Nel modo abituale di pensare della gente il concetto di crisi richiama automaticamente, attraverso un meccanismo di associazione mentale, la nozione di caos e conflitto, ma anche l'idea di crescita e di miglioramento. La crisi può essere il prodromo che anticipa e precorre una ripresa palingenetica, che si esplica attraverso un'opera di sconvolgimento. Nonostante il termine crisi esprima soprattutto una valenza negativa, è assolutamente indiscutibile che l'avvento di una crisi provochi cambiamenti radicali e duraturi, ma la rottura con l'ordine preesistente può comportare anche un processo di crescita e di svolta (in senso evolutivo o meno), un'occasione di riscatto e rinascita. In qualche misura, ogni momento di crisi prepara nel tempo le condizioni oggettive per il suo superamento, favorendo un processo di trasformazione profonda del contesto ambientale in cui la crisi si inserisce ed esercita i suoi effetti.
Infatti, come avviene nel caso di un adolescente, che attraverso un atto di rifiuto e negazione dell'autorità incarnata dall'adulto - il padre, il professore, ecc. -, compie un gesto di autoaffermazione individuale per conquistare la propria autonomia e maturità, così una formazione sociale in crisi, nega sé stessa e si rigenera in modo profondo e totale. Senza un processo di crisi e negazione non potrebbero realizzarsi il progresso e l'emancipazione del genere umano, così come senza una condizione di disagio, rigetto e disobbedienza, vissuta in genere dal soggetto in età adolescenziale, non potrebbe attuarsi pienamente lo sviluppo di una personalità autonoma, libera e matura.
Il termine "crisi" discende dall'etimo greco krisis che vuol dire separazione, scelta, discernimento, in origine era usato nel campo medico, in quello teologico e giuridico. Inizialmente tale voce fu applicata per indicare situazioni problematiche in contesti militari e politici che richiedevano una risposta concreta e risolutiva. Nel 1800 la nozione di crisi venne adottata anche nella branca dell'economia politica, in luogo di definizioni più obsolete e superate quali ristagno o ricaduta. Per "crisi economica capitalistica" in senso convenzionale si intende una brusca interruzione nel ciclo della produzione, che dalla fase espansiva scivola in quella recessiva in un quadro di fallimenti, tracolli delle borse finanziarie e una caduta dei prezzi, causando un periodo di depressione. Le crisi economico-capitalistiche hanno cominciato ad affermarsi a partire dalla prima metà del 1800 con l'avvento della rivoluzione industriale.
La radice etimologica del termine "critica" - dal greco krisis, che deriva dal verbo krino: separare, discernere, decidere - è la medesima del concetto di crisi e significa "analizzare". Uno dei principali difetti della società odierna, un difetto presente anche e soprattutto negli ambienti della sinistra, è esattamente ciò che designo come "crisi della critica", derivante dall'assenza di una seria e rigorosa capacità di indagine e di critica razionale che consenta di interpretare e comprendere il mondo circostante, per provare a modificare la società esistente, renderla migliore e più accettabile per le future generazioni. Questa "crisi della critica" si evidenzia anche rispetto all'attuale scenario di crisi politico-economica mondiale.
Alcuni esempi della disinformazione di massa
Nella storia dell'umanità c'è sempre stato qualcuno pronto a speculare sulle disgrazie e sulle tragedie collettive, tanto sui cataclismi causati dalla furia naturale (terremoti, maremoti, alluvioni, cicloni e altri disastri, rispetto a cui gli uomini non sono esenti da responsabilità dirette) quanto sulle guerre e sulle carneficine umane. Rammentate il clima di panico e sgomento generale suscitato intorno all'aviaria, meglio nota come "influenza dei polli"? Non esagero se dico che ci hanno indotti a temere il peggio, si era persino giunti a paventare un'epidemia, o una pandemia di proporzioni colossali, tanto che qualcuno si è spinto oltre, fino a prospettare uno scenario apocalittico di catastrofe sanitaria e umanitaria. Non occorre risalire ad un'età remota, ma solo a qualche anno fa, per ricordarsene. Il guaio di molti è che hanno la memoria corta...
