A proposito di classe, coscienza di classe e partito
E’ assolutamente innegabile il fatto che, nell’attuale momento storico, segnato da una crisi non solo economica e strutturale, ma anche ideologica, politica e morale, che investe le radici stesse del modello di sviluppo occidentale che ha dominato il mondo negli ultimi decenni, serva la costituzione di un partito nuovo che si batta in nome e a fianco dei lavoratori, un partito che sia un’organizzazione di classe e rivoluzionaria, da creare ora e subito, o al più presto possibile. Serve in quanto è l’unico strumento davvero idoneo a promuovere una chiara coscienza della crisi e una coscienza di classe.
Ma ciò a cui alludo non è esattamente un partito inteso nel senso classico e tradizionale, né tantomeno un partito professionistico di stampo post-leninista, o giacobino. Dico “post” non a caso, poiché la storia raccontata sul partito leninista è un cumulo di menzogne e mistificazioni. In ogni caso, neppure il vero partito leninista sarebbe oggi adeguato alla morfologia dell’odierno proletariato, che consiste nel precariato diffuso.
Oggi non servono né la supponenza degli apparati gerarchici e delle nomenclature burocratiche, né tantomeno l’arroganza e l’ottusa autoreferenzialità dei funzionari e dei mestieranti della politica. Serve piuttosto un altro tipo di formazione politica del proletariato e dei lavoratori, possibilmente una forma auto-organizzata. Vediamo quale.
Parto da ciò che asseriva Marx: “il proletariato si costituisce in quanto classe in opposizione al capitale”. Ciò implica l’esigenza di un partito come prodotto della classe, al di là dell’assunto per cui la coscienza di classe è esterna alla classe stessa. Serve dunque un partito che risponda alle istanze reali del proletariato, che oggi è rappresentato soprattutto da quei lavoratori (sotto)salariati più deboli e indifesi, vale a dire i giovani precari e i migranti, e ciò può determinarsi solo attraverso l’acquisizione e la crescita dei contenuti, dei gradi e delle forme della sua consapevolezza come classe.
In tal senso, il compito essenziale di un partito rivoluzionario non è quello di essere una “avanguardia” in chiave sostitutiva rispetto alla classe, ma promuovere e diffondere nella maturazione di questa coscienza rivoluzionaria i principi elementari del socialismo scientifico, propagandare i presupposti e gli strumenti organizzativi di un’autentica “democrazia proletaria” che tenda all’unità e alla solidarietà proletaria, rappresentare in modo chiaro, coerente, concreto, la prospettiva internazionalista della lotta di classe.
E’ evidente che non si può postulare a priori un modulo organizzativo a prescindere dal modo in cui si svolgeranno le dinamiche di classe, né prefigurare o mutuare forme storicamente esaurite. Il partito deve porsi come uno strumento duttile e dinamico, in grado di adeguare la sua stessa organizzazione a seconda di come si dipana il gomitolo degli avvenimenti, un mezzo di lotta e di organizzazione immerso nelle lotte dei proletari e dei lavoratori auto-organizzati, per cui deve agire senza pretese messianiche.
Bisogna valutare il modo in cui si sono determinati alcuni eventi di notevole importanza sintomatica: si pensi ad alcune iniziative e manifestazioni di lotta del moderno proletariato precario. Non hanno avuto affatto bisogno della “potente macchina organizzativa del partito”, come sostenevano gli stalinisti e neppure il vecchio PCI, nonostante disponesse di una grande macchina organizzativa, è mai riuscito a mobilitare due milioni di persone in piazza in pochi giorni. Eppure, ciò accade oggi in Italia e in quasi tutti i Paesi europei. Ciò che manca a questi eventi è la razionalità delle forme di lotta, ovvero la coscienza di essere una classe e non un coacervo di persone disperate.
Oggi gli Indignati hanno individuato il nemico, cioè le banche e l’alta finanza internazionale (e questo è già un fatto di primaria importanza), ma ancora non riescono ad afferrare la necessità, o quantomeno il modo, di rompere la catena del comando capitalistico. E’ semplicemente una fase transitoria, ma estremamente significativa. Per cui occorre un partito per affermare esattamente che l’attuale crisi non si può superare nel quadro del capitalismo, ma bisogna riorganizzare la produzione economica andando oltre il capitalismo stesso. Il superamento di un sistema economico e sociale ormai degenerato e fallito quale il capitalismo, non può prodursi solo con la protesta e l’indignazione, ma serve un’azione cosciente e volontaria per abolirlo. E serve un partito per costruire il senso comune di questa necessità, per prefigurare uno sbocco rivoluzionario, vale a dire una fuoriuscita dalla crisi in una diversa formazione sociale.
