In un paese che aspiri ad essere civile, la sicurezza sul lavoro dovrebbe essere anteposta ad ogni altro tipo di emergenza. Invece, le norme introdotte recentemente in materia di "sicurezza" si riferiscono ad altri ambiti della vita quotidiana, essendo evidentemente percepiti come urgenti dal legislatore. Mi riferisco alla legge recante "Disposizioni in materia di pubblica sicurezza", meglio noto come "pacchetto sulla sicurezza". Il decreto ha suscitato aspre polemiche ed è stato promulgato il 15 luglio scorso, non senza riserve, dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Il quale, come si legge sul link http://www.corriere.it/politica/09_luglio_15/napolitano_promulga_legge_sicurezza_con_preoccupazione_e9a9e7d4-714a-11de-b1fb-00144f02aabc.shtml, "ha inviato una lettera al presidente del Consiglio e ai ministri dell'Interno e della Giustizia (e per conoscenza ai presidenti di Camera e Senato) in cui esprime «forti perplessità e preoccupazioni» sul provvedimento, in particolare sul reato di clandestinità e sulle ronde".
Quindi, l'emergenza della sicurezza sul lavoro sembra passata in secondo piano, dopo essere stata alla ribalta in seguito ai gravi episodi accaduti alla ThyssenKrupp di Torino, allo stabilimento di Mineo, in provincia di Catania, e nella cisterna di Molfetta. Eppure, sui luoghi di lavoro si muore ogni giorno. Il macabro bilancio richiede aggiornamenti continui. Stando ai dati definitivi forniti dall'INAIL (Istituto Nazionale per l'Assicurazione contro gli Infortuni sul Lavoro - www.inail.it) nel 2008 i decessi sui posti di lavoro sono stati 1.120, nel 2007 sono stati 1.207 rispetto ai 1.341 dell'anno precedente. "Si tratta di numeri stimati ma attendibili e semmai approssimati per difetto": http://www.inail.it/Portale/appmanager/portale/desktop?_nfpb=true&_pageLabel=PAGE_SALASTAMPA&nextPage=News_prima_pagina/2008/INAIL/info-1705450248.jsp.
Il lavoro manuale, costituito dalle mansioni esercitate nelle fabbriche, nelle officine, nei cantieri, sulle strade, nei campi, il lavoro svolto da sempre nei luoghi della produzione materiale, è ormai un "lavoro ad alto rischio". Infatti, l'impressionante bilancio delle "morti bianche" è un bollettino di guerra. Si calcola che nel mondo gli infortuni mortali sul lavoro, mi riferisco a quelli ufficialmente registrati, superano in modo inquietante le cifre dei decessi causati dal conflitto bellico in Iraq e dalle guerre in generale: http://www.inail.it/Portale/appmanager/portale/desktop?_nfpb=true&_pageLabel=PAGE_SALASTAMPA&nextPage=News_prima_pagina/2008/Infortuni/info-598367173.jsp.
Se non bastasse l'evidenza, ci sono sempre le varie statistiche a confermare che nei luoghi di lavoro è in corso un vero stillicidio. Le stime dell'Inail rivelano che le "morti bianche" riprendono ad aumentare, segnalando una recrudescenza del fenomeno. Così come continua a salire il numero degli incidenti non mortali. In Italia, ogni anno - rivela l'Associazione nazionale mutilati e invalidi sul lavoro - si conta all'incirca un milione di infortuni; di questi, oltre 30mila procurano invalidità permanenti. Questi sono solo alcuni dati. Ma le "morti bianche", al di là delle circostanze casuali riconducibili a "tragiche fatalità", recano quasi sempre precise responsabilità umane, in quanto esiste sempre qualcuno che non ha fatto tutto il possibile e il suo dovere per evitare quella morte o quell'incidente, una responsabilità precisa che andrebbe ricercata e perseguita.
In breve, le stragi sul lavoro possono essere collegate ai seguenti ordini di causalità: anzitutto i costi e la logica del profitto economico e del mercato, l'inasprimento delle condizioni di sfruttamento del lavoro in fabbrica e l'incremento del lavoro straordinario. In altre parole, la causa prima è la crescente precarizzazione delle condizioni di sicurezza, anzitutto ambientale, dei lavoratori. Invece, nell'agenda politica del governo la drammatica emergenza della sicurezza sui luoghi di lavoro è stata scalzata da altre priorità come la questione della sicurezza urbana e sociale, collegata strumentalmente al fenomeno dell'immigrazione "clandestina".
Lucio Garofalo