Ebbene, quali sono stati i danni reali, effettivamente provocati dall'influenza aviaria? Ben pochi, addirittura irrisori di fronte ai terrificanti effetti temuti e sbandierati dagli "esperti". Al contrario, la iattura maggiore è stata causata dalla paura e dalla propaganda terroristica condotta dai mass-media che, come sovente accade in simili casi, procurano disastri ben più gravi e drammatici del male medesimo. Le perdite principali sono stati essenzialmente di ordine economico-finanziario, nella misura in cui l'allarmismo diffuso tra la popolazione ha arrecato enormi svantaggi e rovine al settore dell'avicultura, per cui qualcun altro ne ha sicuramente beneficiato. Chi, dunque, ne ha approfittato? Cui prodest? A chi interessa spaventare la gente? Tra quanti hanno tratto utili incalcolabili figurano senza dubbio le industrie farmaceutiche produttrici di vaccini antinfluenzali. Ma non solo le case farmaceutiche hanno lucrato in modo cospicuo su quello che è stato un business straordinario, un affare economico colossale: l'aviaria, l'influenza dei polli. Ma i veri "polli" sono stati i milioni di cittadini e di consumatori truffati e gabbati, per l'ennesima volta, dagli organi della disinformazione di massa. A tale proposito ricordo che uno dei concetti chiave del pensiero di Goebbels, il famigerato ministro della propaganda nazista, è riassumibile nella frase seguente: "Una bugia ripetuta mille volte diventa più accettabile della verità".
Sappiamo che la storia si ripete due volte: la prima volta in tragedia, la seconda in farsa. E' il caso di una nuova epidemia influenzale, definita impropriamente di origine suina (eppure, è stato appurato che di suino non c'è nulla, senza offesa per le specie suine) e proveniente dal Messico. Una malattia che sta già allarmando in modo paradossale, per non dire grottesco, l'intero genere umano (dis)informato, al punto che alcuni sedicenti "esperti" paventano il pericolo di una nuova "pandemia". Invito tutti a riflettere e a soffermarsi anzitutto sull'etimologia del vocabolo "pandemia", che deriva dal greco pân, cioè "tutto", e démos, che significa "popolo", per cui il termine equivale letteralmente a "tutto il popolo". Dunque, esiste realmente il rischio di una mostruosa catastrofe sanitaria che potrebbe investire intere popolazioni o ci stanno, ancora una volta, prendendo per idioti? Francamente mi pare di aver già assistito, in un recente passato, a simili dimostrazioni di terrorismo mediatico. Credo che si configurino gli estremi per denunciare il reato di "procurato allarme". Ma tant'è...
L'economia della catastrofe (si pensi alla ricostruzione in Abruzzo)
Parimenti mi chiedo chi ha lucrato sulle catastrofi e sulle tragedie internazionali degli ultimi anni come, ad esempio, lo spaventoso tsunami che nel dicembre 2005 devastò l'intero sud-est asiatico, causando un'orribile ecatombe? Un altro esempio. Si pensi all'11 settembre 2001, allo storico attentato contro le Twin Towers. Questa immane tragedia, un orrendo crimine commesso contro l'umanità, ha cinicamente rappresentato un esorbitante affare economico, uno straordinario evento speculativo in borsa, che ha generato immense fortune finanziarie per pochi speculatori, ma ha dissolto ingenti capitali e ricchezze, rovinando milioni di piccoli risparmiatori in tutto il mondo.
