Personalmente ho conosciuto la storia di Rita Atria grazie al film "La siciliana ribelle" di Marco Amenta, liberamente ispirato alla vicenda di questa ragazza, figlia di un boss mafioso assassinato nei primi anni '80. Rita fu testimone dell'omicidio del padre e, anni dopo, venne ammazzato anche il fratello. Per vendicare i suoi cari decise di denunciare gli assassini. Grazie alla collaborazione con la magistratura, in particolare con il giudice Paolo Borsellino che diventò per lei come un secondo padre, furono arrestati i mafiosi da lei accusati e fu avviata un'indagine sull'ex sindaco di Partanna, il paese natale di Rita.
Il 26 luglio di ogni anno si commemora la figura di Rita, che a soli 18 anni decise di togliersi la vita gettandosi da un balcone di una palazzina di Roma, dove viveva segretamente. Accadde una settimana dopo la strage di via d'Amelio del 19 luglio 1992, nella quale perirono il giudice Borsellino e la sua scorta. La decisione di collaborare con la giustizia aveva costretto Rita in una condizione di estrema solitudine socio-affettiva.
L'omicidio di Borsellino fu fatale per Rita. Per infangarne la memoria anche dopo la morte, la madre, dopo averla ripudiata in vita, ne devastò la lapide a colpi di martello.
Ciò che mi preme sottolineare è soprattutto il coraggio interiore e la forza morale di questa "novella Antigone", un'eroina dei nostri tempi, una ragazza capace di rinunciare addirittura alla sfera degli affetti più cari pur di realizzare il proprio ideale di giustizia.
In un'epoca in cui i simboli dell'anti-mafia sono personaggi del calibro di Falcone e Borsellino, oppure Peppino Impastato ed altri, figure considerate minori o secondarie come quella di Rita sono di fatto eclissate e ridotte ai margini della memoria collettiva.
Il gesto di chi sacrifica tutto per un ideale, impone un ragionamento sul tema dell'"omertà sociale", la tacita complicità con chi delinque. Nel gergo mafioso chiunque infranga il codice dell'omertà, tentando di far luce su una verità, è disprezzato come un"infame". L'infausta catena omertosa è la base su cui si erge il potere costrittivo e terroristico delle mafie. Per cui la frase che esprime meglio l'omertà sociale è: "Non vedo, non sento, non parlo". Da qui l'uso intelligente del linguaggio, se necessario urlato, per comunicare un gesto di rottura contro il silenzio dell'omertà, della complicità con il crimine economico e politico in generale. Il linguaggio della verità è un modello educativo improntato a codici non oscurantistici, bensì più aperti e democratici.
In teoria la parola può servire a spezzare le catene dell'ignoranza, dell'indifferenza e dell'ipocrisia sociali derivanti dal codice omertoso. Gramsci scriveva che "la verità è sempre rivoluzionaria". Il linguaggio della verità è profondamente eversivo e giova alla causa della libertà e della giustizia sociale, rompendo o modificando comportamenti che ci opprimono e ci indignano. Il delitto, il cinismo, l'ipocrisia, la sopraffazione sono elementi intrinseci al sistema mafioso, ma si iscrivono nell'intima natura dell'economia capitalista. La logica mafiosa è insita nella struttura del sistema affaristico che si insinua in ogni angolo del pianeta, ovunque riesca ad imporsi l'economia di mercato e l'impresa capitalista con i suoi misfatti. Ciò che eventualmente può variare è solo il differente grado di "mafiosità", di violenza e di aggressività terroristica dell'imprenditoria capitalista. C'è chi sopprime fisicamente i propri avversari, come nel caso delle "onorate società" apostrofate apertamente come criminali, mentre c'è chi ricorre a metodi meno rozzi, apparentemente raffinati, ma altrettanto spregiudicati e pericolosi.
Lucio Garoalo