a manifestare alla di lei madre il desiderio di averla in moglie: Una tal manifestazione fu ben accolta dalla madre Zarrillo: E sotto questo rapporto si diede il D. Felice a frequentare la di lei casa .
Tuttavia, il fidanzamento non valse a redimerlo del tutto dalla vita sregolata fino ad allora condotta. Continuò nella frequentazione di prostitute e contrasse una malattia venerea per la quale accusò debolezza nervina nelle parti genitali. Invece di consultare un medico specialista, come sarebbe stato saggio e opportuno, preferì consigliarsi col farmacista Don Raffaele de Mita col quale, avendo domicilio sotto l'abitazione della famiglia de Rosa, aveva stabilito un rapporto di amicizia. Costui gli prescrisse una cura a cui il de Antonellis si sottopose, apparentemente ottenendone dei benefici.
Intanto, la signora Zarrillo esercitava pressioni su Felice perché stabilisse la data delle nozze, ma questi, prima di prendere una decisione, volle informare il padre del passo che si accingeva a compiere, invitandolo a dare il proprio benestare.
Il barone Giovannantonio de Antonellis, assunte le debite informazioni, comunicò al figlio la propria contrarietà a tale matrimonio, giustificandolo col fatto che era Angiolina de Rosa figliuola di un legale quanto ricco di onore altrettanto scarso di avere, deceduto lasciando alla prole tenui sostanze. Egli, il barone, delle quattro sue figliuole, due (secondo la vocazion loro) avea monacate, non senza condegno apparato ed assegnamento, e le altre due collocate in matrimonio, molto onorevolmente dotandole. E per una di queste passata a nozze nel marzo del 1836, stava raccogliendo il danaro dotale da pagarsi in rate alle debite scadenze.
Era assai naturale ch'egli, da savio ed avveduto padre di famiglia, bramasse di rimettere in casa per via de' matrimoni de' maschi, una parte di quel che ne toglieva il collocamento delle femmine .
In agosto, per vincere le resistenze paterne, Felice si recò a Paterno, facendosi accompagnare dall'amico Don Achille Fattore. Qui i disturbi di cui aveva recentemente sofferto si acuirono e il Fattore ipotizzò che si trattasse di lue venerea.
Il barone, preoccupato per la salute del figlio, cedendo alle sue insistenze, concesse l'assenso alle nozze, e Felice fece ritorno a Napoli, dove dal farmacista de Mita si fece prescrivere una nuova cura.
La data del matrimonio fu fissata per il 28 gennaio dell'anno seguente.
Trascorse l'estate, e Felice continuava ad abitare in via Materdei, spesso conversando col giovane dell'appartamento accanto.
Venne dicembre, e Felice de Antonellis, all'improvviso, cadde in uno stato depressivo. Appariva assorto, spesso assente, talvolta in preda ad un turbamento interiore che egli spiegava dovuto ai postumi dell'infezione patita. Necessitando di adeguata terapia, chiese di poter differire la data del matrimonio, e la Zarrillo non si disse contraria, a condizione, però, di astenersi dall'accostar più in sua casa durante la cura . Al giovane sembrò insostenibile il sacrificio che gli si imponeva, per cui desistette dalla sua richiesta.
Nella vigilia di Natale del 1836, per malattia sopraggiunta, Felice de Antonellis fu ospitato per alcuni giorni presso la famiglia de Rosa. Venne assistito dal medico D. Placido Radogna. In uno di quei giorni si appressò al suo letto la D. Angiolina, e vedendolo taciturno e mesto gli domandò cosa aveva, e che ove fosse pentito, poteva benissimo sciogliersi dall'impegno contratto. Egli, in tono brusco, si limitò a rispondere: "Niente, niente" .
Il 19 gennaio 1837, dinanzi all'ufficiale dello stato civile della sezione Stella, Don Felice de Antonellis e Donna Angiolina de Rosa si scambiarono solenne promessa di matrimonio. Nella sera di sabato, 28 gennaio 1837, le nozze si celebrarono colla massima segretezza. Felice non permise che si invitassero tutti i parenti della sposa e, sebbene le avesse fatto dono dell'abito nuziale, le impedì di indossarlo. La modesta cerimonia si concluse con una cena in casa de Rosa, al termine della quale egli chiamò in disparte la suocera per raccomandarle di non far parola alla figlia sugli obblighi coniugali che l'attendevano, esprimendosi in questi termini: "Mammà nulla dite ad Angiolina. Voi sapete che io soffro alla nervatura" .