Così le tante guerre, note e meno note, attualmente in corso nel mondo, sia le guerre più oscure e dimenticate, sia quelle più seguite, in Iraq, in Afghanistan, in Medio Oriente, in Africa e in Asia, costituiscono innumerevoli opportunità per concludere affari d'oro, per arricchirsi con il sangue, la morte e la sofferenza di milioni di esseri umani, condannati a un destino atroce e sventurato. Ma la guerra è, per antonomasia, un evento catastrofico che annienta non solo le vite umane, ma devasta intere città, gli agglomerati urbani, le strade, le abitazioni, le scuole e gli ospedali, insomma demolisce le infrastrutture, alla stregua di un fenomeno sismico di elevata intensità, di un potente uragano o di una qualsiasi altra calamità naturale. A cui segue necessariamente il momento della ricostruzione delle aree disastrate, una fase che è anch'essa un'occasione lucrosa, utile per stipulare affari e arricchirsi. A tal punto che l'economia della ricostruzione è altrettanto ricca e conveniente quanto lo è un'economia di guerra, ossia un'economia della catastrofe.
Naturalmente, i "frutti marci" di cui parlo sono gli affari osceni siglati da sciacalli, avvoltoi e pescecani, trafficanti e capitalisti privi di scrupoli, che dissanguano e disonorano il genere umano. In tal senso, l'economia della catastrofe è omologa e corrispondente all'economia di guerra, con cui è vincolata da molteplici connessioni e analogie, così come l'economia della ricostruzione è legata in maniera complementare e necessaria ad un'economia di guerra. L'indotto economico che si viene a creare intorno a un processo di ricostruzione, è un circuito assai vasto, complesso e articolato, che impiega decine di migliaia di tecnici, professionisti, ingegneri, architetti, progettisti, lavoratori addetti all'edilizia, ma anche operatori della sanità, della scuola, dei servizi; è un sistema che può favorire l'accumulazione di notevoli fortune economiche. Si rammenti quanto è accaduto durante l'opera di ricostruzione successiva al sisma del 23 novembre 1980 che cancellò in pochi attimi interi paesi in Irpinia e Basilicata.
L'economia della ricostruzione implica la formazione di rendite e titoli azionari quotati in borsa, soggetti alle oscillazioni e ai condizionamenti derivanti da avvenimenti catastrofici quali guerre, terremoti, maremoti, alluvioni, inondazioni, frane, tifoni, uragani e via discorrendo. La ricostruzione che segue un evento distruttivo, costituisce senza dubbio un affare economico gigantesco che può creare opportunità di occupazione e crescita produttiva, ma può anche concedere spazio alle iniziative e alle imprese della criminalità economica organizzata. E' quanto potrebbe accadere anche nel caso del terremoto in Abruzzo e della ricostruzione che seguirà, da cui potranno scaturire le condizioni propizie per un tentativo di ripresa dello "sviluppo", ossia una ripresa delle attività economiche normali, come pure delle speculazioni affaristiche e criminali.
Allarmismo e affarismo
Insomma, tutti noi dovremmo imparare a diffidare delle notizie, soprattutto di quelle più allarmistiche, che quotidianamente ci vengono propinate dai mezzi di comunicazione di massa, cercando di ragionare con la nostra testa, esercitandoci nell'arte, estremamente proficua e salutare, del dubbio e della critica, non per il semplice gusto di polemizzare gratuitamente contro tutto e tutti, ma per liberare ed espandere l'area della nostra consapevolezza, per disintossicarci dalle scorie velenose della disinformazione, che ormai è diventata una vera droga psicologica, un pericoloso ingranaggio che produce un'inconscia forma di dipendenza e di assuefazione mentale a tutti gli effetti. Non a caso, molti di noi dipendono e fanno dipendere la propria esistenza quotidiana dai mass-media, in modo particolare dalla televisione, senza dubitare minimamente delle informazioni ricevute. Anzi, il nuovo oracolo nazional-popolare a cui le masse guardano e si rivolgono come a un totem moderno, a un profeta elettronico, o a una divinità terrena, da cui ottenere responsi autorevoli su tutto e tutti, sembra essere, appunto, la televisione.