La necessità di un partito è un limite dovuto alla difformità dei gradi di acquisizione della coscienza di classe, ma è una necessità storica immanente, cioè intrinseca all’attuale momento storico. Non servono, dunque, modelli organizzativi precostituiti, ma servono l’azione e la creatività del proletariato moderno per conferirgli una forma duttile e dinamica in grado di respirare all’unisono con la classe stessa. Paradossalmente il proletariato vincerà esattamente quando cesserà di esistere in quanto classe sociale.
Concludo evidenziando l’assoluta e irriducibile incompatibilità delle posizioni esposte finora a proposito di coscienza di classe e partito, con quanti celebrano ottusamente la sacralità del “Partito”, ragionando e comportandosi esattamente come quei cattolici fanatici e irredenti che esaltano dogmaticamente la sacralità della loro “Chiesa laica”.
Lucio Garofalo
L'arte non è una merce
E’ noto che gli Italiani sono un popolo di grafomani, ma di scarsi lettori. E’ confermato dalle statistiche più aggiornate e credibili che in Italia esistono più scrittori che lettori.
Ma al di là dei limiti tecnici oggettivi e dei talenti individuali di ciascuno, non credo si debba soffocare o frustrare l’ansia creativa e comunicativa che spinge le persone a ricorrere alla parola scritta anziché utilizzare altri codici espressivi di tipo extraverbale.
Questo fenomeno si manifesta, ancorché ridotto nelle sue dimensioni, pure in ambiti creativi quali il disegno e le arti figurative in genere, piuttosto che nel canto, nella fotografia o nel teatro. Quanti di noi si sono cimentati in uno di questi settori almeno una volta nella propria vita? Chi non ha mai provato ad esibirsi in una recita per appagare un desiderio infantile? Si pensi alle manifestazioni teatrali allestite a scuola, alle attività grafico-pittoriche e alle varie esperienze vissute per puro diletto, e non solo durante il periodo scolastico. E’ un dato di fatto incontrovertibile che il bisogno di comunicare costituisce una tendenza intrinseca alla (e inscindibile dalla) natura umana.
Il problema è un altro, cioè il rapporto tra creatività e industria culturale, libertà espressiva ed esigenze di mercato. Si sa che in un’economia di mercato i soldi si accumulano vendendo merci e in un'economia capitalistica i soldi si fanno con i soldi altrui. Se un’opera d’arte viene mercificata, se il talento di uno scrittore e, in generale, dell’artista, viene trasformato in merce, cioè in un valore di scambio e, come tale, viene messo in vendita, è assai probabile che esistano discrete possibilità di guadagnare qualcosa, ma in realtà neppure le briciole sono destinate allo scrittore, a meno che non si tratti di Umberto Eco e pochi altri autori di successo. Gli utili maggiori vanno nelle tasche degli editori, cioè dei padroni dell’editoria e dell’industria culturale in generale.
In linea di massima, un editore o un manager dell’industria della cultura, del cinema, della musica, non è interessato a prodotti che mettano in discussione il sistema del mercato e del profitto. Per ovvie ragioni di autoconservazione. In un’economia mercantile, gli artisti sono costretti ad alienare il proprio talento alle richieste imposte dal mercato: riducono a merce il loro “prodotto” e il messaggio, qualunque sia il codice o la forma artistica in cui viene trasmesso, è finalizzato alla creazione di profitto, per cui deve assumere un profilo il più possibile generalista e qualunquista per acquisire quote di mercato sempre più vaste. In una società consumista di massa l’arte, il cinema, la musica, la poesia, il romanzo, il teatro, sono merci destinate alla compravendita, diventano parte integrante dell’industria della cultura e dello spettacolo e talvolta finiscono esposte in vetrine televisive come il Maurizio Costanzo Show o altri talk show.
I valori estetici sono mortificati, la qualità viene sacrificata per privilegiare ciò che è maggiormente funzionale al successo commerciale, come un manufatto che ha la proprietà d’essere venduto facilmente in quanto piace al pubblico, per cui è prodotto su scala industriale. Il sistema economico non premia il talento creativo, ma seleziona i prodotti che assecondano le richieste provenienti dal mercato. Se per ipotesi, nemmeno tanto assurda, nascesse un nuovo Caravaggio, ovvero un nuovo genio dell’arte, probabilmente si farebbe già molta fatica a scoprirlo e a lanciarlo sul mercato e, qualora si riuscisse a pubblicarne le opere, temo che non riscuoterebbero il meritato successo e si continuerebbe a promuovere e valorizzare le solite baggianate che si vendono a iosa.
