di Antonino Salerno
La peste che aveva imperversato nell'anno 1656 aveva comportato in Irpinia profondi sconvolgimenti economici e sociali. Al pari degli altri centri rurali, un tempo fiorenti e proiettati verso un futuro di sviluppo e di benessere, Paterno, in conseguenza della peste del 1656 lo si fu desolato e gli undici casali furono ridotti ad uno solo fra la cinta delle mura del castello .
In questo vetusto borgo, a distanza di quindici anni, le ferite non erano ancora del tutto rimarginate. Stentava l'agricoltura per l'insufficienza di braccia da impiegare nel lavoro dei campi, languivano i commerci per l'impraticabilità delle strade a lungo lasciate prive di manutenzione, regnava l'insicurezza a causa delle numerose bande di malavitosi che infestavano il territorio, godendo di connivenze e di protezione dettate, più che da oscuri interessi, dal timore di ritorsioni o di vendette. Negli anni immediatamente successivi al dilagare del morbo, aveva insanguinato l'Irpinia il bandito Giovanni Cola de Lise e, sulla strada per la Puglia, fra Paterno e Lioni, aveva compiuto scorrerie il francescano fra' Antonio, di Sant'Angelo dei Lombardi, che aveva avuto il suo covo nei pressi del Goleto.
Ne era conseguita una diffusa miseria fra le classi meno abbienti, da cui però non erano indenni gli stessi proprietari terrieri che lamentavano penuria di denaro in quanto i latifondi, per la maggior parte inselvatichiti, restavano incolti.
Operava in questo contesto, dal 1669, uno dei più spietati banditi che avessero mai flagellato le contrade d'Irpinia e che si era reso responsabile di efferati delitti: l'abate di Cimitile, Cesare Riccardi, datosi alla macchia per aver ucciso il nobile Alessandro Mastrilli.
Il suo campo d'azione spaziava fra la pianura Campana e l'Irpinia, forte di una nutrita schiera di malviventi e supportato da protezioni altolocate. Infatti, sul finire del maggio 1671, fu arrestato, a Forino, il medico Pietro Perrotta che aveva curato una ferita dell'abate, ed il 28 settembre fu messo agli arresti domiciliari il principe di Forino, con l'accusa di averne favorito l'attività criminale.
La caccia a cui il bandito era sottoposto da parte delle autorità di governo non si concedeva tregua. Sul finire del mese di settembre, don Carlo Brancacci, funzionario della Prefettura di Montefusco, dopo aver reclutato massa di molta gente, si recò a Salza dove, in casa Capuozzi, trasse in arresto due elementi della banda Riccardi, et furono condotti carcerati in Avellino assieme con li suddetti Capuozzi e tutta la gente di casa ... e doppo quattro giorni furono appiccati. Ed ancora, il 10 ottobre 1671, furono portate a Napoli due teste di banditi recise .
Nonostante le perdite quotidianamente inflitte alla banda, la tracotanze del brigante non accennava a diminuire, anzi sembrava lo stimolassero ad intraprendere azioni sempre più temerarie. Fu così che lunedì mattina 12 detto (12 ottobre 1671) fu portata un'altra testa, et venne pubblicato, che il medesimo abbate Cesare, unito con altri capi banditi, si fosse nella passata settimana portato a saccheggiare Paterno, dove fece grosso bottino, oltre diversi ricatti presi, da quali pretende grosse taglie .
L'atto criminoso fu consumato in sul calar della sera, allorché nella Chiesa Madre di Paternopoli erano raccolti i fedeli per la funzione vespertina. Così lo ricorda la famiglia di Martino: Il famoso capo de' Banditi Abbate Cesare Riccardo con altri capi, e compagni assalirono la T.ra (Terra) di Paterno di Prin.to (Principato) Ultra, e dentro la Chiesa sequestrarono, e presero p. (per) ricatti due figli del B. (Barone) Filippo di Martino, il mag.co (magnifico) Oto di Mattia, il Mag.co (Magnifico) Scipione Stefanellis .
In realtà, l'estensore del documento commise un errore nell'attribuire a Filippo di Martino la paternità dei due rapiti. In effetti, solo Giuseppe era figlio di Filippo, mentre Gaetano lo era di suo fratello Alessandro.