Quindi il matrimonio non fu consumato nella notte fra il 28 ed il 29 gennaio, bensì in quella successiva, come potette accertare la domestica Maria Filippa Aprea . L'aver assolto il dovere coniugale non dissipò tuttavia l'umore tetro di Felice de Antonellis, che anzi sembrò addirittura peggiorato. Era turbato, irrequieto, inappetente ed il suo riposo notturno era discontinuo ed agitato. Senza apparente motivo, sempre più si mostrava astioso nei confronti della suocera ed insofferente alle attenzioni della moglie.
L'otto febbraio, Angiolina informò la madre che suo marito aveva deciso di condurla a Paterno di lì a qualche giorno. La signora Zarrillo se ne mostrò sorpresa e contrariata, sia perché la visita ai genitori di lui era stata programmata per il mese di aprile, sia perché riteneva che la figlia avrebbe avuto difficoltà ad affrontare un sì lungo viaggio in piena stagione invernale. Ma Felice fu irremovibile nella sua decisione, e Donna Marianna dovette cedere, imponendo però la presenza del figlio Michele.
I tre partirono di buon'ora il mattino dell'undici febbraio, di sabato, e raggiunsero Avellino alle 22 di sera, dove pernottarono. Da qui, Felice inviò a Paterno un corriere per informare la famiglia del loro arrivo. In sul mattino del 12 di quel mese, giorno di Domenica, partiron con vettura di posta da Avellino: Giunti a Taurasi presero tre somieri, ciascuno montandone uno, e s'incaminarono per Paterno . A circa due miglia da Paterno, li attendeva Don Serafino de Antonellis, fratello di Felice, venuto loro incontro su un cavallo, ai lati della sella del quale pendevano due pistole cariche.
In Paterno furono calorosamente accolti da Don Giovannantonio de Antonellis e da Donna Giuseppa Titomanlio, nonché da Donna Serafina Cianciulli, moglie di Don Serafino, e dai due loro figlioletti; ma Felice, palesemente inquieto, presto sottraendosi alle generali premure con la giustificazione di essere stanco per il viaggio, senza toccar cibo, si ritirò nella stanza a lui destinata.
Il giorno successivo, lunedì 13 febbraio, permanendo in uno stato di evidente turbamento, Felice non si levò dal letto, e solo nel pomeriggio si concesse una passeggiata sulla loggia che affacciava sugli orti retrostanti la casa.
Fu il martedì che il giovane apparve alquanto rasserenato. Chiese alla moglie di preparare una torta da consumare a pranzo, e con lei si trattenne in cucina, procurandole gli ingredienti di cui necessitava.
Il pranzo fu servito dopo le ore 13 di quel martedì 14 febbraio 1837. Don Felice sedeva accanto alla moglie, al lato del tavolo contiguo a quello occupato da lei e da suo fratello Don Michele, i quali davano le spalle alla porta che immetteva nelle restanti stanze. Appariva di ottimo umore. Dissipata la tetraggine che lo aveva reso cupo e scostante, partecipava alla conversazione con spontaneità briosa. Anche fra i novelli sposi si era stabilita una insolita armonia, estrinsecata nello scambio di prelibati bocconi.
Il pranzo volgeva ormai alla fine, quando Don Felice si alzò da tavola, inoltrandosi nelle camere interne. Dopo qualche minuto, un fragoroso colpo di pistola echeggiò nella stanza, e Donna Angiolina si accasciò fra le braccia del fratello. Grida disperate si levarono dalla tavola. In una agitazione frenetica si tentarono inutili soccorsi. Immobile, intontito, Don Felice de Antonellis se ne stava ritto nel vano della porta, alle spalle della moglie, le pistole del fratello serrate fra le mani penzoloni. Dalla cucina accorse Orsola Zoina, subito seguita dalla sorella Rachele, entrambe domestiche di casa de Antonellis. Straziato, Don Michele de Rosa vacillò, privo di conoscenza. Precipitosamente gli fu tolta dalle braccia la sorella morente e, sollevato di peso, fu trasportato in camera sua ed adagiato sul letto.
