Negli ultimi mesi, in seguito al ritorno della cosiddetta "emergenza" (ormai permanente) dei rifiuti, nell'immaginario collettivo si è determinata una sorta di "maledizione", si è sviluppata una rappresentazione negativa che ha contribuito ad infamare e bollare il popolo partenopeo agli occhi dell'opinione pubblica nazionale ed internazionale come una plebe corrotta e malvagia: "brutti, sporchi e cattivi". Tanto per citare un esempio banale, in alcuni articoli apparsi su vari giornali e blog presenti su Internet, ho avuto modo di intercettare una forma di astio e di razzismo latente contro i Napoletani, un sentimento di biasimo e disprezzo che serpeggia anche in ambienti considerati "colti". Addirittura sembra aver preso piede un'assurda e deprecabile forma di autorazzismo dei meridionali verso le popolazioni campane e di una parte dei cittadini campani verso i Napoletani. Una situazione inquietante e controversa, che potrebbe provocare una pericolosa deriva che sarebbe opportuno prevenire e scongiurare in tempo, per evitare che degeneri completamente.
Personalmente, vorrei invitare ad usare una maggiore cautela prima di esprimere giudizi eccessivamente avventati e perentori che potrebbero scivolare facilmente nel razzismo più becero e sinistro. Nella fattispecie particolare mi riferisco ad una sorta di spirale autorazzista che potrebbe generare implicazioni perverse e conflittuali, difficili da gestire in modo razionale.
Non si può stigmatizzare e screditare, o addirittura detestare e maledire un intero popolo per quelli che sono le sue consuetudini e le sue caratteristiche di tipo storico e antropologico-culturale. A tale proposito esorterei a leggere gli studi di antropologia culturale di Claude Lévi-Strauss. Da cui bisognerebbe imparare un approccio possibilmente storico-relativistico rispetto agli usi e costumi di popoli distanti ed estranei rispetto al nostro modo di vivere e di pensare, senza scadere in facili ed ignobili pregiudizi moralistici, derivanti da una presunta superiorità etico-spirituale, intellettuale, o addirittura etnica e "razziale", della cosiddetta civiltà occidentale.
Non si può condannare e criminalizzare moralmente una popolazione ritenuta "primitiva" se questa pratica, ad esempio, riti pagani, sacrifici umani o il cannibalismo, per quanto tali comportamenti possano risultare abominevoli e ripugnanti ai nostri occhi. Così come non si può demonizzare e perseguitare il popolo Rom per le sue ataviche tendenze e disposizioni all'elemosina o al furto. Malgrado tali attitudini ci appaiano profondamente riprovevoli e detestabili, o addirittura perseguibili penalmente.
I nostri codici di valutazione e di comportamento, etico, civile e penale, non coincidono necessariamente con gli schemi e i parametri valoriali assunti da altri popoli ed altre culture. Ciò che per noi può rappresentare un "peccato" o una colpa esecrabile, o addirittura un reato da punire severamente, per altri popoli può essere un atto normale e naturale.
Se noi vogliamo considerarci e proclamarci "civili", "progrediti" e "tolleranti", dobbiamo dimostrarlo non a chiacchiere, ma nella sostanza degli atteggiamenti e dei gesti concreti, ponendoci anzitutto in modo corretto di fronte alle differenze antropologico-culturali.
Le usanze e le tradizioni culturali, morali e sociali di un popolo sono difficili da modificare. I processi di mutamento innescati sul terreno antropologico-culturale possono essere lenti, difficili e complessi, ed esigono tempi di svolgimento estremamente lunghi.
Tuttavia, mi risulta che le popolazioni napoletane, specialmente le giovani generazioni, stanno provando a cambiare radicalmente le insane abitudini "plebee" di cui sono tacciate. Durante l'ultima puntata di "Anno Zero", trasmessa lo scorso 5 giugno, ho ascoltato la preziosa testimonianza di un ragazzo di Chiaiano che spiegava come gruppi di giovani napoletani si fossero autonomamente organizzati per effettuare la raccolta differenziata, ma sono impossibilitati ad attuare le loro buone intenzioni in quanto gli amministratori locali hanno "le mani legate", così come hanno ammesso gli stessi amministratori. Quali considerazioni si possono trarre da questa situazione?
E' ormai evidente che si è imposta una volontà politica di matrice filo-camorrista, rivolta in una determinata direzione, tesa a privilegiare e tutelare non il bene comune delle popolazioni locali, bensì gli interessi economici privati delle cosche criminali, fiancheggiate da comitati affaristici complici e conniventi e da alcuni esponenti del potere politico ed imprenditoriale.
E' ormai palese che tale "emergenza", che perdura ormai da oltre un decennio, è quanto meno strana e discutibile, direi che si tratta di un'emergenza innescata e pilotata da alcuni centri di potere di origine occulta e senza dubbio criminale, molto probabilmente collusi con alcuni rappresentanti delle istituzioni locali, regionali e nazionali, ma anche (perché escluderlo?) internazionali.
Infatti, le autorità locali sembrano avere proprio le "mani legate" quando si accingono ad applicare soluzioni (inclini ad esempio alla realizzazione di alte percentuali di raccolta differenziata) che non sono gradite al sistema camorrista, in quanto poco funzionali agli scopi dei clan e di altri gruppi affaristici più o meno legalizzati. A cui invece conviene che si adottino altre risposte quali (appunto) le discariche e gli inceneritori, che evidentemente consentono di lucrare e di ottenere ingenti profitti economici. Ed è esattamente la linea politica che si sta cercando di imporre a scapito delle popolazioni campane. Sia con le buone che con le cattive.
Lucio Garofalo