Comunque, seguirono giorni di comprensibile apprensione e di febbrili ricerche di autorevoli intermediari per stabilire contatti con i rapitori. Alfine, furono incaricati della mediazione per il pagamento dei riscatti l'Abbate della Terra di Montefuscoli, e fra' Ruffino cappuccino, mediante licenza del Regio Collaterale, e di Monsig.re (Monsignore) Nunzio. Il riscatto delli Martini fù conchiuso in più migliara, e p. (per) il riscatto delli Mattia, e Stefanellis restavano da compirsi altri docati trecento di residuo, cioè cento cinquanta docati p. (per) uno e p.che (poiché) questi non l'havevano, né poteano procurarli ad impronto o altro p.che (perché) haveano sequestrati (perché erano sequestrati, cioè tuttora in mano dei banditi), fù dalle loro mogli priegato il sud.o (suddetto) D. Filippo, e D. Alessandro di Martino che dovendono ancor essi da procurar denaro a impronto, o cenzo p. (per) riscatto de loro figli, lo procurassero ancora p. (per) di loro mariti .
Ad integrazione delle proprie disponibilità pecuniarie, al fine di costituire le somme concordate per il pagamento dei riscatti, Filippo ed Alessandro di Martino si rivolsero a Paulo e Matteo Muscato della T.ra (Terra) di Serino, ottenendone un prestito di docati mille trecento venti, di cui trecento per conto di Oto de Mattia e di Scipione Stefanellis, al tasso di interesse del 7%, pari a 92 ducati annui. Procurato il denaro p. (per) tutti li sequestrati, e pagato che fù alli banditi furono li suoi sequestrati p. (per) ricatto liberati.
A capo di alcuni mesi li sud.i (suddetti) Martini fecero per chiedere alli sud.i (suddetti) Mattia, e Stefanellis che procurassero il denaro del loro riscatto da essi prestateli mentre essi ne portavano il peso, et interessi con chi glie lo haveva dato a cenzo.
Doppo menateli p. (per) qualche tempo di buone parole e vedendo li Martini che essi Mattia, e Stefanellis non venivano a capo di sodisfarli li suoi docati trecento, furono forzati costringerli nella G. C. della Vic.a (Gran Corte della Vicaria) .
Il 3 agosto 1672, presso Matera, probabilmente in uno scontro a fuoco, perse la vita l'abate Cesare Riccardi. La sua testa fu attesa a Napoli con trepidazione e curiosità. Si vidde alla fine comparire sabbato 13 detto portata su la punta d'un palo, et accompagnata da 60 soldati di campagna tutti a cavallo, e con due trombetti avanti, andando anche con essa, ligato ad una bestiola un suo fido compagno, chiamato Pietro de Petrillo, preso vivo dall'istessa gente di Corte, qual testa, e compagno doppo essersi portati a pubblica vista per tutta la città, fu quella posta dentro una gabbia di ferro in un torrione fuor Porta Capuana .
La morte del famigerato bandito non servì a tranquillizzare gli animi. Gli uomini che ne avevano costituito il seguito non tardarono ad organizzarsi in bande sguinzagliate in razzie per le contrade irpine. Ne era terrorizzato Filippo di Martino, segnato profondamente dal sequestro del figlio, al punto che non osava più uscire di casa. Così, fervente cattolico, sorgendo la propria abitazione a ridosso della Chiesa Madre, il 17 agosto 1673, si risolse ad avanzare all'arciprete una singolare richiesta. A giustificazione della propria istanza, egli premetteva: Come per il continuo timore delli Banditi da quali gli anni passati ha ricevuto tanta rovina, come è a tutti notorio, e che hora più che mai in maggior numero e con più libertà scorrono questo paese, non senza sospetti di qualche altra novità, come ne viene minacciato, è costretto esso a restare in privato dentro sua casa senza potere andare in Chiesa per vedere la S. Messa. Ciò lo costringeva con sua famiglia ascoltare la Messa dalla finestra della Cappella del Santissimo Sacramento, finestra che affacciava sul cortile della propria abitazione. Tuttavia, nella cattiva stagione veniva a trovarsi esposto al freddo ed alla pioggia, per cui gli è necessario scendere (nel senso di prolungare) il tetto della Chiesa verso il suo cortiglio (cortile), d'appoggiarci una pannata per difenderli dalla pioggia, per la quale causa, coprimento, et appoggio non si cagiona danno né pregiudizio alcuno alla Chiesa, e Cappella, tanto più che stessa parte dell'acqua del tetto d'essa Chiesa, e Cappella, nel medesimo luogo scorre sopra una camera scoverta (terrazzino), e cortiglio detto .