Richiamata dalle urla disperate, giunse Teresa Losco, vicina di casa. Di lì a poco, seguirono Concetta D'Amato, Federico Pecce, Francesco Antonio D'Amato. Qualcuno si incaricò di chiamare il medico, e Don Giosuè Pergamo si precipitò in casa de Antonellis, ma non poté che costatare la morte della giovane donna.
La ferale notizia si sparse in paese, richiamando una piccola folla sgomenta. Entrarono in casa Raffaele de Renzis, Luigi Amato ed il sacerdote Ferdinando Famiglietti.
Circa un'ora dopo il ferimento mortale, i gendarmi si presentarono in casa de Antonellis e, sequestrata l'arma del delitto, trassero in arresto Don Felice. Questi, interrogato dal Regio Giudice locale, dichiarò che era entrato in una stanza ove sopra di una scanzia avea trovate due pistole che avea preso, ed essendo ritornato nella stanza in cui si era mangiato, e stavano ancora seduti vicino della tavola, avea fatto un poco di moto con una di dette pistole, qal'era sparata senza essersi avveduto cosa era succeduto .
Michele de Rosa, sull'imbrunire di quel medesimo giorno in cui gli morì in braccio la sorella, lasciò Paterno, ed accompagnato da due gendarmi e da due così detti pedoni, giunse dopo la mezzanotte in Avellino, e riposatosi alquanto nella locanda denominata di Lazzaro, volle proseguire nella notte medesima il suo viaggio per Napoli, e furono svegliati de' sensali perché trovassero una vettura, e fu trovata, ed egli partì .
Il giorno seguente, 15 febbraio, venne eseguito l'esame autoptico sul cadavere di Donna Angiolina. Si rilevò nell'angolo superiore interno della scapola sinistra una ferita di figura sferica, ... fatta e causata da corpo duro ... spinto d'arma da fuoco a forza di polvere da sparo ... (che) era andato a ferire la parte superiore del lobolo sinistro del polmone ... e rotto l'arteria e vena pulmonale sinistra ... Confermava il medico legale che la D. Angiolina de Rosa erasene morta per causa della sudetta ferita, e non per altra cagione a motivo della notabile lesione prodotta a' visceri e vasi di tanta necessità alla vita . Le sue spoglie mortali trovarono anonima sepoltura nell'area cimiteriale della chiesa parrocchiale di Paterno.
Il giorno 19 febbraio, il Regio Giudice di Paterno trasmise gli atti al Giudice Istruttore in Avellino, il quale dispose l'esame sull'arma del delitto. I periti armieri verbalizzarono che la piastrina con tutt'i pezzi che compongono il fucile erano in buono stato, e tutti proporzionati tra essi e nuovi; e dietro lo sperimento fatto fu ravvisato che ambedue le pose ove poggia il così detto cane, erano ottimamente costruite da non potersi affatto scaricare da se solo, ma solamente quando esso cane era inarcato e con gran forza tirato col mezzo della sottoposta linguetta denominata sparaturo .
Trasferito al carcere centrale di Avellino, il 24 febbraio 1837, su richiesta del Pubblico Ministero, Don Felice de Antonellis, indagato per omicidio volontario, fu interrogato dal Presidente della Gran Corte Criminale. In tale circostanza, l'accusato si disse confuso, sconvolto per la perdita della moglie, incapace di focalizzare l'accaduto e quindi bisognoso di qualche giorno per riordinare le proprie idee.
Nuovamente interrogato il 6 settembre 1837, Don Felice de Antonellis dichiarò, a propria discolpa: che giunto appena sotto la soglia della porta, che dava ingresso alla stanza da tavola, nell'atto che continuava a guardar tali armi, intese la esplosione di una di esse, senza che sapesse come ciò fosse avvenuto, mentre ignorava se le pistole erano cariche o scariche; né badò, se qualche cane delle medesime fosse stato ingrillato; come neppure si avvide in che modo la esplosione ebbe luogo, sia per aver toccato involontariamente il grilletto, sia per qualche altra sua mossa irregolare .