Pertanto, non è affatto difficile figurarsi le ragioni per cui la nostra società versa in uno stato di profonda decadenza morale e intellettuale, una società in cui regnano i facili allarmismi, le fobie, le psicosi, l'ipocondria, insomma una società nevrotica e alienante. In altri termini, io credo che dovremmo porci, almeno una tantum, la fatidica domanda: "cui prodest"? A chi serve o conviene una data notizia? A chi giova la manipolazione della verità? Una maggiore attenzione e accortezza in tal senso, ci aiuterebbe se non altro a ragionare, ad esercitare il nostro senso critico, che costituisce un istinto naturale, una virtù che purtroppo il sistema sociale tende a soffocare e reprimere sin dai primi anni vissuti in famiglia e a scuola, costringendoci ad obbedire ciecamente alle "autorità" che sono gli adulti, i genitori, gli insegnanti, lo Stato, la Chiesa, i mass-media, la "santa inquisizione" televisiva.
Critica della crisi
Negli ultimi tempi i mezzi di comunicazione (ossia di disinformazione e persuasione) di massa stanno diffondendo diverse menzogne, mezze o false verità ufficiali, notizie distorte e manipolate come, ad esempio, l'idea che la fase più critica sia sul punto di esaurire i suoi effetti più pesanti e drammatici per lasciare lo spazio ad una nuova ripresa dell'economia mondiale. Parimenti, circolano racconti e versioni discordanti, leggende metropolitane sia sull'effettiva durata e portata della crisi, sia sulle sue cause reali. All'inizio sembrava che qualcuno avesse l'interesse a seminare il panico generale, perché da una situazione di sgomento e turbamento sociale avrebbe potuto ricavare occasioni propizie per realizzare nuove speculazioni finanziarie, approfittare della psicosi collettiva per siglare facilmente affari d'oro e trarre opportunità di lucro individuale. Oggi sembra che si giochi nella direzione opposta, provando a ingenerare l'idea che la bufera sia cessata per sedare gli animi e intorpidire le menti delle persone, quasi a voler prendere tempo per adottare nuove decisioni per l'avvenire.
Ogni giorno si passa con estrema facilità dall'ottimismo più roseo al pessimismo più cupo e viceversa, a seconda dell'esito del vaticinio quotidiano, per cui gli "esperti" oscillano da pre-visioni fauste e positive ad annunci "profetici" meno lieti e più allarmistici. Il G20 ha trasmesso la convinzione puramente illusoria di una capacità di regolamentazione e moralizzazione dei mercati finanziari con l'intento palese di infondere fiducia e ottimismo, suscitando nuove speranze e aspettative verso un risanamento della situazione. In tal modo le Borse cominciano a risalire, il presidente Obama alimenta le speranze annunciando "segnali di ripresa", ma il giorno dopo si smentisce o, comunque, non si sbilancia più di tanto.
Qualcun altro sostiene, in buona o mala fede, che l'attuale crisi potrebbe far regredire l'umanità fino alla "età della pietra". Ma alla cosiddetta "età della pietra" (senza offesa per le comunità umane esistenti in epoca preistorica quando, per ragioni di sopravvivenza, si impose per millenni una sorta di "comunismo necessario", definito "primitivo" dagli studiosi di etnologia e antropologia culturale) già ci siamo, in virtù di un sistema di vita che è a tutti gli effetti "tribale", ossia violento e conflittuale, crudele e disumano. Viviamo già in un sistema sociale ad elevato tasso di criminalità, alienazione e violenza, efferatezza e disumanizzazione, una società brutale e spietata, isterica e nevrotica, in quanto segnata da sentimenti sempre più diffusi e laceranti di odio, egoismo e divisione, da lotte feroci e furibonde, rozze rivalità e discordie tra gli esseri umani, invidie e gelosie che degradano e abbrutiscono le persone costringendole al di sotto del livello minimo della meschinità e della pusillanimità, risentimenti e rancori volgari e grossolani, contraddizioni drammatiche e ingiustizie dolorose, discriminazioni e disuguaglianze materiali sempre crescenti, dissidi e controversie di ogni genere e sorta, catastrofi e guerre sempre più terribili e sanguinose. Dunque, peggio di così...