Intanto, la Gran Corte della Vicaria si era espressa favorevolmente alla richiesta dei fratelli di Martino ed aveva imposto ai debitori Oto di Mattia e Scipione Stefanellis di trovare un'adeguata soluzione al problema.
Così, in quello stesso anno 1673, fù determinato che detti Mattia, e Stefanellis, havessero pagato li cento cinquanta docati p. (per) uno alli Martini, et altri docati cinque p. (per) uno p. (per) le spese, et interventi di liti, et in esecuz.ne (esecuzione) di ciò ne stipularono strumenti, et preciso il mag.co (magnifico) Scipione Stefanellis, il quale più dell'altro discolpava (si mostrava non propenso a saldare il proprio debito), venne a convenz.ne (convenzione) con d.i (detti) di Martino, che p. (per) non havere il d.o (detto) denaro pronto fé assegnamento di una taverna vechia, et un altro cellaro, e due orticelli li quali stabbili s'havessero avuto à riceverli, e tenerli ad gaudendo p. (per) insino alla sodisfazione delli sud.i (suddetti) ducati cento cinquanta cinque, e di ciò ne fù stipulato Strumento Publico p. (per) mano di N: (Notar) Pietro Sabbatino di Castel de Frangi .
Per effetto di tale accordo, si concedeva ai de Martino, fino all'estinzione del debito da parte di Scipione Stefanellis, il diritto di godere dei redditi derivanti da un orto nel luogo d.o (detto) la fontana delli Guannuni (l'estensore ignora l'effettiva denominazione della fontana che era detta "delli Gautuni", cioè dei vasconi); un altro orto di mezzo tomolo inc.a (incirca) nel luogo d.o (detto) sotto la Porta; una taverna di diversi membri soprani nel luogo d.o (detto) Santo Iacovo alle Taverne con un orto contiguo olivato d'un mog.o (moggio) inc.a (incirca): un cellaro sottano, seu grotta in d.o (detto) luogo .
In particolare, si specificava che la manutenzione straordinaria della taverna dovesse gravare su Scipione Stefanellis, mentre dei soli piccoli interventi ordinari dovessero farsi carico i de Martino.
Indugiava, dal canto suo, Oto di Mattia a dar seguito al disposto della Gran Corte della Vicaria, per cui i di Martino, al fine di tutelare i propri interessi, si attivarono per acquisire testimonianze di cui avvalersi in eventuali future controversie. Invitato, a tal fine, Giuseppe Pelosi di Paterno, il 23 gennaio 1674, pur non mancando di farsi interprete delle maldicenze popolari, rese la seguente dichiarazione: Il sig. Oto de Mattia e Scipione Stefanelli arrestati dal capo de banniti Abate Cesare se ne ritornarono nella loro casa senza aver pagato denaro alcuno, e di più che, poi venuti in Paterno furono costretti li detti Oto, e Scipione a pagare la di loro rata del ricatto con lettere di Abate Cesare, e di più che due Cappuccini di tal denaro di ricatto di Oto, e di Scipione se ne volevano approfittare per le loro fatiche fatte nell'accomodo del ricatto .
Fu il 16 settembre 1674 che Oto di Mattia si risolse a riconoscere il proprio debito nei confronti di Alessandro di Martino, mediante la stipula di un istrom.to (strumento) trascritto in pergameno p. m.o (per mano) del N. (Notaio) Francesco Ant.o Zaccaria della Terra di Gesualdo in cui si legge, che il sud.o (suddetto) D. Oto asserì essere debitore del d.o (detto) D. Alessandro di Martino della somma di doc. (ducati) 150, che lo stesso D: Alessandro asserì averli pagati p. (per) l'enunciato D. Oto p. m.o (per mano) di un Sacerdote Secolare seu un Religioso Cappuccino chiamato fra' Ruffino di Napoli Fratello di d.o (detto) D. Alessandro al capo de Banniti Abbate Cesare Riccardi p. ricattare (per riscattare) esso D. Oto dalle mani del Med.o (medesimo), e promise pagarceli fra un anno, e fra tanto corrisponderli l'interesse del 7 p. 100 .