L'acquisizione delle testimonianze, sia in Paterno che in Avellino ed in Napoli, richiese lungo tempo e si protrasse fin oltre la metà del successivo anno 1838. Fu solo nel mese di settembre di tale anno che Don Felice de Antonellis, con l'accusa di omicidio premeditato, fu sottoposto al giudizio della Gran Corte Criminale del Principato Ulteriore, composta dai Signori Marzocco Presidente, Cantalupo Procuratore del Re presso il Tribunale civile, Fischetti, Giannattasio, Solyma Giudici ordinarj, Sorrentino Giudice civile, Morelli Giudice funzionante da Pubblico Ministero, Baccigalupi Cancelliere .
Il dibattimento richiese quattro lunghe sedute. La pubblica accusa, rappresentata dal giudice Niccola Morelli, esordì nella sua requisitoria ponendo l'accento sulla compromessa virilità dell'imputato, basata sulla testimonianza di Michele de Rosa che, nelle dichiarazioni rese il 7 marzo 1837 dinanzi al Prefetto di polizia di Napoli, aveva sostenuto che nell'autopsia sua sorella era stata trovata vergine. Ne conseguiva, secondo il Pubblico Ministero, che Felice de Antonellis non avendo potuto per deficienza di forze consumare il matrimonio, perdutamente innamorato com'egli era della moglie, si determinò ad ucciderla . Tale tesi, per l'accusa, era avvalorata dal fatto che, essendo egli affetto di malor sifilitico, richiese dilazione alle nozze, alla quale in seguito rinunziò, obbligatovi dall'intransigenza della futura suocera. Ma si accorse ben tosto che gli obblighi (maritali) costituivano un pondo troppo grave per un corpo logoro e periclitante; il sentimento di una debolezza prematura ed intempestiva umiliava sicuramente un uomo che in fine trovavasi nell'aprile de' suoi giorni; e tale umiliazione, divenuta importabile, gl'ispirava un profondo orrore per un nodo che glie la ricordava ad ogni istante .
Quanto alla pretesa involontarietà dell'esplosione del colpo mortale, il giudice Morelli fece notare che i periti armieri avevano escluso che il colpo potesse essere esploso accidentalmente, avendo verificato come la pistola sia bella ed intera in tutte le sue parti, in tutte le sue molli, in tutta la sua struttura: che i suoi riposi sono ben saldi: che non poteva far fuoco che sotto l'impulso dell'uomo .
Pertanto erano da ritenere inattendibili le dichiarazioni fatte da alcuni testimoni circa la disperazione del marito seguita all'evento ferale, ispirate dai rapporti amichevoli intercorrenti fra coloro che le avevano rese e la famiglia dell'imputato. Per confutarle, il Pubblico Ministero si avvalse delle deposizioni rese al Giudice di Paterno dalle tre donne sopraggiunte nella camera da pranzo, mentre ancora Donna Angiolina era agonizzante. Le prime due, Orsola e Rachele Zoina, domestiche di casa de Antonellis, non confermavano le lacrime e le angosciate invocazioni; la terza, Teresa Losco, vi accorse anch'essa dalla sua abitazione prossima a quella degli sposi, e fu presa dalle meraviglie di non aver trovato quella commozione, quel lutto che era proprio di un avvenimento sì compassionevole. D. Felice cacciava pacatamente il capo nella stanza bagnata ancora del sangue di una martire sposa, assicuratosi della seguita morte, e ritiratosi con la stessa tranquillità con cui si era mosso .
Dunque, la volontarietà dell'omicidio era chiaramente provata dal comportamento freddo e distaccato di Felice de Antonellis che, a detta di Michele de Rosa nella deposizione del 7 marzo 1837, apparve indifferente alla tragedia da lui stesso causata, il che, nella retorica della requisitoria, si tradusse: in udire quell'ultimo grido: son morta ... non gemiti, non singulti, non grida, non lamenti, non lagrime ...; e non che dare alcun segno di affetto, in lui la stessa pietà fu muta. Scaricato il colpo di morte, intrepido sogguarda la vittima, e poi ritirasi in altra stanza, da cui non ritorna a lei che per assicurarsi di sua dipartita, pascendo per un istante i freddi suoi sguardi sul freddo cadavere .