La città di Firenze divenne, durante l’età rinascimentale, un’immensa e inimitabile fucina di talenti e di personalità eccelse nei vari campi del sapere e della creatività umana, dalle arti figurative come la pittura, la scultura, l’architettura, alla letteratura, dalla filosofia alle scienze naturali, anche (ma non solo) grazie all’opera indubbiamente meritoria, benché non esattamente disinteressata, di numerosi principi che furono grandi mecenati e protettori degli artisti del tempo, innanzitutto la signoria dei Medici.
E’ evidente che il patrocinio esercitato dai signori rinascimentali nei confronti dell’arte era anche un modo per tenere sotto controllo gli artisti dell’epoca onde evitare che, attraverso le loro opere, potessero esprimere una critica radicale della società in cui vivevano. E’ quanto accade oggi nel momento in cui un prodotto artistico e culturale viene immesso sul mercato per essere venduto, dunque viene depotenziato, nel senso che si disinnesca o si neutralizza il contenuto potenzialmente eversivo del messaggio, più o meno esplicito che sia, veicolato attraverso un particolare sforzo creativo. Ma nel mondo d’oggi non c'è spazio per il mecenatismo. Nella società consumistica di massa non si potrà mai sviluppare un nuovo Rinascimento artistico e culturale pari a quello che rese splendido ed irripetibile il periodo storico tra la prima metà del ‘400 e la prima metà del ‘500, poiché non godrebbe dei favori degli sponsor e dei padroni dell’industria culturale.
Occorre altresì aggiungere che una percentuale di responsabilità, almeno sul piano morale, rispetto a questa degenerazione e mercificazione dell’arte, va ascritta agli artisti medesimi. Molti dei quali, pur di conseguire il successo, si sono mostrati disposti a sottomettersi e a compromettersi con l’establishment politico-religioso, pronti a servire e riverire il potere più violento e dispotico. In tal senso gli artisti sono scesi a patti, per cui non sono stati dei rivoluzionari, ma uomini normalissimi. La loro umanità è, in qualche misura, la “condanna” che gli artisti sono costretti a sopportare. Si pensi solo ai più grandi pittori del passato che, per sopravvivere, si adattarono a dipingere santi, madonne ed altri soggetti sacri, a scopo puramente propagandistico. Ma l’arte non può essere oltremodo didascalica a detrimento della forma o della qualità estetica. Essa è indubbiamente un veicolo di propaganda politica, ma in ogni caso è un’occupazione creativa estremamente raffinata, per cui non può essere mortificata ad un livello troppo scadente, prigioniera di un sistema di potere, o soggetta alle leggi imposte dal mercato.
Oggi, l’artista che cerca di adoperarsi ed impegnarsi politicamente per una critica radicale della società, che ha deviato verso l’edonismo e il consumismo più sfrenato, non ha vita facile. L’artista è, per natura, vocazione e definizione, un intellettuale, nel senso di chi ha il coraggio, la forza e l’onestà intellettuale di procedere controcorrente, anche a costo di soffrire la solitudine ed esporsi al rischio del solipsismo, cioè di rivolgersi ad un pubblico ristretto. Ma se non è controcorrente l’artista, chi lo è? Il ruolo storico e sociale dell’arte e dell’intelligenza creativa, è esattamente quello della critica, della provocazione e dello scandalo, altrimenti l’arte non ha alcun senso e alcuna ragion d’essere. Da questo punto di vista sono rarissimi i casi di artisti che si sono dimostrati davvero liberi e coerenti. Persino i più grandi furono costretti a mettere il loro ingegno al servizio dei potenti. Si pensi solo a figure come Leonardo e Michelangelo, che concessero il loro talento alla mercé dei signori dell’epoca: i Medici di Firenze, gli Estensi di Ferrara, i Gonzaga di Mantova, gli Sforza e i Visconti di Milano, la curia pontificia di Roma, piuttosto che la monarchia di Francia o altre dinastie del loro tempo.
Il solipsismo, ovvero l’isolamento politico-culturale, è la nuova forma di oppressione e condizionamento imposta dalle false democrazie esistenti: la censura delle idee non è più esplicita e diretta come in passato, all’apparenza siamo liberi di esprimere il nostro pensiero ma il messaggio è irrilevante, o scarsamente efficace, poiché non viene accolto dalle masse, a meno che non segua le mode correnti. In altre parole, possiamo criticare liberamente il sistema, ma a recepire il messaggio sarà, nella migliore delle ipotesi, un numero talmente esiguo e circoscritto di persone da non costituire alcuna minaccia per il potere costituito. L’alternativa è, dunque, tra il conformismo e l’assenza di incisività.
