Nel corso dei primi anni ‘80, grazie agli ingenti fondi economici assegnati dal governo per la ricostruzione dei centri terremotati, fu avviato un ambizioso e controverso esperimento, quello dell'industrializzazione delle aree interne di montagna. Si decise di trasferire le fabbriche (le stesse installate, ad es. nella pianura padana) in zone di montagna, in territori aspri e tortuosi, difficilmente raggiungibili, in cui non esisteva ancora una rete moderna di infrastrutture stradali, trasporti e comunicazioni, in cui i primi soccorsi legati all'emergenza post-sismica stentarono ad arrivare a destinazione. Un'impresa velleitaria, se non impossibile, senza dubbio perdente dalla nascita. E non poteva essere altrimenti, dati i presupposti. Abbiamo patito un processo di sottosviluppo che ha rivelato la propria natura regressiva arrecando guasti irreparabili all'ambiente, al territorio e all'economia locale, prettamente agricola e artigianale. Basta farsi un giro in Irpinia per scoprire un paesaggio sfigurato per sempre.
Si trattava di un tentativo di industrializzazione e modernizzazione economica legato alla trasformazione post-industriale delle economie capitalisticamente più avanzate del Nord. Questo piano presupponeva il trasferimento di capitali e incentivi statali destinati a finanziare la dislocazione di macchinari ed attrezzature industriali ormai superate dai processi di ristrutturazione tecnico-produttiva in atto nelle aree capitalistiche più evolute del Nord Italia. Pertanto, quel progetto di (sotto)sviluppo era destinato a fallire sin dal principio, nella misura in cui era stato concepito e gestito con metodi clientelari, favorendo l'insediamento di imprese provenienti dal Nord Italia, senza tutelare le ricchezze, le caratteristiche e le esigenze territoriali, senza tenere nel dovuto conto i bisogni e le richieste del mercato locale, senza promuovere e valorizzare le produzioni e le coltivazioni indigene, sfruttando la manodopera disponibile a basso costo, innescando in tal modo un circolo vizioso e rovinoso, come si è dimostrato alla prova dei fatti.
Sempre negli anni '80 l'Irpinia era la provincia che vantava il primato nazionale degli invalidi civili e dei pensionati, un triste primato soprattutto se si considera che in larga parte si trattava di falsi invalidi, in grado di guidare automobili, di correre e praticare sport, di scavalcare i sani nelle graduatorie delle assunzioni, di assicurarsi addirittura i posti migliori, di fare rapidamente carriera grazie alle raccomandazioni e ai favori elargiti dai ras politici locali, intermediari del capo, il potente "uomo del monte". Sin dai primi anni '80 la nostra era la provincia in cui si contavano più pensioni Inps che nell'intera regione Lombardia, con la percentuale più alta nel paese. Nelle nostre zone l'Inps era divenuto il maggior erogatore di reddito per migliaia di famiglie. In passato, soprattutto nel corso degli anni ‘80, il 50 per cento della popolazione irpina era formata da invalidi civili, in buona parte giovani con meno di 30 anni. Ciò era possibile grazie a manovre politiche clientelari e all'appoggio decisivo di altre figure e altri pezzi rilevanti di società, a cominciare dai medici e dai servizi sanitari compiacenti, se non complici. Negli anni ‘80 il sistema clientelistico, protezionistico e assistenzialistico in Irpinia era in pratica onnipresente e totalitario, nella misura in cui seguiva e condizionava la vita quotidiana delle persone, devote al santo di Nusco, dalla culla al loculo, a patto di cedere in cambio il proprio voto in ogni circostanza in cui veniva (e viene) richiesto, ossia ad ogni tornata elettorale a livello locale, regionale e nazionale. Ancora oggi sindaci e amministratori dei Comuni irpini sono designati con la benedizione dell'uomo del monte, che fa e disfa la politica a proprio piacimento, costruendo o affossando maggioranze amministrative, indicando persino i nomi dei candidati all'opposizione. Ancora oggi, all'interno del blocco demitiano si riflettono, si risolvono e dissolvono tutte le contraddizioni e i contrasti tipici della dialettica democratica tra governo e opposizione, tra sistema e antisistema, precludendo ogni possibilità di ricambio e mutamento radicale della politica irpina, che non a caso è tuttora sottoposta ai ricatti, alle influenze, ai capricci, ai condizionamenti esercitati dall'uomo del monte.
La rete dell'assistenzialismo era un apparato scientificamente organizzato, volto a garantire la conservazione perpetua di un sistema politico clientelare simile ad una piovra, che con i suoi lunghi e complessi tentacoli si era impadronita della cosa pubblica, occupando in modo permanente la macchina statale, scongiurando ogni rischio di instabilità e di crisi, quindi di cambiamento reale della società irpina. La grande piovra del potere demitiano ha sempre distribuito posti, appalti, subappalti, rendite, prebende, forniture sanitarie, in tutti i paesi della provincia avellinese, favorendo e gestendo un vasto e capillare sistema parassitario composto da decine di migliaia di addetti del pubblico impiego, del ceto medio impiegatizio, di coltivatori diretti, di liberi professionisti, che prima sostenevano la Democrazia cristiana ed oggi appoggiano i suoi eredi, investendo sempre su San Ciriaco, la testa pensante e pelata della piovra tentacolare. Ecco perché tale struttura di potere si è preservata in modo integro sino ad oggi, resistendo ad ogni sussulto, sopravvivendo persino al furioso cataclisma politico giudiziario provocato dalle inchieste di Mani Pulite, mentre altrove si è dissolta sotto i colpi inferti dalla magistratura milanese all'inizio degli anni ‘90.
Negli anni ‘90 abbiamo assistito ad un nuovo processo di trasformazione del sistema economico produttivo, di mutazione antropologica dell'Irpinia. Con l'avvento della globalizzazione neoliberista, contestata ovunque, la società irpina ha subito un'improvvisa accelerazione storica che ha spinto fasce di popolazione, soprattutto giovanile, verso il baratro della disoccupazione, dell'emigrazione, della precarizzazione. Rispetto a tali condizioni, le "devianze giovanili", i suicidi e le nuove forme di dipendenza sono solo i sintomi più inquietanti di un diffuso malessere sociale. L'attuale processo di (sotto)sviluppo ha generato anche mostruosità, veleni e contraddizioni, favorendo atteggiamenti tipici di un filone teatrale classificabile tra la tragedia e la commedia umana, dando origine a nuove sacche di miseria, sfruttamento ed imbarbarimento all'interno di comunità sempre più disumanizzate e disgregate, massificate e omologate a livello etico-spirituale. Tale fenomeno di standardizzazione dei corpi e delle menti è peggiore di ogni forma di totalitarismo precedente, in quanto più subdolo, non apertamente autoritario poiché non si avvale di istituzioni repressive come l'esercito, la polizia, il carcere, ma ricorre soprattutto ai mezzi di comunicazione e persuasione occulta di massa, per cui la sua forza si rivela più efficace e pervasiva. Tale ragionamento vale anche per le comunità irpine, un tempo a misura d'uomo.
Lucio Garofalo