Quanto alle ritrattazioni fatte in aula da Teresa Losco e da Federico Pecce, il Pubblico Ministero sottolineò che ad Antonellis dovizioso e potente, e tocco dall'imperioso bisogno di campare la vita, non mancarono mezzi per spingere innanzi seduzioni e comperare testimoni .
Per quanto concerneva il movente, su cui il collegio di difesa, costituito dagli avvocati Luigi Trevisani, Antonio Lanzilli e Barone Giuseppe Poerio, aveva posto reiterati interrogativi, evidenziando l'insostenibilità della perduta virilità dell'imputato, il giudice Morelli argomentò: ne' fatti dubbi è la causale che ne serve di duca quando andiamo in traccia di un colpevole ignoto ...Ma quando il colpevole è già noto; ... quando non rimane alcuna dubbiezza; ... quando, in una parola, è un fatto indubitabile, certo, sicuro, ... qual pro nel ripetere della uccisione la causale? ... Uccise, e volle uccidere. Ciò basta; ed è reo di omicidio: né alcuna causale cancella ed ottempera la enormità del misfatto .
Tuttavia, nonostante ne escludesse l'indispensabilità, non si sottrasse all'impegno della ricerca della causa dell'omicidio, individuandola nell'indole perversa dell'imputato, inequivocabilmente manifesta nel corso del soggiorno napoletano, caratterizzato da comportamenti improntati a dissolutezza e malvagità: Sfrenate intemperanze quindi, nefandi vizi, e morbi crudelissimi, come hassi dall'assieme delle dichiarazioni de' testimoni Francesco Nicoliello, Achille Fattore, Luigi Fedele, Giuseppe Marra, Luigi Novembre, ed altri .
Il 13 settembre del 1838, a conclusione della sua requisitoria, il Pubblico Ministero, Giudice Niccola Morelli, chiese che la gran Corte dichiari constare che Felice de Antonellis da Paterno sia colpevole di omicidio volontario commesso con arma da fuoco nella persona di sua moglie d.a Angiolina de Rosa, ed a termine degli articoli 353 delle Leggi Penali, e 296 della Procedura Penale lo condanni alla pena di morte ed alle spese del giudizio.
Il 15 settembre 1838, il Barone Giuseppe Poerio iniziò la sua arringa in difesa di Felice de Antonellis col contestare la tesi dell'accusa circa la compromessa virilità dell'imputato, affermando che i coniugi nella seconda notte del loro matrimonio furono visitati dall'amore. Maria Filippa d'Aprea ne comunicò il dì seguente i particolari alla rispettabile genitrice della sposa, e quella sperimentata matrona se ne convinse. E n'ebbe poi certezza dalla figliuola medesima.
Per di più, dopo il tragico avvenimento le osservazioni de' chirurghi settori, adoperati nell'autopsia del cadavere di quella giovane di così intemerati costumi, confermarono pienamente la innegabile virilità del marito .
L'accusa di indifferenza del De Antonellis al cospetto della giovane moglie agonizzante, per la difesa era priva di riscontri oggettivi e basata sulle sole affermazioni di Michele de Rosa, le cui dichiarazioni, peraltro, erano palesemente contraddittorie. Infatti, nella prima deposizione resa nell'immediatezza dei fatti al Giudice di Paterno, egli aveva asserito che sua sarella era ferita, come di fatto subito se ne morì. Per tale circostanza il cognato cominciò a piangere amaramente, chiamando spesso la moglie ANGIOLINA MIA ANGIOLINA MIA. Inoltre, partito per Napoli quella stessa sera, accompagnato da due gendarmi e da altri quattro garzoni, intrattenutosi con alcuni avventori in una locanda in Avellino, proseguito il viaggio in carrozza guidata da un vetturino, non si astenne dall'esporre ad ognuno di loro, ben nove persone, la disgrazia occorsagli. Sicché, chiamati a testimoniare, tutti costoro hanno affermato sotto giuramento, che Michele de Rosa convenne con ciascuno di essi avere il cognato disgraziatamente uccisa la moglie per mero caso, senza volerlo .