Comunque sia, malgrado la disinformazione di massa in corso, è ormai evidente a tutti, anche ai più incauti e incalliti ottimisti, che siamo di fronte ad una crisi non congiunturale ma strutturale, una crisi epocale e totale che investe l'intero apparato produttivo internazionale, una crisi di sistema che sta mettendo in discussione il paradigma stesso dello sviluppo economico e dell'accumulazione espansiva del capitale, e sta sfatando un falso mito imposto in Europa e nel mondo intero negli ultimi decenni. Un mito che è riconducibile a un modello di vita, quello edonistico e consumistico, che ora cade fragorosamente in frantumi.
Di certo il consumismo non è stato generato dai comunisti, anzi. La sobrietà e l'austerità del comunismo potrebbero insegnarci a vivere meglio, aiutandoci a recuperare un rapporto più equilibrato, più sano ed autentico con le persone e con le cose. E' indubitabile che il modello economico-consumistico è figlio di un'economia industrializzata retta sul mercato capitalistico. Un sistema che ormai rischia il collasso e la bancarotta (fraudolenta) mondiale, nella misura in cui la domanda sta precipitando in modo vertiginoso causando il panico generale, mentre l'offerta produttiva è aumentata in maniera sproporzionata. Si conferma esattamente la tesi secondo cui saremmo caduti in piena crisi da sovrapproduzione e sottoconsumo: finora si è prodotto in eccesso sfruttando troppo i lavoratori, che si sono progressivamente impoveriti, per cui i consumi sono calati vertiginosamente, nonostante la gente si sia indebitata fino al collo; ora i magazzini sono strapieni di merci invendute e gli operai sono gli unici a pagare la crisi con i licenziamenti e la disoccupazione di massa. Di conseguenza i consumi continuano a precipitare, cosicché la crisi rischia di aggravarsi ulteriormente e si autoalimenta in modo crescente e irreparabile.
Dunque, sorge spontanea la domanda: non è da criminali irresponsabili esortare i cittadini ad essere "ottimisti", a continuare a "consumare", ossia indebitarsi, come se nulla fosse, come ha fatto qualcuno di nostra conoscenza? Indovinate a chi mi riferisco: ma al bandito, piduista e populista, isterico e oscurantista, di Arcore, ovviamente! Nel contempo sorgono altre domande: si poteva proporre una maggiore sobrietà in tempi di consumismo sfrenato pompato dalle reti televisive Mediaset? Si poteva raccomandare l'austerità ai cittadini italiani ai tempi della filosofia iper-consumista dei "tre telefonini a persona", delle "tre o quattro automobili in media a famiglia" e via discorrendo? Nel recente passato, chi avesse osato mettere in discussione il "dogma consumista" avrebbe quantomeno corso il rischio di essere scambiato per un idiota.
Natura del capitalismo e cause reali della crisi
Sappiamo che il capitalismo non è un modo di produzione nato per soddisfare i bisogni primari delle persone, cioè per fabbricare "valori d'uso", bensì per produrre e vendere merci, ossia "valori di scambio". In altre parole, il valore d'uso dei prodotti viene limitato dal valore di scambio delle merci create dal lavoro sociale degli operai. Questa è la natura reale dell'economia capitalista, un sistema retto sulle leggi ferree della concorrenza, dell'accumulazione e del profitto privato.
Sappiamo, inoltre, che le merci sono prodotte dalla forza-lavoro degli operai, che costituisce la potenza creatrice dell'economia reale, forza-lavoro che rappresenta capitale sociale vivo, indispensabile al capitale privato per imporre quel surplus di lavoro da cui estrarre un surplus di valore, ossia di ricchezza, di cui il capitale privato si appropria per realizzare profitti economici a proprio vantaggio.