Alessandro di Martino, padre di Gaetano, morì il 19 novembre 1682. Non avendo, in vita, onorato il debito contratto con i Muscato, né corrisposto loro gli interessi pattuiti, del tutto avrebbero dovuto farsi carico gli eredi, i quali, però, rimasero sordi ad ogni sollecitazione. Sicché, Die 23 ms Iulij 1689 (il giorno 23 del mese di luglio 1869) ... nella Gne (Grande) Corte della Vicaria comparono li DD. Paulo e Matteo Muscato della T.ra (Terra) di Serino, ove chiedono p. magg. (per maggiore) cautela verificare ... in chiarezza di prove, e similmente dovendono conseg.re (conseguire) dall'heredi, e possess.i (possessori) delli beni di d.i qq.m prin.li oblig.i deb.i (detti defunti principali obbligati debitori) docati seicento cinquanta tre ..., cio è d.o D.r (detto Dottor) Paulo docati duecento ottante, et esso D.r Matteo docati quattrocento sessantasei e trì (tarì) uno p. (per) causa di 3e (terze = interessi) decorse da d.i (detti) censuali p. (per) sino al mese d'ottobre del caduto anno 1688 . L'ammontare dei due crediti risulta superiore alla somma complessiva indicata, in quanto maggiorato degli interessi maturati dal mese di novembre 1688 a quello di giugno 1689.
Su delega della Gran Corte della Vicaria, il 5 maggio del 1690, nella Corte del stato Serino comparono li Dottori Paulo e Mattia Muscato ed ivi espongono le proprie ragioni, ottenendo il riconoscimento del diritto a riscuotere dai di Martino gli interessi in ragione di annui docati 33 per capitale di docati cinquecento il D.r (Dottor) Paulo Muscato, e di annui docati 59 tarì 2 per capitale di docati ottocentoventi il D.r (Dottor) Matteo Muscato .
Dovevano trascorrere ancora 41 anni perché la questione del riscatto per la liberazione dei sequestrati da parte del bandito Riccardi tornasse di attualità.
Nel frattempo, radicali cambiamenti erano avvenuti in paese. Gli sconvolgimenti tellurici del 1688, prima, e del 1694, poi, vi avevano inferto profonde ferite. Infine, il 14 marzo 1702, un disastroso terremoto aveva colpito Benevento e, in provincia di Avellino, Ariano e Montefusco che furono quasi totalmente distrutti, Mirabella che contò duecento morti, Grottaminarda, Fontanarosa, Castelbaronia, Flumeri e Trevico che riportarono ingenti danni .
Non ne era uscito indenne Paterno, come si rileva da atti notarili redatti nell'anno 1704, in cui si dichiara che beni immobili di proprietà dei di Martino, nel loco dove si dice S. Francesco ... prima erano case abitabili, e coverte, et oggi per li terremoti se ritrovano cascate; ed ancora, delle tante locande site in località Taverne, non restava che quella gestita da Nicola Colasanto, consistente in un cammerone grande, detto lo scarricaturo, con sottani e stalle sotto detto cammerone, con tre altre cammere, e dipiù due altre cammere ... confinano dette case dalla parte anteriore la via publica, dall'altro lato verso occidente le case, seu taverne dirute delli Stefanelli .
Dunque, la locanda data ai di Martino in garanzia per il prestito della somma occorsa per il pagamento del riscatto di Scipione Stefanellis era crollata definitivamente per effetto del sisma del 1702.
Inoltre, in quel lasso di tempo era venuto a mancare Giuseppe di Martino, da cui erano nati Filippo, Alessandro e Marino, ora sotto tutela della loro madre, donna Giuditta Ciampi, in quanto non ancora maggiorenni. Era pure deceduto Scipione Stefanellis, di cui un solo figlio era ancora in vita: Gaetano.
Era, quest'ultimo, un individuo subdolo, aduso alla calunnia, incline alle liti giudiziarie. In molti, il 29 giugno 1742, non avrebbero esitato a definirlo di cervello molto torbido, mantiene di continuo all'Università di questa terra disturbanza procurando per suoi sinistri fini .
Orbene, Gaetano Stefanellis, nel gennaio del 1731, inoltrò istanza alla Gran Corte della Vicaria perché verificasse la congruità delle condizioni dell'accordo intercorso fra il suo defunto genitore Scipione, in relazione al prestito di ducati 150 per il pagamento del proprio riscatto, ed Alessandro di Martino. A sostegno del ricorso, argomentava che li suoi beni assegnati ascendevano al valore di docati mille e più, e che da essi li de Martini ne hanno percepiti la somma di docati trenta l'anno. Pertanto, richiedeva che si procedesse alla valutazione di d.i (detti) stabbili, come anche della quantità di più percepita dai medesimi, et condannarsi li medesimi alli danni, et interessi accagionati.