Quindi si riduceva a puro intento vendicativo il fatto che, interrogato in proposito nel corso del pubblico dibattimento, Don Michele de Rosa avesse negato di aver fatto simili affermazioni, anzi avesse sostenuto in faccia a' rispettivi testimonj di non aver mai parlato con alcuno perché oppresso dal dolore .
Per la difesa, erano altresì da considerare prive di rilevanza le testimonianze rese nella concitazione del momento, in cui l'emotività aveva ottenebrato le menti. In effetti, i soli ad aver riferito di un atteggiamento apatico, se non addirittura ostile, dell'imputato, erano stati Federico Pecce e Teresa Losco. Quest'ultima è venuta in dibattimento e non solo si è ritrattata di quel che avea detto nella istruzione scritta, ma ha con giuramento affermato che il giudicabile si battea la testa, e che la madre di lui gridava: CORRETE, CORRETE, PERCHE' VUOLE BUTTARSI DA SOPRA LA LOGGIA .
Oltre a ciò, la disperazione di Don Felice de Antonellis era ampiamente dimostrata dal verbale de' gendarmi catturandi, in cui si evidenziava di aver trovato l'imputato piangente, e, soggiungeva l'avvocato Poerio: se questi due irrefragabili documenti avesser bisogno di appoggi, ne troverebbero de' solidissimi nelle dichiarazioni giurate di Raffaele de Renzis, di Luigi Amato, e del sacerdote Famiglietti. ... Il primo di essi, esaminato come testimone a carico nella istruzione scritta, aveva deposto che accorso immediatamente dopo quel disastro in casa de Antonellis, vide il giudicabile il quale faceva premura di vedere la moglie D. Angiolina, ed essendone impedito, cercava di gittarsi per la loggia in giù PER UCCIDERSI.
Luigi d'Amato ... ha deposto, che accorso con gli altri in quella casa, e giunto sulla terrazza ivi vide che l'accusato piangeva dicendo: ANGIOLINA MIA! E DAVA LA TESTA IN FACCIA ALLE MURA.
Il sacerdote Ferdinando Famiglietti si è espresso con queste parole: rinvenni D. Felice de Antonellis su di un lettino che tutto si dimenava, e PIANGEVA dicendo continuamente ANGIOLINA, ANGIOLINA MIA, DOVE STA ANGIOLINA?
Ulteriore elemento atto a comprovare l'incolpevolezza dell'accusato era la mancanza di movente, evidenziata nell'arringa dell'avvocato Poerio: per poter volere uccidere fa d'uopo una causa, e causa proporzionata ... Quando non esiste causale, o, ciò che torna allo stesso, quando è affatto ignota, come può esservi certezza giudiziaria della volontarietà? .
Né poteva essere attribuito il brutale misfatto al suo carattere ferino, come lo aveva definito l'accusa, laddove gli episodi richiamati a dimostrazione della ferinità dell'imputato si riducevano all'esser stato soverchiamente dedito alle donne, all'aver talvolta lanciato dei gusci di uova, delle bucce d'arancia, sopra qualcuno che passava per via, all'aver tirato una fucilata a polvere per ridere della paura di un uomo da lui ben voluto .
A conclusione della propria arringa, l'avvocato Barone Giuseppe Poerio rivolse al collegio giudicante un accorato appello: Oh qual cruccio gli è la memoria della sua donna che per sua mano il cieco caso a lui tolse! Oh quanto è infelice! Giudici, condannatelo a vivere.
Accogliendo in pieno le tesi del Pubblico Ministero, la Gran Corte Criminale del Principato Ulteriore, in quello stesso 15 settembre 1838, emise a carico di Don Felice de Antonellis sentenza inappellabile di pena di morte.
Si narra che, in seguito all'inatteso esito del processo, una delegazione composta da cittadini, fra i più rappresentativi, di Paterno, si recò a Napoli, ove chiese udienza al re per implorare la grazia a favore di Don Felice de Antonellis. Ferdinando II, nel riceverli, ne prevenne la petizione, esprimendosi, come era solito, in dialetto napoletano: "Site venute pe' Don Felice? Nun c'è nient'a fa': chillo fetente adda murì!"