Sappiamo ancora che il salario corrisposto all'operaio equivale a quella quantità di valore, cioè di reddito, pari al valore d'uso necessario al mantenimento dell'operaio e della sua famiglia. Il valore in eccesso, creato dal lavoro sociale degli operai, corrisponde al plusvalore, al surplus di reddito estratto dal lavoro operaio ed espropriato dal capitalista. In pratica, le merci prodotte in quantità eccessiva dallo sfruttamento del plus-lavoro della manodopera salariata, vengono messe in vendita sul mercato per ottenere profitti privati a beneficio esclusivo della borghesia capitalista. Ora, quando le merci restano invendute sul mercato, si determina una crisi di sovrapproduzione e, di conseguenza, una caduta verticale del saggio di profitto, come periodicamente si è già verificato nella storia secolare del capitalismo: la più grave depressione economica fu quella del 1929. A riguardo occorre precisare che la crisi del '29 si inserì in un momento di espansione dell'economia statunitense, mentre il contesto attuale non è esattamente lo stesso in quanto gli Usa sono entrati già da qualche anno in una fase di declino. Sappiamo, comunque, come il capitalismo ne è uscito: attingendo ingenti risorse finanziarie di origine statale ed occupando, soprattutto militarmente, nuove aree di mercato per piazzare le merci prodotte, mediante guerre di conquista neocoloniale e neoimperialista che hanno condotto al secondo tragico conflitto mondiale.
Vogliono farci credere che la crisi odierna è un fenomeno contingente causato da operazioni speculative compiute nel settore finanziario da una banda di affaristi e speculatori senza scrupoli. Pretendono di imporre la leggenda metropolitana secondo cui il sistema economico è stato avvelenato da eccessive speculazioni in borsa, immettendo una serie di titoli azionari definiti (appunto)"tossici": i famigerati subprime.
La verità è che il capitalismo è, per sua natura, un sistema economico tossico, drogato e velenoso per i lavoratori. Finché il capitalismo ha assicurato a gran parte dei lavoratori occidentali un certo grado di reddito e di benessere materiale, sia pur relativo, tutto sommato ha funzionato, è stato accettato o comunque sopportabile, nonostante i livelli di sfruttamento e di oppressione, malgrado le ingiustizie e le diseguaglianze, le storture, le aberrazioni e le contraddizioni evidenti. Tutto sommato, gli aspetti immorali, alienanti e abominevoli del capitalismo erano di secondaria importanza, come le stesse disparità di trattamento sindacale e di retribuzione salariale, finché il sistema ha garantito a buona parte della popolazione occidentale quella prosperità e quel benessere materiale tali da permettersi consumi di natura voluttuaria. Persino il fatto che i supermanager guadagnassero compensi cento volte superiori rispetto al salario medio di un operaio, era un dato accettato e accettabile. In ogni caso l'elemento fondamentale è sempre stato per tutti (compresi i sindacati e i partiti della sinistra borghese e riformista) che i lavoratori percepissero emolumenti salariali sufficienti a mantenere un tenore di vita di tipo consumistico, che oggi non è più possibile.
L'attuale crisi non è affatto congiunturale, momentanea o accidentale, ma sistemica, è una crisi strutturale di portata epocale. E' una crisi globale di sovrapproduzione e sottoconsumo, derivante dall'eccessivo sviluppo delle forze produttive, che è stata aggravata e accelerata da un processo di esaurimento e saturazione dei mercati internazionali. Questa rappresenta la differenza sostanziale e lo straordinario elemento di novità rispetto alle crisi precedenti, per cui quella in corso sembra essere la crisi conclusiva del ciclo storico compiuto dal modo di produzione capitalistico. Per risolvere tale crisi non serviranno misure-tampone o interventi ormai inutili e tardivi, volti alla regolamentazione dei mercati, all'eliminazione dei "paradisi fiscali", all'autoriduzione dei compensi per i manager, oppure alla svalutazione monetaria del dollaro o altri provvedimenti di pura facciata e di natura demagogica. Probabilmente sarà la classe operaia internazionale a portare la risposta risolutiva alla crisi economica globale. In quale modo? Rivoltando come un calzino l'intero sistema economico e sociale...