Tuttavia, il dilemma non è così arduo da risolvere, anzi. In fondo è più semplice di quanto si immagini. Non si tratta di scegliere tra “apocalittici e integrati”, tanto per citare il titolo di un celebre saggio di Umberto Eco. L’integrazione è uno sbocco inevitabile, ma il discrimine consiste nel modo in cui ci si integra: critico, cioè svolgendo un ruolo polemico e dissidente, o acritico, vale a dire in termini passivi e consenzienti.
In un sistema economico e politico in cui si annida il peggior fascismo mai conosciuto nella storia dell’umanità, benché esercitato attraverso tecniche oltremodo sofisticate ed eleganti, solo apparentemente morbide e indolori, un tipo di ordinamento sociale che è profondamente (e raffinatamente) alienante, omologante e conformista, in pratica è impossibile non essere inglobati e sfuggire ad un meccanismo di controllo e di assimilazione subdola e costrittiva, nella misura in cui ogni singolo individuo, anche il più intransigente, intrepido e pervicace, viene ad essere per forza di cose (volente o nolente) assorbito all’interno di una società consumista di massa come quella presente, che si perpetua obbligandoci, o incentivandoci, a produrre e consumare, fino a crepare.
A meno che non si intenda compiere un gesto estremo di rifiuto e di auto-isolamento totale, una scelta irriducibile quanto improponibile, abbracciando una sorta di misticismo irrazionale e retorico, decidendo di annullare le proprie istanze e sensazioni corporee ed estraniandosi in uno stato di auto-emarginazione ascetica e spirituale. Ma questa sarebbe una scelta “romantica” d’altri tempi, che oggi risulterebbe quanto meno assurda, eccessiva o balorda, nella misura in cui viviamo in un contesto pseudo democratico, di fatto autoritario, che è globalizzato (ossia esteso su scala planetaria) a livello capitalistico, per cui anche volendo vivere in un modo radicalmente diverso, distaccati dal resto del mondo, ciò sarebbe assolutamente impossibile ed impraticabile.
La differenza positiva, non nichilista o autodistruttiva, consiste in un atteggiamento di accettazione critica rispetto al “destino” di assimilazione e di integrazione strisciante a cui ci condanna la società attuale, polemizzando contro lo stato di cose vigente. Un compito critico non facile, che spetta evidentemente all’intellettuale politicamente impegnato, a maggior ragione all’artista in quanto intellettuale libero, onesto e sincero.
Lucio Garofalo
Riflessioni su mafia e capitalismo (di Lucio Garofalo)
Recentemente ho intrattenuto su Facebook una piacevole conversazione con un’amica siciliana, che ha suscitato una serie di considerazioni sulla Sicilia, da cui è scaturita una riflessione personale che ho deciso di redigere sulla carta per consegnarla ai “posteri”.
E’ quasi pleonastico e banale affermare che la Sicilia è un’isola incantevole, talmente ricca di attrazioni irresistibili e bellezze impareggiabili da risultare unica al mondo. Nel contempo è una terra enigmatica, imperscrutabile, intrisa di aspetti oscuri e controversi che ne accentuano la magia, facendo trapelare il fascino occulto e sibillino di questa regione. Si pensi alle bellezze naturali: il sole che riscalda uno dei tratti di mare più azzurri e trasparenti del Mediterraneo, che lambisce un territorio costiero lungo 1500 chilometri; l’Etna, uno dei vulcani più suggestivi del pianeta, solo nella potenza spettacolare delle sue eruzioni e nelle colate di lava incandescente, bensì in un complesso paesaggistico incredibile; l’arcipelago delle Isole Eolie, al largo della costa tirrenica messinese, nella Sicilia settentrionale, tra cui Lipari, Panarea, Stromboli e Vulcano. Si pensi alla bellezza seducente delle donne siciliane, tra le più avvenenti e sensuali al mondo. Si pensi alle bellezze artistiche ed architettoniche, all’irripetibile e misteriosa civiltà siciliana, ai popoli che si sono avvicendati e incrociati nel corso dei secoli, contaminandosi tra loro e generando una storia e una cultura che non hanno eguali al mondo: dai Fenici ai Greci, ai Bizantini agli Arabi, ai Normanni, ecc.
