Il concetto di populismo, confuso abitualmente con la demagogia autoritaria e paternalista, gode di una pessima reputazione presso gli ambienti della sinistra radical chic e politically correct, affetta da un viscerale antipopulismo e snobismo intellettuale. Un vizio atavico e incorreggibile che la induce a nutrire un profondo disprezzo nei confronti delle masse popolari, in particolare verso il “popolo profondo”, visto con alterigia e spocchia aristocratica. Tuttavia, il discorso è più ampio, nella misura in cui la categoria del populismo è invisa alle moderne democrazie liberali, le quali ravvisano nel populismo una strategia per riscuotere facili consensi tra le classi ritenute poco colte ed evolute, facendo leva su cliché che garantiscono un immediato riscontro emotivo.
A tale riguardo è giunto il momento di sfatare alcuni luoghi comuni della politica. Una di queste persuasioni è la tesi che qualifica Berlusconi come un “leader populista”. Nulla di più falso e becero. Al di là di stereotipi banali e mistificanti, Berlusconi è solo un populista di comodo. Mi spiego. Se il popolo lo vota e lo sostiene, allora il popolo ha ragione e Berlusconi si spaccia per essere un populista, ma se la gente non lo vota ed osa contestarlo, in tal caso il popolo ha torto, perciò Berlusconi non è un sincero populista.
Il populismo di Berlusconi è dunque capzioso, una menzogna ripetuta ossessivamente e metabolizzata acriticamente come un dato di fatto, che sarebbe il caso di riesaminare per svelare la sua natura opportunistica, cioè uno strumento di propaganda e mistificazione ideologica. Se fosse un autentico populista, Berlusconi dovrebbe riconoscere piena sovranità al popolo in ogni caso, quando lo appoggia e quando lo contesta. Il populismo dovrebbe esprimere rispetto e devozione verso il popolo, un atteggiamento sincero e coerente, non basato su convenienze politiche, né sbandierato in termini di annunci e promesse elettorali menzognere, puntualmente disattese.
Bisogna ribadire che Berlusconi non è un populista, ma un nemico del popolo, un impostore che ha fatto regredire il popolo italiano di oltre 50 anni, lo ha ingannato e impoverito. Invece, altri statisti passati e presenti possono rivendicare i meriti di un populismo declinato nelle forme di un socialismo popolare e antimperialista. Un onesto leader populista ha in mente soprattutto il progresso del popolo. A parte il populismo russo e americano di fine Ottocento, si pensi a personalità di notevole prestigio come Mao Tse-Tung, la guida carismatica di una rivoluzione che ha fatto compiere al popolo cinese un poderoso balzo in avanti di secoli; si pensi a Fidel Castro, che ha beneficiato il suo popolo affrancandolo dalle piaghe secolari della miseria e dall’analfabetismo, al punto che Cuba può vantare gli ospedali e le scuole migliori del continente americano; si pensi a Hugo Chavez, che sta facendo progredire le condizioni del popolo venezuelano.
Insomma, occorre smascherare il populismo ipocrita e parolaio di Berlusconi e contrastarlo su un terreno politico e culturale, proponendo un modello alternativo e speculare insieme, sospinto da un’autentica ispirazione populista. Qui la nozione di populismo va intesa in un’accezione non demagogica, paternalista o sciovinista, bensì in un’ottica gramsciana, cioè nel senso di un blocco popolare avanzato e rinnovatore.
E’ in una prospettiva gramsciana che occorre imboccare la direzione di un populismo nuovo, inteso nella versione di un socialismo popolare che sposi i valori della democrazia partecipativa. Nulla esclude che il populismo possa assumere forme davvero progressiste e democratiche. Per evitare che una simile ipotesi resti sulla carta, è indispensabile una notevole maturità politica e teorica, ma soprattutto occorre che la situazione economica non peggiori. In un quadro di incertezza e precarietà sociale, in cui le istituzioni sono sorde a ogni forma di intervento sociale, la protesta dei movimenti populisti rischia di svilupparsi esaltando le componenti più aggressive e primitive, autoritarie e regressive.
A proposito di pregiudizi da sfatare, vale la pena di soffermarsi su alcuni stereotipi assolutamente banali e fuorvianti che iniziano a circolare per etichettare in modo superficiale la rabbiosa protesta giovanile esplosa nei giorni scorsi. Non c’è dubbio che le ultime manifestazioni studentesche, partecipate in modo massiccio e decisamente pacifico, sono state la migliore risposta proveniente dalla piazza e dagli altri scenari della contestazione, per smentire le infami accuse lanciate dalla solita stampa che aveva già scatenato una furiosa canea sulla presunta identità tra studenti e “potenziali assassini”. Fino a formulare l’irresponsabile equazione: manifestanti = terroristi.
Il tentativo dei mezzi di “distrazione” di massa per distogliere l’opinione pubblica dai nodi cruciali della protesta giovanile, ponendo l’accento sul carattere violento o meno delle manifestazioni, è la conferma dell’ottusa volontà del ceto politico di ignorare le rivendicazioni sollevate dalla piazza per proseguire ostinatamente in un atteggiamento di sterile chiusura autoreferenziale e in una recita di pupi a cui ormai siamo abituati.
E’ giusto ricordare che non ci sono solo le lotte e le istanze espresse dal movimento studentesco in forma spontanea e tumultuosa, ma pure le questioni sociali rappresentate dagli operai, dai migranti, dai precari delle fabbriche, delle scuole e degli altri luoghi dello sfruttamento. Non si tratta solo di un movimento studentesco in quanto le mobilitazioni coinvolgono diversi soggetti sociali: studenti, ricercatori, operai e migranti, uniti da un comune denominatore che è la precarietà economica e sociale. Le nuove agitazioni sociali parlano lo stesso linguaggio, quello della precarietà ontologica.
Emerge un altro luogo comune da confutare: fino a ieri i giovani erano rimproverati di essere “bamboccioni”, inerti e passivi politicamente, ora iniziano a ribellarsi e sono tacciati di essere “potenziali assassini”. Che si mettano d’accordo con il loro cervello. Ma chi sono i veri terroristi? La storia ci insegna che i peggiori furfanti sono coloro che detengono il potere economico, i veri sovversivi sono assorti al governo della nazione.
Il DDL Gelmini sull’università è, tutto sommato, il “casus belli” di una rivolta studentesca che mira a denunciare il dramma della precarizzazione economica e sociale che incombe come una “spada di Damocle” sul futuro delle nuove generazioni. E come si può dar loro torto? Perché biasimare chi rifiuta un destino di sottomissione e precarietà?
Infine, una chiosa critica circa i limiti di questo movimento. Nel ’68 circolava uno slogan che così recitava: “siamo realisti: vogliamo l’impossibile”. Ebbene, questa nuova rivolta non esige l’impossibile, non avanza richieste che potrebbero apparire “velleitarie” in quanto non pretende di realizzare una rivoluzione, ma si limita a rivendicare solo ciò che è possibile nell’immediato: una normale mediazione politica e dialettica, insomma il dialogo. Infatti, basta pensare all’esultanza con cui gli studenti, o una parte di essi, hanno accolto la disponibilità di Napolitano ad ascoltare le loro ragioni, per rendersi conto della diversità sostanziale rispetto al Sessantotto, per cogliere l’enorme distanza che separa questo movimento giovanile rispetto agli anni ’70. Nel bene e nel male.
Lucio Garofalo