Preambolo
Premetto che non sono cresciuto in un ambiente politico influenzato dalla tradizione veterostalinista. Non mi sono formato in un clima ideologico condizionato dal fanatismo e dalla mitologia filosovietica che avevano esaltato e ottenebrato le menti di milioni di uomini che credevano ingenuamente in una sorta di "paradiso terrestre". La nozione di un Eden sovietico non è mai esistita realmente nell'esperienza storica, se non nelle facili illusioni, nell'iconografia faziosa e pseudorealista, nella mistica stalinista e nella propaganda ideologica di un partito-chiesa che aveva compresso le libertà e i diritti dei singoli militanti, piegando e subordinando le coscienze individuali agli imperativi categorici provenienti da Mosca.
Al contrario, ho abbracciato e coltivato una visione del mondo e della politica animata da sinceri principi e sentimenti libertari e antiautoritari.
Infatti, ho sempre contestato sia l'imperialismo occidentale, di matrice filocapitalista e pseudodemocratica, che faceva (e fa) capo alla NATO e alla superpotenza statunitense, sia l'imperialismo sovietico, di estrazione burocratico-statalista, che faceva riferimento al Patto di Varsavia e al blocco di dominio incentrato sulle caste politico-militari salite al potere in Unione Sovietica, instaurando uno dei regimi totalitari e polizieschi più crudeli che la storia rammenti, simile e, in fondo, degno erede della spietata autocrazia zarista vigente nella Russia pre-rivoluzionaria.
Questa chiosa introduttiva mi ha permesso di spiegare quale fosse la mia posizione duramente critica, anzi polemica, in materia di socialismo reale, in modo da sgombrare immediatamente il campo da eventuali equivoci che potrebbero inficiare la trattazione e la comprensione dell'argomento.
Democrazia in vendita
Francamente non credo nella possibilità e nel dovere di esportare la cosiddetta "democrazia occidentale", in quanto non confido nei falsi e deboli principi della democrazia rappresentativa, che considero uno strumento ideologico di occultamento della natura vorace e dissoluta dell'economia capitalista, retta sull'alienazione e sulla mercificazione dei valori umani, su inique e crescenti disuguaglianze materiali e sociali.
La cosiddetta democrazia non è altro che un'ipocrita forma di riparo e di mistificazione propagandistica del delitto più atroce e meschino che possa esistere: lo sfruttamento materiale del lavoro umano, svolto da masse (sotto)salariate sempre più indifese e ricattabili, costrette a travagliare per l'arricchimento di minoranze sempre più rapaci e privilegiate.
Ritengo che la tanto osannata democrazia liberale sia solo la "migliore", forse la più evoluta e raffinata rappresentazione costituzionale della dittatura borghese imposta sul resto della società. Inoltre, sono convinto che tale ordinamento istituzionale non sia esportabile con procedure e sistemi arbitrari e cruenti, facendo addirittura ricorso alla rozza e primitiva irrazionalità della guerra.
La democrazia occidentale non è affatto esportabile soprattutto in quelle formazioni storico-sociali segnate da un'evidente arretratezza economica, quali sono quei paesi egemonizzati dalla presenza di un radicalismo islamico avallato in passato dalla politica dubbia e dissennata dell'occidente. Il quale ha creato gli stessi mostri che oggi proclama di voler combattere, ha armato e foraggiato gli Stati più tirannici e criminali del mondo, ovunque e quando conveniva farlo. Penso, ad esempio, al regime dispotico e sanguinario di Saddam Hussein, la cui ascesa al potere in Iraq, nel lontano 1979, fu voluta e caldeggiata proprio dalle potenze occidentali, guidate dagli U.S.A., in chiave anti-khomeinista. Oppure quando l'occidente ha favorito e finanziato i movimenti islamici più oltranzisti e integralisti. Si pensi a figure estremamente pericolose come Bin Laden, a quei gruppi fondamentalisti e terroristi oltremodo ostili e bellicosi come i Talebani, armati e appoggiati dal mondo occidentale in funzione chiaramente anti-sovietica durante la guerra in Afghanistan, seguita all'invasione compiuta dall'armata russa alla fine del 1979.
"Due pesi e due misure"
Da sempre mi ripugna la linea di condotta ambigua e opportunistica dell'occidente, riassumibile nella formula dei "due pesi e due misure", una politica che affama e dissangua i popoli del Sud del mondo, condannandoli ad un infame e intollerabile destino di miseria e sottomissione.
Anziché lodare e magnificare a chiacchiere le virtù "salvifiche" della democrazia, invece di proclamare astrattamente i "sacri" principi liberal-democratici, piuttosto che dichiarare formalmente la volontà di esportare la democrazia ovunque sia assente, il mondo occidentale farebbe meglio se provvedesse ad importarla e trapiantarla nella realtà dei propri Stati, sempre meno tolleranti e democratici, sempre più autoritari e illiberali.