La Sicilia è, quindi, una terra magnifica da sempre: non a caso fu per i Greci la Magna Grecia e rappresentò la vera culla della filosofia, della matematica, dell’arte e della musica in epoca antica. Nella Magna Grecia si assegnava un notevole valore alla cultura, all’arte, alla letteratura, e si raggiunse un grado di civiltà pari, se non superiore alla stessa madrepatria. La Sicilia diede i natali ad alcuni tra i più sapienti filosofi e letterati della Magna Grecia e dell’antichità classica, tra cui il grande scienziato e matematico Archimede di Siracusa, i filosofi Gorgia da Lentini ed Empedocle di Agrigento. Giusto per segnalare alcune “celebrità” del mondo antico. Basterebbe menzionare queste ed altre figure eccellenti della cultura, della filosofia, della scienza, dell’arte e della letteratura universale (cito un nome su tutti: Luigi Pirandello) per sentirsi fieri d’essere Siciliani. Ma la Sicilia è da sempre una terra di conquista: si pensi alle numerose colonie fondate dai Greci e dai Fenici in età antica, per giungere, in tempi più recenti, agli Americani. Serve ricordare che, nel secondo dopoguerra, il secessionismo siciliano vagheggiava una “nazione sicula” confederata agli Usa. Purtroppo, la Sicilia ha fornito il retroterra storico dove si è sedimentato l’ambiente sociale e politico di Cosa Nostra, o Mafiopoli.
Ho citato i Nordamericani a proposito del colonialismo subito dal popolo siciliano, per cui azzardo una sorta di parallelismo storico con i Pellerossa. Durante la colonizzazione del “selvaggio West” americano, il “Popolo degli uomini” venne letteralmente decimato dall’esercito yankee nel corso di lunghe e sanguinose guerre di conquista che si svolsero nella seconda metà del XIX secolo e presero il nome di “guerre indiane”. La tribù pellerossa dei Sioux Dakota Hunkpapa era guidata dal grande capo e sciamano indiano Toro Seduto. In realtà il suo nome era Bufalo Seduto, o Tatanka Yotanka nella lingua dei nativi americani. Egli divenne famoso grazie alla vittoria conseguita, il 25 giugno 1876, nella battaglia combattuta nei pressi del fiume Little Bighorn contro il reggimento di cavalleria condotto dal tenente colonnello George Armstrong Custer, soprannominato “capelli gialli”, grande capo dei “visi pallidi”. All’incirca un secolo dopo, a Cinisi, nel mondo della mafia sicula, tuonava “don Tano Seduto”, spietato boss locale, a Corleone troneggiava il “capo dei capi” di Cosa Nostra, il famigerato “don Totò Seduto”, mentre altrove spadroneggiano altri “don Seduti” su altri scranni. Ma la mafia sicula non è svanita con l’arresto degli implacabili boss corleonesi Totò Riina e Bernardo Provenzano, latitanti per anni ed improvvisamente catturati dallo Stato italiano allorché si sono rivelati “arnesi” inutili e vecchi. Intanto, a partire dalla seconda metà degli anni ’70 si era già compiuta una vera e propria “rivoluzione” antropologica e culturale della mafia.
Quella che è morta e sepolta è la mafia più retriva e tradizionale, la mafia rurale messa sotto processo dalle inchieste di Falcone e Borsellino, eliminati dai sicari della cosca più sanguinaria, all’epoca vincente, i Corleonesi. Al contrario, oggi la mafia è più ricca e potente che mai, non è scomparsa solo perché non ammazza più usando le armi, terrorizzando la gente, compiendo stragi sanguinose per sopprimere fisicamente i suoi nemici, siano essi sindacalisti come Placido Rizzotto, attivisti politici come Peppino Impastato, giudici come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. La mafia siciliana evita di ammazzare perché si è in qualche modo “civilizzata” o, meglio, si è “mimetizzata”, in quanto non vuole più esporsi alle ritorsioni dello Stato, non intende più essere visibile per offrire l’impressione di non esistere più. Infatti, preferisce ripararsi dietro una facciata apparentemente più borghese e rispettabile. Ciò significa che Mafiopoli non esiste più? No. La mafia ha solo imparato a dissimularsi meglio. Essa continua ad agire indisturbata, meglio di prima. L’assetto di Mafiopoli si è aggiornato e riciclato in forme moderne e sofisticate. Persino la mafia più arcaica ha subito una mutazione antropologica, la stessa che Pasolini ha descritto a proposito dell’odierna civiltà edonista e consumista di massa. Dunque, la mafia si è ristrutturata per competere sul piano della “globalizzazione” capitalistica, divenendo una holding company, un’impresa finanziaria multinazionale. Insomma, la mafia è a capo di un Impero economico globale e rappresenta oggi la prima azienda del capitalismo italiano, una compagnia imprenditoriale che vanta il più ricco volume di affari del Bel Paese. La mafia è ormai una grossa società finanziaria che potremmo chiamare Mafia S.p.A., cioè una Società per Azioni. Ma si tratta di azioni criminali. Come criminale, marcio, o quantomeno immorale, è l’intero apparato capitalistico, le cui ricchezze sono di dubbia estrazione.