Globalizzazione economica e delocalizzazione industriale
In uno scenario di globalizzazione economica come quello delineatosi negli ultimi anni, hanno senza dubbio inciso alcuni fenomeni di delocalizzazione industriale. Tali processi di ristrutturazione tecnologica e di trasferimento degli impianti produttivi obsoleti nei paesi industrialmente arretrati del Sud del mondo, laddove il costo del lavoro è decisamente inferiore, hanno favorito e incentivato uno sfruttamento crescente della manodopera a basso costo, ma nel contempo hanno contribuito a indebolire le condizioni economico-sindacali e il potere d'acquisto dei salari dei lavoratori occidentali, causando effetti di indebitamento e sottoconsumo di massa. Ciò significa che in ogni caso quella in atto è una crisi di sovrapproduzione e sottoconsumo, nel senso che altrove (non più Italia ma, ad esempio, in Albania, in Turchia o in Romania) si è prodotto in eccesso rispetto alla domanda reale offerta da un mercato sempre più liberalizzato e, di conseguenza, sempre più impoverito e, in ultima analisi, saturo.
Il fatto è che le masse dei produttori, ossia le classi lavoratrici, formano anche il principale bacino di utenza e consumo delle merci, che restano invendute proprio perché gli operai percepiscono salari sempre più bassi e detengono un potere d'acquisto sempre più debole e inconsistente. Oggi, con i licenziamenti in corso e la minaccia incombente della disoccupazione, condannate ad uno stato di precarietà permanente, le masse consumano inevitabilmente di meno, oppure sono costrette a indebitarsi fortemente. Non a caso sono in costante aumento gli acquisti a rate, ossia cresce l'indebitamento economico, e ciò che non fa altro che appesantire l'attuale recessione economica. Insomma, si tratta di un circolo vizioso destinato ad aggravarsi sempre più. Ma questa immagine potrebbe essere addirittura eufemistica o riduttiva.
Soluzioni di comodo
L'ipotesi più accreditata, proveniente da molti ambienti sedicenti "progressisti" e "di sinistra", suggerita per vincere la crisi odierna (una crisi senza precedenti e riferimenti storici in assoluto) non sarebbe nel superamento o nell'abolizione definitiva del capitalismo (che mi pare francamente l'unica via d'uscita per evitare conseguenze più catastrofiche per l'intero genere umano), ma in una soluzione di stampo "keynesiano", una risposta già sperimentata in passato con esiti solo transitoriamente positivi.
La storia ci insegna che l'intervento dello Stato viene invocato (dai padroni capitalisti e dai loro servi e lacchè) solo in tempi di crisi e di grave depressione economica, per "socializzare le perdite", ovvero per salvare gli interessi delle imprese capitalistiche private, oppure per assorbire e nazionalizzare le banche ormai fallite, insomma per soccorrere il sistema capitalistico quando rischia di collassare, facendo ancora una volta pagare gli effetti, drammatici e dolorosi, della crisi esclusivamente alle masse lavoratrici, mentre in tempi di "vacche grasse" si pretende di ripristinare e rilanciare la "libertà del mercato", ovvero una totale e sfrenata "anarchia" dei profitti e degli affari senza alcun controllo e alcuna ingerenza da parte dello Stato, tornando a privatizzare gli utili e tornando a violare sistematicamente ogni regola ed ogni più elementare diritto. Beh, mi pare una soluzione di comodo e di convenienza ad esclusivo vantaggio dei soliti sciacalli e speculatori, affaristi cinici e privi di scrupoli, che restano puntualmente impuniti per i loro misfatti e i loro delitti contro la società.