L'ideologia dell'esportazione della democrazia maschera un vero e proprio alibi, utile a giustificare la carenza effettiva di democrazia all'interno stesso delle società occidentali. Come tutte le ideologie, si tratta di un autentico e abile travestimento, escogitato per coprire nefandezze e delitti molto più turpi e aberranti. In realtà, dietro la tesi ufficiale della "necessità di esportare la democrazia" si annidano un disegno e un meccanismo di espropriazione violenta delle ricchezze materiali e culturali dei popoli del Terzo Mondo. Sotto i nobili ideali della libertà e della democrazia, sbandierati di fronte all'opinione pubblica internazionale, si ammanta una vorace e sanguinosa spinta espansionista e globalizzatrice operata dall'economia di mercato, da quelle forze che sono all'origine delle tante guerre di rapina e di conquista combattute sul nostro pianeta, che sono quindi alla base dell'azione di ingerenza e di estorsione imperialistica esercitata su scala mondiale dal capitale monopolistico-finanziario.
Mercimonio democratico
Immaginiamo paradossalmente che io sia d'accordo con l'idea di esportare la democrazia.
Ma anzitutto chi, quale autorità internazionale, in virtù di quali principi e parametri, se non sono condivisi da tutti i popoli del pianeta, stabilisce ed accerta l'esistenza o meno della democrazia, ovvero valuta il grado di autentica democraticità di uno Stato e determina, eventualmente, l'opportunità e la necessità di esportarla, ossia di imporla con la forza delle armi? Tutto ciò è semplicemente folle e delirante.
E cosa rappresenta questa democrazia, forse una merce di facile consumo, alienabile ed esportabile ovunque, oppure un costoso articolo di lusso che non tutti i popoli possono permettersi? E qual è il prezzo corrente sul mercato? Forse milioni di morti? Forse miliardi di petrodollari?
Pertanto, ammesso per ipotesi assurda che io accetti e condivida il presupposto di quella repellente concezione che pretende l'esportazione di una lucrosa merce chiamata "democrazia", perchè mai questa deve essere, e di fatto viene esportata soltanto in alcune regioni come il Golfo persico, casualmente ricche di pozzi petroliferi, di risorse energetiche e altre pregiate materie prime, oppure di alcune produzioni che assicurano ingenti proventi economici (anche criminali) come, ad esempio, le coltivazioni di oppio in Afghanistan? In questa fitta rete di scambi e traffici, leciti e illeciti, nel connubio tra politica e affari, si ripara un autentico mercimonio della democrazia, il cui costo in termini di denaro, di fonti di guadagno, di capitali, ma soprattutto di vite umane, sembra oltrepassare ogni ragionevole limite e ogni capacità di sopportazione terrena.
In altri termini, mi domando se l'abominevole "merce democratica" acquisti maggior valore laddove esistono condizioni oggettive di ricchezza del sottosuolo e del territorio, vale a dire laddove esistono preziose (ma non inesauribili) fonti di sfruttamento e di profitto economico-capitalistico.
Perchè questa laida democrazia non viene esportata in altre realtà del mondo, in tante nazioni oppresse della Terra, in sterminate aree geografiche dove non esistono risorse petrolifere, né altre materie prime che possano attrarre e suscitare gli interessi delle potenze occidentali e delle corporation multinazionali? Penso a vaste regioni del Sud del mondo, in particolare del continente africano, dove intere popolazioni sono quotidianamente massacrate da una micidiale guerra alimentare, sono sistematicamente schiacciate da un apparato economico-(im)produttivo che genera soltanto oppressione e sottosviluppo, sono perseguitate da feroci dittature militari che si susseguono senza soluzione di continuità con la tacita complicità del mondo occidentale. Il quale finge di piangere, dissimulando commozione e disperazione solo quando si consumano le più orrende e strazianti catastrofi umanitarie e ambientali, annunciate e prevedibili con largo anticipo.
Epilogo
L'esportazione violenta e brutale della merce democratica non sarebbe possibile in tutto il mondo, essendo sconsigliabile un'espansione bellicista e interventista a livello planetario, essendo inconcepibile una crescente militarizzazione del territorio su scala globale.
In questo osceno binomio tra affarismo criminale e democrazia si svela l'origine di quella cinica e perversa logica dei "due pesi e due misure": la democrazia non si può e non si deve imporre in tutto il globo, ma solo laddove conviene e giova (come la storia ci insegna) alle potenze occidentali, ossia per conservare e, magari, accrescere i privilegi e l'opulenza economica del Nord del mondo. Qundi per assicurare e salvaguardare in perpetuo i profitti dei maggiori colossi multinazionali, che continuano a rapinare impunemente le ricchezze e i patrimoni, non solo materiali, dei popoli della Terra. I quali, in cambio, potranno forse godere delle innumerevoli convenienze e dei vantaggi derivanti dalla prodigiosa democrazia?
Questa non vuol essere una conclusione esaustiva e definitiva che racchiude per sempre tale riflessione, che mi auguro possa proseguire e ampliarsi ulteriormente, fornendo spunti e contributi originali per l'analisi, l'interpretazione, ma soprattutto per la trasformazione concreta e rivoluzionaria dello stato di cose presenti, ossia il dominio globale del capitale monopolistico e del neoliberismo.
Lucio Garofalo