Non a caso scriveva Honoré de Balzac: “Dietro ogni grande fortuna economica si annida un crimine”. Questa citazione dotta serve a chiarire come l’origine e la natura della proprietà privata, del capitale, della rendita finanziaria, siano illecite e sospette, se non addirittura criminali, in quanto discendono da un atto originario di espropriazione violenta ed iniqua del reddito sociale, un processo di appropriazione e di accumulazione del surplus (ossia il plusvalore) creato dal lavoro collettivo, che si basa su meccanismi di rapina. La matrice reale del sistema capitalistico è di per sé violenta, criminale o perlomeno illecita e disonesta, e non c’è bisogno di scomodare Karl Marx per dimostrarlo. “Gli affari sono affari” è un motto che vale per tutti gli uomini d’affari, siano essi personaggi incensurati, approvati socialmente, siano essi figure losche, notoriamente riconosciute come criminali. Belve sanguinarie, delinquenti o meno, pregiudicati o incensurati, gli uomini d’affari sono sempre poco onesti, in molti casi astuti e crudeli, cinici e spregiudicati per necessità, indole o vocazione individuale. Del resto, le associazioni di stampo mafioso non sono altro che imprese economiche criminali che perseguono le stesse finalità delle aziende capitalistiche “normali”, incensurate e rispettabili, vale a dire la massimizzazione dei profitti economici. La mafia è, in sostanza, un’organizzazione imprenditoriale che esercita i suoi affari e le sue attività delittuose con un obiettivo primario: la ricerca del massimo utile. Per raggiungere il quale è disposta a corrompere, a minacciare, a servirsi dei mezzi più disonesti e detestabili, a ricorrere al delitto più atroce ed efferato. Per vincere la competizione delle società rivali essa è pronta a ricattare e ad eliminare fisicamente i suoi avversari. Parimenti ad altri gruppi imprenditoriali come, ad esempio, le grandi compagnie multinazionali nordamericane che uccidono gli attivisti politici e sindacali che, in America Latina o in Africa, si oppongono all’ingerenza imperialistica occidentale.
Il delitto, l’ignominia, il cinismo, l’ipocrisia, la sopraffazione, si iscrivono nella natura più intima dell’economia capitalistica, che è abietta e bestiale ed è una componente strutturale intrinseca ad un ordine retto sul “libero mercato”, sulle sperequazioni materiali, sul degrado morale e sulle ingiustizie sociali che ne derivano. La spregevole logica “mafiosa” è insita nella struttura stessa del sistema affaristico dominante in ogni angolo del pianeta, ovunque riesca ad insinuarsi l’economia di mercato e l’impresa neocapitalista con i suoi misfatti. Ciò che eventualmente può variare è solo il differente grado di “mafiosità”, cioè di irrazionalità, criminalità ed aggressività terroristica dell’imprenditoria capitalista. C’è chi sopprime fisicamente i propri avversari, come nel caso di tante “onorate” e famigerate società riconosciute come criminali, mentre c’è chi ricorre a sistemi meno rozzi, più raffinati ma altrettanto spregiudicati e pericolosi.
Infine vorrei proporre un ragionamento sull’“omertà sociale”, che è la tacita complicità con chi delinque. Anzitutto suggerisco una definizione presa da un comune dizionario: “l’omertà è la solidarietà col reo, è l’atteggiamento di ostinato silenzio teso a coprire reati di cui si viene direttamente o indirettamente a conoscenza”. Il termine “omertà” è comunque di origine incerta, riconducibile probabilmente all’etimo latino “humilitas”, successivamente modificato in “umirtà”. Da questa antica fonte vernacolare potrebbe scaturire l’odierna voce “omertà”. Nel gergo mafioso chiunque infranga il codice dell’omertà, ovvero tenti di far luce su una verità, viene disprezzato e additato come “infame” o “presuntuoso”. L’infausta catena omertosa si configura come una delle basi su cui si erge il potere mafioso. Per estensione il codice omertoso si impone ovunque sia egemone una realtà mafiosa, nell’accezione di un potere costrittivo e terroristico. Per cui la frase che esprime meglio l’omertà sociale è “Non vedo, non sento, non parlo”.