Una via d'uscita dal vicolo cieco della barbarie
Se non vogliamo lasciarci travolgere dagli eventi in corso, che preparano scenari futuri sempre più difficili e drammatici, è necessario non solo modificare nel breve periodo la mentalità delle persone, riducendo i consumi e abituandosi ad un tenore di vita più sobrio ed austero, quanto soprattutto agire affinché, nel lungo periodo, si possa mutare in modo radicale l'assetto stesso dei rapporti di produzione e di proprietà, vale a dire i rapporti di potere all'interno della società. In caso contrario, se si procede e si persevera nell'attuale direzione, che è quella che ha provocato la crisi odierna, si corre il rischio di imboccare un vicolo cieco senza via d'uscita, una deriva che condurrà direttamente verso la barbarie. Non sono un catastrofista, ma nemmeno uno sciocco ottimista. Bisogna prendere atto della realtà effettiva, della portata epocale della crisi, per provare a ipotizzare gli scenari futuri, non certo rosei e felici, prospettando una via d'uscita globale che si ponga come un'alternativa seria e concreta alla rovina e all'auto-dissoluzione del genere umano.
D'altronde, anche altri sistemi politico-economici del passato si erano illusi di essere "forti" proprio nel momento di massima crisi e debolezza, ma poi... sono miseramente caduti. Ecco qualche esempio storico. Si pensi all'assolutismo monarchico-feudale dell'Ancien Régime in Francia all'epoca della Rivoluzione del 1789. Oppure all'autocrazia zarista alla vigilia della Rivoluzione bolscevica del 1917. Risalendo molto più indietro nei secoli, si pensi al crollo dell'impero romano, ormai debole, marcio e corrotto al suo interno e per questo più facilmente esposto agli assalti e alle invasioni dei "barbari"... Potrei proseguire con altri esempi, ma credo che bastino quelli citati.
Necessità di una rottura storica rivoluzionaria
Non essendo un fatalista, non credo all'ineluttabilità del crollo del capitalismo, come non credo all'ineluttabilità del destino in generale. Semmai posso accettare e concepire l'idea di necessità, intesa in un'accezione non deterministica o meccanicistica, bensì come una tendenza potenzialmente intrinseca allo sviluppo storico. In tal senso penso alla necessità del crollo della società esistente, ovvero alla necessità di una rottura storica rivoluzionaria. Una necessità oggettivamente determinata che si deve accompagnare e legare a condizioni volontaristiche e a fattori soggettivi, quindi ad elementi di volontà e capacità politiche, alla possibilità ed alla capacità di un'azione politicamente rivoluzionaria.
Ciò che finora è mancato nella mia riflessione è soprattutto un'analisi critica concernente gli aspetti e le problematiche di ordine soggettivo e volontaristico, ossia un ragionamento politico che consideri ed esamini le contraddizioni tra le forze sociali e politiche nel quadro storico esistente. Non sono talmente ingenuo o sciocco da illudermi che il crollo del capitalismo sia inevitabile o che i capitalisti, di loro spontanea volontà, possano provvedere a farsi espropriare e a socializzare i mezzi della produzione economica. Non ci può essere alcun dubbio su questo punto.
Sono sinceramente convinto che tale compito rivoluzionario (e sottolineo il termine "rivoluzionario" per indicare il senso, la volontà e la necessità della rottura storica che è una tendenza potenzialmente intrinseca al momento di crisi e di transizione davvero epocale che stiamo vivendo, una crisi di sistema che è molto più vasta e complessa di quanto sembri) è un atto soprattutto volontaristico e soggettivo, che spetta alle forze produttive, ossia alle classi lavoratrici, se e quando queste sapranno organizzarsi materialmente e politicamente per la conquista e la (auto)gestione del potere e della proprietà economica. Allo stato attuale, tale risultato sembra ancora lontano dalla sua realizzazione storica. Infatti, il proletariato internazionale, le masse lavoratrici stanno già rispondendo alla crisi capitalista, ma le lotte operaie, benché condotte ad un livello ancora elementare e in forme spontanee, vengono puntualmente oscurate dai mass-media ufficiali, che evidentemente temono la diffusione e l'estensione delle lotte di classe su una scala più vasta. Ma ricordo che siamo solo ad uno stadio iniziale e non ancora esplosivo della crisi e, quindi, nella fase originaria ed embrionale delle contraddizioni di classe tra la borghesia capitalista e il proletariato internazionale.
Lucio Garofalo