La notifica alle parti in causa, da parte della Gran Corte, fu effettuata nel mese di marzo del 1731, dando l'opportunità ai de Martino di confutare gli addebiti loro ascritti. Essi chiarirono: Per evacuare la sud.a (suddetta) vana pretenzione del sud.o (suddetto) D. Stefanellis non essere vera la di lui assertione, cioè che dalli beni assegnati a godere se ne siano percepiti docati trenta ogn'anno. Imperoche da tutti li suoi beni stabbili al p.nte (presente) non se ne ricavano se non intorno a docati otto inc.a (incirca), ... hor consideresi ne' sessant'anni à dietro, q.do (quando) appunto si fé d.a (detta) convenzione, che essendo pochi anni p.a (prima) stato il contaggio (il riferimento è alla peste del 1656), pochiss. (pochissime) Genti né sopravvissero in modo che non trovavano chi coltivasse i terreni.
Che dai beni concessi in garanzia da Scipione Stefanellis si ricavassero attualmente solo otto ducati l'anno, i di Martino si dichiararono pronti ad esibire i relativi contratti d'affitto; quanto ai danni lamentati dal ricorrente, non potevano che essere considerati privi di fondamento, dal momento che a fronte di un introito di otto ducati annui, sulla somma di 150 ducati che costituivano il prestito concesso, se ne sarebbero dovuti percepire 10,50, stante l'interesse corrente del 7%.
A u.ma (ultima) il d.o (detto) Stefanellis dar forza alla sua pretenzione col voler rappresentare che frà li beni assegnati a godere vi era una taverna, la quale con tutto che egli non lo sappia, la giudica che fusse di qualche valore, e p.ciò (perciò) l'affitto di questa havesse potuto eccedere la rendita del giusto prezzo del denaro ricevuto. Si replica a ciò che sebbene tal vaso di taverna antica fusse stato di qualche grandezza di un soprano, e di un sottano, di maniera che p: (prima) del contaggio, et in tempo che p. (per) questo Paese si vaticava (= trafficava da parte di vatiche, cioè carovane di muli addette al trasporto di merci) la via, privata o Reggia, e per ciò da essa si poteva ricavare qualche somma di affitto: Però doppo il contaggio, e doppo essersi fatta la via Reggia Nuova , perdé il suo valore la detta taverna, p.che (poiché) non vi albergavano più passeggieri, né vaticari, in modo che un'altra taverna ivi contigua coi essi di Martino assai più fornita di qualità, e di membri molti soprani, e sottani, dal contaggio in poi, non si affittò più che p. (per) docati quattro l'anno, onde dalla taverna del Stefanellis non se né ricavava nemmeno la metà di quella, p.che (poiché) non vi si ci albergava, e non serviva ad altro che ad inchiusura di porci ed a pecore. E p. (per) tale effetto nella cennata convenzione vi fù incluso d.o (detto) luogo di Taverna Antica, p.che (poiché) pochissima cosa da quella se ne poteva ricavare di lucro e ciò si conferma dall'avedutezza, et ottimo giudizio del mag.co (magnifico) Scipione, P.re (Padre) di esso D. Gaetano, il quale se sapeva che d.a (detta) taverna era di qualche maggiore entrade e lucro, non l'havrebbe inclusa con l'altri beni et assegnatala p. (per) vil prezzo d'affitto, e rendita, p.che (poiché) egli non era mica scemo, o di mal giudicio, nemmeno era forzato à darla p. (per) così vil prezzo alli Martini, che si erano presi congionti (a cui si erano apparentati), è che non erano usi a prendersi le cose d'altri p. (per) fame, o vil prezzo. Mà seppure d.a (detta) taverna in tempo di d.a (detta) convenzione fusse stata di qualche rendita, o lucro come la parte dice, lo che si niega, si deve saper che d.a (detta) taverna poco tempo doppo assegnata, ò p. (per) esser vecchia, ò p. (per) altro infortunio se ne cascò, e si dirupò il covertime; et à poco à poco tutte le muraglie, in modo che non poté ella più servire né p. iacenza (per pernottare) né p. (per) altro affare, se non fù poi che da essi Martini conceduto in enfiteusi e a fondo al Sig. Nicola Colasanto, il q.le (quale) fattasi la fatica di nettarlo, e delle pietre fattone un recinto di muro à secco intorno se ne servì p. (per) orticello con pagarne carlini sei ò quattro l'anno.