Dunque, l’uso intelligente e raffinato del linguaggio, se necessario urlato, può servire a tradurre verbalmente un gesto di rivolta contro il silenzio dell’omertà, della complicità mafiosa e della complicità con il crimine economico e politico in genere, e può ispirare un modello educativo basato su codici di comportamento non oscurantistici, più aperti, democratici e pluralistici. In tal senso occorre avvalersi del potere e della priorità della parola, intesa ed esercitata non solo come veicolo di comunicazione espressiva e creativa, ma anche come metodo di critica e denuncia della realtà delittuosa, come strumento di interpretazione e trasformazione del mondo esistente, che non è l’unico possibile. Il linguaggio contiene in sé la forza che serve a modificare lo stato di cose presenti, a migliorare le circostanze della nostra vita, a deviare il “corso del destino”. In potenza, la parola può servire a spezzare le catene dell’ignoranza, dell’indifferenza e dell’ipocrisia sociali derivanti dal codice omertoso. Antonio Gramsci scriveva che “la verità è sempre rivoluzionaria”. In effetti il linguaggio della verità è profondamente eversivo e giova alla causa della libertà e della giustizia sociale, rompendo o rettificando pratiche e comportamenti che ci opprimono e ci indignano. La parola, in quanto testimonianza di un altro modo di intendere e costruire i rapporti interpersonali, improntati ai principi della solidarietà, della libertà, della giustizia e della convivenza democratica, è una modalità eversiva rispetto all’ordine oppressivo ed omertoso imposto dalla mafia e, per estensione, dalla criminalità economica. L’uso del “verbo della verità” rinviene in tal modo un senso politico concreto e riesce ad acquisire vigore e consapevolezza nella misura in cui serve a violare il potere coercitivo della malavita organizzata, del ladrocinio e dell’affarismo economico in generale, provando a vincere la mentalità mafiosa, delittuosa ed affaristica che pervade e corrompe la società civile.
Un nuovo mestiere: addestratore per i quiz Invalsi
Capita a volte di incontrare e conoscere una nuova persona che, per curiosità, mi chiede: “Ma che lavoro fai?”. Allora io rispondo, in modo ironico e quasi insolente: “Una volta insegnavo, ora faccio l’addestratore di giovani concorrenti per i quiz dell’Invalsi”.
Ebbene, la mia risposta, ancorché sarcastica e provocatoria, non è affatto distante dalla realtà, anzi. Il guaio peggiore è che, ovunque mi sia trovato, ovverosia in qualunque ambiente scolastico abbia avuto l’occasione di prestare servizio, ho avuto modo di ravvisare un numero sempre crescente di colleghi e colleghe a cui sembra addirittura piacere questa “mansione professionale”. O, perlomeno, sembra accolta supinamente.
Mi riferisco anzitutto all’obbligo di preparazione degli studenti ai quiz predisposti, ma soprattutto imposti e calati dall’alto, dall’istituto Invalsi. Un carrozzone di stampo assistenzialistico e clientelistico, assolutamente inutile e costoso, gradito soprattutto ai funzionari ministeriali, ai burocrati e ai capi d’istituto, in particolare ad un certo tipo di dirigenti scolastici, cinici e affaristi, paternalistici ed opportunisti, arrivisti e carrieristi.
Penso altresì alle attribuzioni, indubbiamente necessarie, connesse alla vigilanza degli alunni, nonché alle mansioni di “parcheggiatore” per giovani disoccupati permanenti o, peggio ancora, ad una sorta di “ufficio di collocamento” al servizio di giovani “precari cronici”. Purtroppo, l’azione educativa è, per mille ragioni, sempre più avvilita, mortificata e sacrificata nelle sue prerogative, a partire da chi governa (male) la scuola.
Non che io nutra sentimenti di nostalgia per un prototipo di scuola concepita in maniera tradizionalistica, ossia in forme cattedratiche e professorali, come uno strumento di indottrinamento e trasmissione unilaterale (che presuppone un atteggiamento ricettivo assolutamente passivo da parte dell’allievo) di un sapere squisitamente nozionistico, formato da cumuli di contenuti disciplinari aridi, accademici e pedanti, attraverso metodologie didattiche che sono di stampo esclusivamente astratto e verbalistico. Anzi.