Al Barone Giovannantonio de Antonellis non rimase, come ultima possibilità di salvare la vita al figlio, che produrre ricorso di annullamento della sentenza alla Suprema Corte di Giustizia nella Camera Criminale, adducendo le seguenti motivazioni:
1. violazione del rito in atti essenziali: nella composizione del collegio giudicante, il giudice del tribunale civile, signor Fiorilli, nell'ultima seduta del processo era stato sostituito dal Procuratore del Re, signor Cantalupo;
2. esposizione di fatti non risultanti dalla discussione pubblica: il dolore, il pianto e lo stato di agitazione disperata, manifestati da Felice de Antonellis in contemporaneità coll'omicidio, erano stati posticipati dalla difesa;
3. soppressione di fatti interessanti per la difesa deposti da taluni testimoni: fra gli altri, a) la soppressione della dichiarazione fatta da Don Michele de Rosa, secondo la quale subito dopo il colpo ferale il D. Felice "avea cominciato a piangere amaramente chiamando Angiolina mia, Angiolina mia"; b) l'omissione nel verbale di arresto di quanto avevano riferito i gendarmi che lo avevano eseguito, e cioè che un'ora dopo del fatto avean veduto piangere l'Antonellis; c) la soppressione di quella parte della deposizione di Don Luigi D'Amato che recitava: che fuori la loggia dava del capo sulle mura chiamando la moglie;
4. contraddizioni tra' fatti ritenuti ed i morali rilievi: la Corte aveva ritenuto, nei fatti, che lo stato depressivo si fosse manifestato un mese prima delle nozze, eppure, nei rilievi morali, lo aveva considerato concomitante col matrimonio;
5. convinzion morale fondata sopra illegali elementi: la Corte aveva considerato priva di credibilità l'asserzione dell'imputato di aver vedute le pistole solo nel momento che le prese, ritenendo che le avesse viste già prima, poiché giunto in Paterno girò per la casa;
6. mancanza di motivazione sopra importanti punti: a) la Corte aveva ritenuto non doversi tener conto delle testimonianze di coloro che avevano avuto contatti col fratello della vittima in occasione del suo ritorno a Napoli, poiché si rifacevano a presunte dichiarazioni fatte da persona che peraltro le aveva smentite; b) non era stata individuata la causale dell'omicidio, essenziale per stabilirne la volontarietà .
Il collegio giudicante presso la Suprema Corte di Giustizia nella Camera Criminale, composto da i Signori Cav. Gran Croce de Blasio Presidente, Celentano Vice-Presidente Ordinario, Commendator Montone Vice-Presidente, de Giovanni Vice-Presidente onorario, Cav. Morelli, Cav. Franchi, Cav. Girolami, d'Addiego, e Cav. Gran Croce Longobardi Consiglieri, Nicolini Avvocato Generale, e 'l Giudice Ranaudo Vice-Cancelliere, esaminati gli atti processuali, accertata la regolarità del procedimento, in data 19 giugno 1839, rigettò il ricorso, confermando la pena capitale inflitta a Don Felice de Antonellis dalla Gran Corte Criminale del Principato Ulteriore.
Uccise volontariamente Don Felice de Antonellis la moglie Donna Angiolina de Rosa? Se così fu, quale era stato il movente che aveva armato la mano omicida?
Nel corso del dibattimento, era emerso un elemento che se non fosse stato sottovalutato avrebbe potuto gettare nuova luce sulla intricata vicenda. Una donna, interrogata dal Prefetto di polizia di Napoli, aveva dichiarato di aver ascoltato, mentre era impegnata nelle faccende domestiche in casa di Don Felice de Antonellis in via Materdei, una conversazione fra questi, affacciato alla finestra, ed un giovane che era sul balcone dell'appartamento contiguo. A suo dire, il giovane aveva avanzato insinuazioni ... per dissuaderlo dalle nozze con Angiolina de Rosa, e piantargli perfidamente nel cuore de' dubbi intorno alla onestà di lei . Il giovane, interpellato in merito dalle autorità inquirenti, aveva smentito la donna che, a sua volta, non aveva confermato la dichiarazione precedentemente resa.