A Gaetano Stefanellis, che imputava loro la colpa di non aver mantenuta d.a (detta) taverna nel suo stato primiero, i di Martino controbatterono: Ma egli si incanna del grosso. Se havesse egli ben letto è considerato l'istrumento di d.a (detta) convenzione, q.le (quale) dice egli havere presentato in Vicaria, non direbbe così. L'effetto della cadenza della taverna non mica è pervenuto da essi di Martino, p.che (poiché) essi non sono andati con piconi à farla sfabricare, né deve supponersi in ciò altro loro difetto p.che (poiché) stando la taverna in piede sarebbe stata di qualche loro lucro: Nemmeno si potrebbe imputare à altri p. co.a (per colpa) taverna fosse cascata ò p. (per) vecchiaia, ò p. (per) franamento, ò p. (per) altra causa sopranaturale, p.che (poiché) à ciò essi non erano tenuti. Mà il difetto devesi imputare al Padre di esso Stefanellis, il quale nella divisata convenzione si obligò che bisognando riparazione necessaria di fabrica a d.a (detta) taverna lo debbia riparare lo d.o Sig.r (detto Signor) Scipione, e bisognando di qualche riparazione di mangiatora, o altro di poca considerazione, sia tenuto d.o (detto) D. Alessandro di Martino rifarla a sue spese. Se la taverna è cascata p. (per) difetto di reparazione alla mangiatora, ò à qualche pertugio di sorci, dice bene il D. Gaetano: mà se sarà cascata p. (per) altra causa accidentale, ò p. (per) non essere stata riparata, ò rinforzate le mura, ò coprita, ciò anderà à carico et interesse de Stefanellis e p. (per) conseguenza tal interesse provenendo da essi obligati dovrà p. (per) tutta Giustizia rifarsi a d.i (detti) di Martino, q.li p. (quali per) non haver havuta la taverna concia, e riparata, non ne hanno potuto ricavare frutto, o lucro veruno. E questo sarà l'interesse à danno che p. (per) ironia intenne e dice esso D. Gaetano esser il suo appropriato p. (per) li Martini. Onde non basterà al Sig. Stefanellis il far deposito delli doc. (ducati) 155, p.che q.li fossi (perché quelli fossero) non saranno sufficienti nemmeno p. (per) il solo interesse patito dalli Martini p. (per) non haver havuto l'uso della taverna, non che p. (per) la restituzione del loro denaro p. b. (per il bandito) Cesare .
Su delega della Gran Corte della Vicaria, il dibattimento fu trasferito nella Corte di Paterno, ove ebbe corso nell'anno 1741.
Qui, Gaetano Stefanellis ribadì le proprie ragioni, sostenendo che il reddito sui suoi beni, dal 1673 al 1700, aveva fruttato ai di Martino la somma di docati 576, e gra. (grana) 50: Ma poi essendo cresciuta la rendita dei medesimi in annui docati 45 e mezzo dal 1700 per sino al 1741 li frutti de medesimi erano ascesi alla somma di docati 1800.
Di conseguenza, lo Stefanellis riconosceva come proprio debito l'interesse del 7% sul prestito di 155 ducati, pari a ducati 237,80 che, sommati ai 155 ottenuti dal genitore per il pagamento del proprio riscatto, ammontavano ad un debito complessivo di ducati 392,80, ma nel contempo rivendicava il proprio diritto a percepire la differenza pari a ducati 1.407,20.
Lo stesso precisò, inoltre, che la taverna data a garanzia ai di Martino era all'epoca intatta, che non necessitava di alcuna riparazione e che fosse stata demolita per venderne il materiale.
Ascoltato come testimone, Carmine della Sezza dichiarò che la detta taverna ebbe di reparazione bisogno, come tutte le case e che, essendo stato fuori di Paterno per alcuni anni, al suo ritorno ritrovò d.a (detta) taverna caduta per la metà, che la parte restante fu abbattuta dai di Martino e che le pietre furono utilizzate per proprie necessità da Carmine Modestino, affittuario del luogo. Specificò, infine, che ciò era avvenuto circa 60 anni addietro .