Penso, al contrario, ad una professione sociale che sia altamente edificante e gratificante sotto ogni punto di vista, culturale, morale, affettivo e via discorrendo, tanto per i docenti quanto per i discenti, ad un esercizio intellettuale di autentica democrazia diretta, di confronto critico e dialettico tra i soggetti che sono i principali protagonisti del rapporto di insegnamento/apprendimento. Un processo interattivo e consapevole che, nella migliore delle ipotesi, dovrebbe svolgere un compito altamente formativo a 360 gradi, ovvero una funzione di carattere creativo con finalità educative.
Non a caso, il concetto di educazione discende dall’etimo latino e-ducere, che significa letteralmente trarre fuori e si riferisce ad un ruolo professionale che persegue lo scopo primario della formazione integrale, e non equivale all’atto dell’indottrinare o del riempire la testa di nozioni, bensì al compito di aprire e liberare la mente. In ultima analisi, l’impegno educativo consiste in un’opera di emancipazione globale dei giovani, anzitutto sul versante della coscienza civile e politica, nel senso più nobile del termine.
Lucio Garofalo
Una guerra di classe contro i lavoratori
Non so se appare evidente agli altri, ma al sottoscritto risulta ormai fin troppo manifesta la situazione in atto, che denota una guerra aperta e dichiarata contro i lavoratori, che si traduce sostanzialmente in un violento e spietato attacco di classe mosso su vari fronti e con diverse forme, misure e modalità, alcune palesemente coercitive e repressive, al fine di scardinare e annichilire le grandi conquiste sociali, civili e materiali che sono state ottenute da vasti movimenti di massa sorti in Italia durante il secondo dopoguerra.
Tali conquiste, messe ferocemente in discussione, sono insite in quell’assetto di welfare che viene convenzionalmente denominato “stato sociale”, dal quale discendono i diritti sindacali e politici conseguiti dal mondo del lavoro nel corso di lunghi anni attraversati da dure e persino sanguinose lotte condotte non solo dalle presunte o sedicenti “avanguardie rivoluzionarie” a partire dalla fine degli anni Sessanta, ma dall’intero movimento operaio e popolare che riuscì a mobilitarsi in quel periodo segnato da preziose e notevoli conquiste di civiltà e di progresso. Da tempo è in atto, prima in forma strisciante, oggi in termini più espliciti, un’implacabile controffensiva globale avanzata a discapito del mondo del lavoro e delle classi sociali politicamente subalterne.
Una controffensiva sferrata da chi? Da quel mondo che viene comunemente definito “capitalismo”, finanziario ed economico in genere? Ovvero dagli ambienti dei cosiddetti “poteri forti”? O dallo Stato? Indiscutibilmente, da tutti questi elementi messi assieme.
Ci hanno innalzato l’età pensionabile fino a quando non saremo più in grado di intendere e di volere, ci hanno tartassati, sommersi di tributi, balzelli, gabelle d’ogni sorta, ci hanno congelato gli stipendi, ridotto drasticamente il potere d’acquisto di salari miserabili, ci impediscono di scioperare, di manifestare la nostra rabbia e persino la nostra disperazione, pretendono sempre maggiore “produttività”, ci hanno negato ogni diritto e ci intimano persino di non lamentarci, poiché c’è chi sta peggio, e via dicendo.
Se questa non è una guerra dichiarata contro i lavoratori, mi si spieghi cos’è. Ma chi tutela i lavoratori, non solo i dipendenti che appartengono al settore pubblico e privato?
Nessuno, né i sindacati ufficiali, tantomeno i partiti politici rappresentati in Parlamento, e probabilmente neanche all’esterno delle istituzioni. Perciò gruppi di operai, specie delle fabbriche che versano in uno stato di crisi e che hanno avviato dure vertenze sindacali, hanno ripreso ad auto-organizzarsi e a mobilitarsi in modo autonomo, per salvaguardare anzitutto i propri interessi materiali, ossia un misero posto di lavoro che assicuri almeno una sussistenza minima, non dico decorosa, a sé e alle proprie famiglie.
In una fase storica come quella odierna, in cui la guerra di classe contro i lavoratori si è ferocemente inasprita, diventando addirittura frontale, assumendo cioè forme fin troppo aperte e dichiarate, i lavoratori hanno tutto il diritto di organizzarsi e difendersi da soli, facendo ricorso a tutti i mezzi possibili, non solo quelli, ben pochi a dire il vero, messi a disposizione da un modello artefatto di “democrazia”, assolutamente monca e parziale.
Lucio Garofalo