Aveva mentito la donna? In via Materdei, per essere note alcune verità, nessuno dubitò della sua sincerità. Si disse che, da tempo, il giovane che occupava l'appartamento accanto a quello di Don Felice de Antonellis era segretamente innamorato di Donna Angiolina, anche se non aveva mai osato esternarle i propri sentimenti, consapevole di essere di condizione sociale inferiore a quella di lei; si disse che lo stesso, pressato dalla sua delirante passione, approfittando dell'ingenuità di una giovane domestica di casa de Rosa, aveva carpito riservate informazioni sul conto di Donna Angiolina, quale la presenza di un vistoso neo in una parte intima del corpo; si disse che, roso dalla gelosia, aveva cercato di istillare nel rivale dubbi sulla onorabilità della donna, affinché desistesse dal suo corteggiamento; si disse che, agli inizi di dicembre, nell'imminenza delle nozze, in un estremo, disperato tentativo di impedire che Don Felice de Antonellis impalmasse Angiolina, gli avesse rivelato il particolare del neo, sottintendendone una conoscenza diretta.
Ed ecco spiegato l'improvviso stato depressivo in cui Don Felice de Antonellis era caduto in dicembre; ecco spiegato, lacerato dal dubbio, il suo costante malumore; ecco spiegato il tentativo di rinviare la data delle nozze, combattuto fra l'amore travolgente che nutriva per la donna ed il sospetto che non ne fosse degna; ecco spiegata la cerimonia nuziale improntata a frugalità e segretezza, nella illusoria convinzione di poter tacitare, nella furtività del rito, il proprio tormento; ecco spiegata, scaturita dal terrore di riscontrare impressa sul corpo della donna amata la prova della sua irrispettabilità, la rinuncia ad onorare la prima notte di matrimonio; ecco spiegata l'astiosa irritabilità seguita alla notte successiva, in cui il ritrovamento del neo gli aveva dato consapevolezza di aver impresso un indelebile marchio di infamia sul proprio onore.
E gli era divenuta insopportabile la presenza della giovane sposa, della di lei famiglia, e via Materdei, e la città intera, parendogli che tutti lo additassero, lo deridessero.
Da qui l'improvvisa decisione di allontanarsi, di fuggire, di rifugiarsi a Paterno dove tutto gli era familiare, rassicurante, amichevole. Ma la vista della propria famiglia, fiduciosa, serena, rispettabile, anziché alleviare la sua pena, aveva acuito il rimorso per l'onta con cui ne aveva offuscato l'onorabilità. Inutilmente, la mattina del 14 febbraio aveva cercato di reprimere il proprio turbamento, collaborando nella preparazione di una torta; inutilmente, durante il pranzo, aveva tentato di soffocare il risentimento, ricorrendo ad amorevoli attenzioni. Ossessive, di continuo gli erano tornate alla mente le pistole mostrategli dal fratello, e all'improvviso aveva compreso che esse costituivano l'unica soluzione possibile per ritrovare la propria serenità, per lavare la macchia, per cancellare, insieme con chi ne era responsabile, il disonore che aveva gettato sulla famiglia.
Confuso, allucinato, quasi un automa, si era levato da tavola, svuotato di volontà, soggiogato ad un impulso ineluttabile, e l'esplosione, imperiosa, si era abbattuta sulla conversazione satolla, soffocandola sotto una coltre di stupore, di rabbia, di angoscia.
Da via Materdei, la sconcertante verità si diffuse nella città. Portata dalle domestiche, conquistò i salotti bene. Giunse al re.
Ferdinando II, che con il resto del Regno aveva condiviso interesse ed emozione per l'intera vicenda, volle riparare al giudizio severo di una giustizia disattenta, commutando, con proprio decreto del 26 agosto 1839, la pena capitale in ergastolo.
Dopo anni di detenzione, scarcerato, Don Felice de Antonellis si ritirò in Paterno, relegandosi in un volontario isolamento. Ricusato dalla famiglia, tormentato dal rimorso, vittima e carnefice, cessò di vivere, nella solitudine della propria abitazione in via della Chiesa, alle cinque del pomeriggio del 14 dicembre 1879.