Carmine Tono, altro testimone, riferì che la taverna era stata da sempre inabitabile, che molti imbrici furono trasportati in Poppano per ordine dei d.i (detti) Sig. di Martino, e che rispetto alli travi li medesimi richiesti alli d.i S.ri (detti Signori) di Martino dal R.do (Reverendo) D. Giuseppe Braccio gli furono negati, dicendo esser dei Stefanelli, e poi furono brugiati da alcuni Huomini, che vennero a far il salanitro nella T.ra (Terra) di Paterno.
Concluse, il teste, che delle pietre si à fatto uso da più persone per fabbricarne proprie case .
Gli stessi testimoni citati da Gaetano Stefanellis concordarono sul fatto che la taverna era vecchia, e che cadde dal terremoto. Inoltre, Domenico Zollo esaminato anche dal d.o (detto) Stefanelli confessa ch'avendo tenuto esso in affitto l'orto d.o (detto) alla fontana delli Gautuni [che sarebbe il corpo più fruttifero fra gli altri] ne abbia pagato carlini 20 l'anno.
Interrogati Giuseppe Lizio e Vincenzo Zoina, testimoni convocati su richiesta dei di Martino, confermarono che la taverna per esser vecchia pochi anni doppo se ne cascò, e che fù per causa del terremoto ... da 50 anni circa la d.a (detta) taverna non rese cosa veruna, e che poi il suolo della medesima fù ridotto a coltura e se ne paga piccola somma a d.i (detti) di Martino .
La sentenza, emessa in quell'anno 1741 dalla Corte di Paterno, riconobbe in pieno le ragioni degli eredi di Martino, per cui, Gaetano Stefanellis, nel 1755, restituì loro i 155 ducati ottenuti in prestito dal proprio genitore Scipione, rientrando in possesso dei beni concessi in garanzia.
La controversia relativa alla restituzione di quanto pagato a titolo di riscatto all'abate Cesare Riccardi era, però, destinata ad avere un prosieguo. Se ne fece promotore, nell'ottobre del 1761, Filippo di Martino, primogenito del defunto Giuseppe e coerede dello zio Alessandro, allorché mosse causa, presso la Suprema Reale Corte, a Nicola, Gaetano, Camillo e Michele di Mattia, quali eredi dell'ormai defunto Oto, imputando loro un debito mai onorato di 150 ducati, contratto per il pagamento del riscatto del loro avo, maggiorato dell'importo di ducati 929,50 per interessi maturati dal 16 settembre 1674 al 16 settembre 1761, nonché di ulteriori ducati 31,50 per gli interessi dovuti per i tre anni precedenti (1671 – 1674) la stipula dell'impegnativa.
Dopo attenta valutazione, la Suprema Reale Corte si pronunciò per il respingimento dell'istanza, esponendone le ragioni in quattro punti.
1) Non procedersi ad atto alcuno se non sarà da d.o (detto) D. Filippo legittimata la sua persona di spettare à solo l'enunciato credito, dal momento che parimenti risultavano eredi di Alessandro di Martino D. Alessandro Juniore, D. Marino e D. Chiara di Martino ... e p. (per) essere tutti viventi devono sentirsi nel presente Giudizio;
2) Onde evitare la nullità di ogni atto, era indispensabile coinvolgere nel procedimento li RR. (Reverendi) D. Ciriaco, e D. Tommaso di Mattia, nonché D. Delia, e D. Marianna di Mattia, e R.ndo (Reverendo) D. Paolo, e D. Gio: Batta (Giovanbattista) Bracci figli di D. Rosa di Mattia tutti discendenti, ed eredi del d.o (detto) fù D. Oto;
3) In luogo della copia sottoposta all'attenzione della Corte, Filippo di Martino avrebbe dovuto esibire il documento originale, redatto nel 1674 dal notaio Francesco Antonio Zaccaria, poicche è publica voce, e fama, che nel margine di quello istromento trovasi notata, o la sodisfazione, o altro riscontro d'onde apparisca la non verità, ed insussistenza di d.o (detto) preteso credito;
4) L'ammontare degli interessi, nella misura indicata dal querelante, non poteva essere considerata equa, in quanto non si era tenuto conto dei redditi prodotti da alcuni terreni concessi, a garanzia del prestito, da Oto di Mattia ad Alessandro di Martino .
Si concludeva così, a distanza di 90 anni, la complessa questione dei riscatti pagati al bandito Cesare Riccardi, iniziata in una tragica sera dell'ottobre 1671.